Montalbera, ovvero: diventare grandi imparando a valorizzare un vitigno

Il racconto di un'azienda che dal nulla cosmico ha creato la propria fortuna su di un'uva rinnegata.

Altai Garin

Non è certo la prima volta che ci troviamo ad ascoltare le gesta di un'azienda che ha raccolto una sfida e sulla stessa ha plasmato favorevolmente il proprio destino. Il canovaccio è simile a tanti altri: un'uva di casa propria ripresa e rilanciata nella maniera più intelligente raccogliendo il favore di critica e mercato.

Ciò che fa la differenza in queste trame così simili tra loro sono le piccole cose, i gesti, i personaggi e, per noi che abbiamo fatto dell'olfazione il nostro quid, i profumi. Sono questi dettagli che descrivono in pieno la fatica e il fascino dietro la storia dell'azienda di Castagnole Monferrato ed è Francesco Ferrari il relatore che indirizza sapientemente la serata.

Quindi: perché il ruchè?

«Il ruchè è un’uva che nessuno voleva e pur moribonda è resistita»: questa la lettura di Vincenzo Servellodirettore commerciale dell’azienda. Un incipit che incuriosisce e invita all'approfondimento sull'uva semi-aromatica più sfacciatamente piemontese, nata dall'incrocio spontaneo di croatina e della latitante malvasia aromatica di Parma. La letteratura si ingrandisce quando Francesco ci racconta di un prete, tale Don Giacomo Cauda, che negli anni ‘60-‘70, in opposizione alle direttive curiali, decise di restituire dignità a un vitigno snobbato per la sua poco esuberante produttività.

I “ventotto bottiglioni” di ruchè della prima vendemmia del prete impallidiscono difronte agli 82 ettari vitati attuali (su 160 totali) di Montalbera, ma raccontano poeticamente il primo passo della lunga cavalcata conclusa nel 2010 con la nascita della DOCG.

Non di solo ruchè, però, vive il castagnolese, e allora il profilo aziendale si apre su altri progetti dell'universo Montalbera ed è con il grignolino, un ossimoro a tutti gli effetti, che si apre la degustazione. «Il vino da tavola di tutte le persone agiate» lo definiva Gallesio nell’800, «grignolino né acqua né vino» risponde un collega dal pubblico. Come sempre, le castagne dal fuoco ce le toglie il maestro Veronelli: «il più bianco tra i vini rossi ed il più rosso tra i vini bianchi».

Ed è proprio in questa ampelografica dicotomia che l'azienda si è tuffata a piè pari, tirando fuori dal cilindro uno spumante da Charmat lungo: il Montalbera Brut. Il colore rosa tenue ci apre le porte alla degustazione del vino: fine, dalle invitanti bollicine, risultato dei sei mesi di maturazione in autoclave. Il naso è classicamente fresco, con esordi floreali di rosa e geranio e un continum che oscilla tra la fragolina di bosco e la caramella gommosa. Assaggiandolo ritroviamo la caratteristica più classica del vitigno: la buona freschezza di beva.

Il secondo calice è un bianco che racconta di una sintesi tra due vitigni bianchi internazionali declinati nella loro versione più schietta. Calypsos 2016 unisce l'opulenza del viogner alla freschezza dello chardonnay, prediligendo il varietale del primo, e confermando il rapporto 4 a 1 nel blend. Maturazione in acciaio, veste paglierina chiara e un tripudio di profumi di frutta a polpa bianca e fiori di acacia e di campo. Le caratteristiche del viognier sgomitano in bocca; un sorso morbido e salino fa spazio a ritorni di albicocca matura, biglietto da visita dell'aromaticità del viognier. Il finale sorprendentemente balsamico chiude la degustazione.

Con il terzo vino l'azienda risponde al falso mito che vede il grignolino come vitigno inadatto alla creazione di vini di struttura. Lanfora 2016 è un vino che racconta di un grignolino preso per mano e trasformato in vino d’attesa, di corpo e di sorprendente complessità. Il colore è quello dei grandi rossi italiani, granato brillante, didatticamente cristallino. Il profumo ha diversi assi nella manica: piccoli frutti rossi, viola, resina fresca e spunti speziati, con il chiodo di garofano a farla da padrone. Il tannino racconta di una delle caratteristiche peculiari della cultivar, con la grande presenza tattile del tannino data dal vinacciolo e ingentilita dall'uso pionieristico della maturazione in anfora. Il sorso è fresco e il tenore alcolico è ben integrato grazie alla compattezza del liquido. Un vino dichiaratamente gastronomico: “Paniscia novarese!”, l’abbinamento perfetto.

Gli ultimi tre assaggi sono tre declinazioni di ruchè che raccontano le caratteristiche del principe di Castagnole Monferrato nella maniera più esaustiva possibile.

La Tradizione 2017, nomen omen. A detta dei suoi stessi proprietari descrive «la classicità del ruchè»: colore rubino pieno con un profumo netto, di rosa rossa, motivo per cui il vitigno è iscritto al ristretto club dei semi-aromatici. Il naso capta sentori di agrumi, litchi e pepe bianco, mentre la bocca delinea un prodotto che ha nelle morbidezze le sue qualità: polialcoli e pseudo-calore che predominano a discapito del tannino. Un'acidità contenuta sentenzia la scarsa propensione all'invecchiamento, proclamandone al contempo la sua ottima beva già da ora.

Il secondo ruchè, nonostante una maturazione in acciaio pari al primo, cambia le carte in tavola. Laccento 2016 è figlio di una scelta vendemmiale diversa (con un 10% di uva surmatura). Il vino si presenta più cupo, più profumato e più dolce. Il bouquet aromatico rimane pressoché lo stesso: fiori, frutta, spezie. Cambiano però gli abiti degli interpreti. La rosa è in appassimento, l'agrume è più scuro e le spezie virano a Oriente. Il sorso rivela il residuo zuccherino che ben si sposa con gli aromi che il vino sprigiona. Al netto siamo di fronte a una complessità crescente.

Terminiamo la degustazione con un blend ottenuto dall'inserimento del 10% di barbera «per regalare un tocco di acidità». Limpronta 2015 matura per un anno in tonneaux senza la presenza di uve vendemmiate tardivamente. Un “ruchè esasperato”, conclude Francesco, perché effettivamente questo vino prosegue il discorso iniziato dal precedente. I profumi evolvono, con la rosa che diventa secca, la spezia che si trasforma in vaniglia e i sentori di tabacco e tè che si aggiungono. Il sorso è nettamente caldo, ma la scelta aziendale di inserire la barbera dona equilibrio e persistenza all'assaggio, regalando un finale che lascia in bocca un sentore amarognolo di liquirizia. 

«A differenza del nebbiolo che cresce dove vuole ma racconta del terreno e dell'annata, il ruchè tende a parlare più di se stesso, portando all'attenzione le caratteristiche che lo contraddistinguono e surclassando la questione pedoclimatica», conclude Francesco.

Ed ecco il lieto fine, per un vitigno che, malgrado il cataclisma di inizio 900', è sopravvissuto, continuando a parlare di sé senza snaturarsi e senza perdere quell'identità che, piano piano, lo sta rendendo grande.