Think Pink: del terzo polo, delle mode e dei mezzi vini...

Think Pink: del terzo polo, delle mode e dei mezzi vini...

Degustando
di Davide Bonassi
02 luglio 2008

Villa Bertanzi, già villa Brunati ha ospitato lo scorso weekend la prima edizione di ItaliainRosa. Un ritorno a casa...

..., visto che la villa è stata testimone a cavallo tra ottocento e i primi anni del novecento delle sperimentazioni in rosato del fu Senatore della Repubblica Pompeo Molmenti, che portarono alla messa a punto della ricetta del Chiaretto. Ad aprire la manifestazione, come consuetudine, un convegno che ha visto sfilare al microfono numerosi produttori di vini rosati, in rappresentanza di tutto l'italico stivale. Alla maniera di flash vado a sintetizzare il contenuto degli interventi. Mattia Vezzola ha proposto la sua concezione del Chiaretto come vino che non debba essere costretto a giocarsi tutto nei pochi mesi successivi alla sua immissione in commercio. Gianfranco Comincioli ha sottolineato come non siano state ancora esplorate a fondo tutte le potenzialità delle uve utilizzate per il Chiaretto (groppello, barbera, marzemino e sangiovese) e dello stesso vino. Giuseppe Rizzardi ha testimoniato del sucesso del Bardolino DOC Chiaretto sui rossi provenienti dalla stessa DOC sia per motivi di felice espressione tramite la vinificazione in rosa delle uve prodotte in zona, soprattutto Corvina e Rondinella, sia per motivi di resa massima per ettaro ammessa dal disciplinare (13 t/ha) che forse preclude la strada che porta a grandi rossi. Matilde Poggi ha invece contestato l'opportunità di puntare a chiaretti longevi. Nella sua interpretazione del Bardolino Chiaretto l'obiettivo è quello di un vino goloso, con profumi avvolgenti, intensi e molto fruttati. Inoltre colori scarichi per marcare la provenienza nordica, esaltazione delle note speziate e fruttate che soprattutto la corvina è in grado di apportare. Coerentemente chiude le sue bottiglie con tappi a vite. Pia Berlucchi ci riporta al 1978, quando la sua azienda decide di produrre un brut rosè che mette in discussione due degli stereotipi dell'epoca per questa tipologia: il primo che voleva il metodo classico solo bianco; il secondo che vedeva già nel colore dei rosè l'affinità di questi vini con i dolci a fine pasto. Anche Mario Pojer riporta le lancette indietro nel tempo, per l'esattezza al 1975. Ricorda come novello imprenditore vinicolo in quel di Faedo con due ettari a schiava decise di produrre fin da subito tanto rosato, e fin da subito di farlo troppo profumato, troppo acido, troppo poco alcolico da creare una rivoluzione. Christian Werth inalbera la bandiera del Lagrein Kretzer, tra i più antichi vini rosati d'Europa. Oggi rappresentativo di uno scarso 7% della produzione, contro l'80% del passato, è il Lagrein Dunkel, cioè scuro in quanto vinificato in rosso, a farla invece da padrone. Giorgio Colutta testimonia invece di come la decisione di produrre un vino rosato sia spesso per molte cantine frutto di casualità: nello specifico un'esperienza istituzionale che lo coinvolse nell'organizzazione di una manifestazione nella suo Friuli centrata su rose e rosati. Da quell'esperienza ha poi preso le mosse un progetto che si è concretizzato in un vino spumante rosè a base di merlot e pinot nero. Carlo Garofoli data ai primi anni ottanta l'uscita sul mercato di un rosato serio da uve montepulciano, dopo il successo negli anni '70 di versioni più disimpegnate, frizzanti e commercializzate in bottiglie a forma di anfora. Si lascia però scappare che le uve di montepulciano da lui impiegate per il suo Kòmaros è quasi un peccato vinificarle in rosa! Riccardo Brighina parla dell'omaggio che la sua azienda ha voluto fare al vino della tradizione e della quotidianità abruzzese. Il Montepulciano d'Abruzzo DOC Cerasuolo è ad oggi l'unica denominazione d'origine in rosato da monovitigno in Italia. Susy Ceraudo porta l'esperienza della sua azienda con l'uva gaglioppo in quel di Cirò Marina. Testimonia dello spazio che la sperimentazione oltre i disciplinari anche nel mondo dei rosati può e deve avere. Piernicola Leone de Castris racconta del Five Roses, la più vecchia etichetta di rosato italiana. Data 64 anni fa l'uscita della prima bottiglia, recante in etichetta l'annata 1943. Allora la miscela di negroamaro e malvasia nera fini non in bottiglie bordolesi, ma bensì in vuoti di birra da 1,060 litri, recuperati grazie alla benevolenza di un generale americano. Fausto Maculan ricorda un suo viaggio di gioventù a Tavel, patria indiscussa dei rosati di qualità francesi. Da quel viaggio nacque poi un suo rosato, il Costadolio, interrotto sul finire degli anni novanta e ripreso solo di recente. Nel pubblico presente si insinua il dubbio che il produrre e vendere vini rosati non sia solo rose e fiori, ma anche spine. Carlo Casavecchia riporta invece della quarantennale esperienza della Duca di Salaparuta con il Corvo Rosa da nerello mascalese, che sceso dalle pendici dell'etna nella piana trapanese da uve atte soprattuto alla vinificazione in rosato. Nel suo intervento non manca di portare una riflessione che agita ulteriormente le acque: il consumo dei rosati è ancora a macchia di leopardo geograficamente parlando, e ciò ne limita non poco il successo. Santi Planeta descrive il percoso che ha portato la sua azienda a scartare un blend da frappato e syrah: il primo tendeva a portare note olfattive imperfette. L'approdo è stato quindi un vino rosato tutto syrah, capace di regalare profumi eleganti e una giusta struttura. Paolo Pizziol vanta un primo rosè già nel lontano 1979, giusto un anno dopo la fondazione della sua azienda. Nel suo caso il punto d'arrivo, delineatosi soprattutto a partire dagli anni '90, è stato ad un rosè demisec da sposare con la pasticceria a fine pasto. Scelta diametralmente opposta rispetto a quanto emerso dall'intervento di Pia Berlucchi, l'altra franciacortina presente. Dulcis in fundo: in questo caso poco dolce e molto affondo. E' Giovanni Longo, past president Vinarius, a scuotere l'audience con un intervento che getta sul tavolo questioni non da poco: venti regioni italiane rappresentante ad ItaliainRosa non testimoniano forse di un vino inflazionato, ubiquitario nei disciplinari, privo di una sua identità di terroir? E ancora, il successo che gli spumanti rosè sembrano avere in questo momento sul mercato non è forse incidentale conseguenza della promozione fatta a questo tipo di vino dai produttori della Champagne? E' il vino rosato un vino da regalo, cioè è un vino che da certezze qualitative? Alla prima domanda Longo risponde perimetrando al Salento, all'Abruzzo e al bacino gardesano le uniche zone vocate alla produzione di rosati di qualità in Italia. Alla seconda risponde affermativamente, sottolineando come ancora una volta i vini e i produttori italiani vadano a rimorchio anzichè farsi attivamente fautori delle proprie fortune. Al terzo quesito risponde con un secco no: i vini rosati non possono essere vini da regalo, perchè quando si fà un regalo si vogliono certezze. Con l'intervento di Angelo Peretti il convegno si chiude, recuperando dall'apnea indotta dall'intervento di Longo. Peretti tratteggia i caratteri premianti, a suo gusto, che dovrebbero essere presenti in un rosato di qualità: tanto piccolo frutto, florealità e speziatura al naso, freschezza in bocca. Dati questi caratteri il rosato può essere a tutti gli effetti considerato un vino di una certa complessità e come tale può ambire ad abbinamenti con piatti altrettanto complessi. Perchè non provare un rosato su una estiva caprese? con un prosciutto e melone? con carni bianche magari arricchite da scaglie di tartufo nero estivo (scorzone)? perchè non bere rosato con sushi e sashimi? perchè non prendere in considerazione i rosati come gli unici vini in grado di mediare componenti organolettiche di piatti della cucina orientale e magrebina, senza prevaricare?

Tra i banchi d'assaggio di Moniga del Garda i 250 vini rosati presenti (!) hanno rivendicato a pieno titolo l'esistenza di un terzo polo, con i vini bianchi e con i vini rossi. Think pink, pensiamo positivo: per alcuni di questi vini il successo di mercato è già realtà. Per altri rosati, magari prodotti soltanto da pochi anni, il rincorrere quella che sembra essere, non solo, ma anche una moda prospetta un futuro meno roseo. Quello che è assodato, rispondendo all'esigenza di certezza invocata da uno dei relatori del convegno, è che i vini proposti dalla rassegna si sono dimostrati tutt'altro che mezzi vini. Rimane da fare ancora molto sul versante della produzione, per diminuire la troppa varietà e variabilità organolettica di questi vini, e sul versante del consumatore, per educarlo ad apprezzare la piacevolezza dei rosati. Auspicando una nuova edizione, PROSIT!

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