La redenzione del meunier

Una serata dedicata al meunier, considerato il vitigno che completa l’assemblaggio dello Champagne, ma che in purezza si rivela sorprendente. Una degustazione interessante di sei etichette condotta da Samuel Cogliati rende onore a questa uva un po’ bistrattata.

Giacomo Pelatti

Normalmente reputata come l’uva atta a completare la cuvée base di un produttore di Champagne, del meunier se ne parla spesso in modo sbrigativo. Viene certamente considerato un vitigno importante, tanto che la maggioranza dei vignerons e delle Maisons ne possiedono diversi filari, ma rimane tendenzialmente confinato al solo ruolo di rifinitura della combinazione tra lo chardonnay e il pinot noir. Nelle stesse schede tecniche degli Champagne e di informazione relativa a questa zona vitivinicola francese, di norma si indica il pinot noir come l’uva che dona struttura e potenza e lo chardonnay come l’autore della finezza e dell’eleganza, mentre il meunier… completa l’assemblaggio. Il concetto non è completamente errato, poiché in effetti da quest’ultimo otteniamo un vino meno strutturato, più rotondo, che tenderà a maturare più velocemente in bottiglia, tutte caratteristiche preziose per uno Champagne che è alla base della gamma, il cui ruolo è quello di essere un prodotto piacevole e immediato per il consumatore.

I dati illustrati da Samuel Cogliati parlano chiaro: il 31,14% del totale di 34321 ha di terreno vitato di tutta la Champagne è coltivato a meunier, che lo fa risultare il secondo vitigno per presenza, dietro il pinot noir. Se consideriamo solo la zona storica (escludendo quindi la Côte des Bar, a maggioranza pinot noir), il meunier balza in testa. Ma perché questi numeri notevoli? La motivazione risiede nella grande capacità di essere duttile e utilitaristico, di sapersi adattare ai diversi terreni, di essere robusto e resistente ai marciumi e alle gelate, potendo essere quindi piantato nelle zone basse, fredde e umide dei vigneti, senza soffrire troppo le condizioni avverse, caratteristiche che gli altri due vitigni non possiedono. Tutti questi elementi garantiscono affidabilità e produttività e lo elevano a presenza fondamentale nell’universo champenoise.

Nato da una mutazione spontanea del pinot noir qualche centinaio di anni fa nella zona della Brie, nominato morillon taconné nel sedicesimo secolo, il meunier (mugnaio in francese) deve il suo nome attuale all’abbondante presenza di pruina sugli acini e di finissima peluria bianca sulle foglie, tanto da far pensare a farina sparsa proprio da un mugnaio di passaggio. Nel diciannovesimo secolo assunse un ruolo decisivo relativamente alla necessità di accontentare l’enorme richiesta di vino proveniente da Parigi, in particolare dal ceto dei lavoratori, grazie alla sua produttività e regolarità. 

Negli ultimi anni le cose sono cambiate. Il meunier è arretrato nella produzione complessiva, perdendo circa il 18% a partire dal secondo dopoguerra, in particolare in favore dello chardonnay. Oggi comunque il vitigno “cosparso di farina” domina la Vallée de la Marne a ovest ed è ben presente nella Montaigne de Reims a est.

La risposta alla domanda: «Ma vale la pena valorizzare questa uva come protagonista assoluta e unica di uno Champagne?» va ricercata nella sua collocazione nei vigneti. Il suo utilizzo “dove non arrivano gli altri due” ha il risvolto negativo di limitare il meunier e di non permettergli di esprimersi al meglio, non potendo mostrare tutte le sue innate qualità. Quindi, se coltivato nei terreni a lui più congeniali, nei giusti microclimi e affinato con cura e pazienza in cantina, il meunier sarà assolutamente in grado di regalare Champagne complessi, speziati e fruttati, completi, eleganti e persistenti, capaci di elargire emozioni a chi avrà la voglia di ascoltarli e apprezzarli senza pregiudizi. I primi a credere in questo sono i produttori, i quali attribuiscono sempre più importanza a questo vitigno, supportati dalla positiva risposta del mercato.

La conferma la troviamo nei 6 meunier in purezza degustati.

Lo Champagne Brut Nature Pur Meunier di Christophe Mignon (assemblaggio 2012 e 2013, circa 3 anni sui lieviti, sboccatura febbraio 2017) profuma di susina e mela gialla, nocciola, zenzero e aloe, rotondo con iniziale sferzata fresca e sapida e ottima persistenza.

Lo Champagne Cuvée Spéciale Brut Nature di Charlot Père et Fils (base 2016, circa 3 anni sui lieviti) propone scorza di cedro, affumicatura, spezie pungenti e cuoio, mentre in bocca è teso, minerale e carnoso, con lungo finale coerente con il naso.


I viniLo Champagne Les Vignes de Vrigny Premier Cru Brut di Égly-Ouriet (assemblaggio 2013, 2014 e 2015, circa 3 anni sui lieviti, sboccatura luglio 2019) inizialmente si caratterizza per le note di chiodi di garofano, scorza di lime, menta, mela e liquore di amarena, per poi esplodere in fruttato intenso di fragola e ciliegia, unite alla crema pasticciera; all’assaggio è raffinato, teso e equilibrato allo stesso tempo e con grande freschezza nel finale. Uno «champagne di ricerca e savoir-faire», commenta Cogliati”.

Lo Champagne Les Vignes d’Autrefois Extra Brut 2014 di Laherte Frères (quasi 3 anni sui lieviti) è balsamico tanto che «ricorda quasi una foresta alpina», con profumi di talco e brioche; il sorso è potente, succoso e quadrato, con ottima persistenza.

Lo Champagne BD’M Brut Nature di Bourgeois-Diaz (base 2015, circa 4 anni sui lieviti, sboccatura febbraio 2019) profuma di limone fresco, peperoncino e mela grattugiata, mentre gioca tra il balsamico e l’affumicato; in bocca dà una sensazione quasi tannica, tattile, di ferma decisione e tensione, con lungo finale di frutti rossi.

Lo Champagne La Vigne d’Or Brut Nature 2004 di Tarlant (circa 13 anni sui lieviti, sboccatura marzo 2018) ci fa viaggiare nel passato con le sue note di dattero, fiori gialli, nocciola, erbe aromatiche e confettura di rabarbaro; all’assaggio non dimostra la sua vera età, grazie alla freschezza e verticalità, con una notevole persistenza che denota una forte personalità.