Pantelleria, il Ben Ryé e gli elementi del cosmo

Pantelleria, il Ben Ryé e gli elementi del cosmo

Degustando
di Sara Missaglia
20 settembre 2021

Ben Ryé è il vino che racconta di vento, acqua, terra e fuoco: il passito dell’isola di Pantelleria che Davide Garofalo ha deciso di farci conoscere in questa verticale strepitosa.

Ben Ryé non ha in sé solo la Sicilia, ma la straordinaria mutevolezza e la grandiosità del dinamismo che un territorio come Pantelleria, dalle caratteristiche uniche, può dare. Questo è il punto di partenza (ma anche di arrivo, in un percorso che dalla terrazza del Westin Palace Hotel ci ha portato virtualmente nell’isola) per una serata che ha un forte contenuto non solo enologico, ma anche emozionale. “Ritroviamoci”, il naming della rassegna, porta con sé l’idea della ripresa e della ripartenza dopo le ristrettezze legate all’emergenza sanitaria, ed esprime tutto il desiderio di ritrovarsi insieme, finalmente vis-à-vis.

Davide GarofaloSeguire le stelle del cielo di Milano sfiorando con l’immaginazione le correnti del mare, lasciandosi accarezzare dal vento, calpestando la terra arsa dal sole, ci fa - per un istante - toccare quel fuoco di origine vulcanica fatto di magma e scintille da cui è nata Pantelleria. L’isola è lontana da tutto e da tutti, fisicamente e spiritualmente, ed evoca una sensazione spazio-temporale assoluta: è una sorta di ombelico del Mediterraneo, dorso ruvido nella terra e nei toponimi. I nomi delle contrade, a tratti così difficili da pronunciare, sembrano raccontare di una fatica millenaria: Khamma, Rekhale, Karusica, Nikà, Bugéber, Bukkurám, Gadír, Muéggen, Tikhirrikhi, Triqbabini, Triqbonsulton, Khattbuali (per citarne alcune) vivono tra arabo e dialetto pantesco. «È una terra che, per la sua verità naturale, fa venire voglia di parlare di filosofi presocratici» racconta Davide. «Talete, Anassimandro, Anassimene, tra terra, aria, acqua e fuoco. Queste sono le quattro forze generatrici per capire l’archè, il principio da cui hanno origine le cose materiali».

I sette vini, che costituiscono la nostra verticale, sono in realtà sette momenti, istantanee della disputa millenaria tra queste forze. In un ambiente apparentemente ostile e inadatto alla vite (e alla vita) prende forma e corpo il passito più famoso del nostro Paese, il Ben Ryé di Donnafugata, che tra mito e realtà continua ad affascinare intere generazioni di appassionati. Le verticali hanno inoltre un fascino straordinario, e queste sette annate raccontate da Davide Garofalo con la magia degustativa e lessicale che gli sono proprie, sembrano arrivare non solo al naso e al palato dei presenti ma, soprattutto, al cuore. E nella degustazione il confronto tra degustatori e vino avviene attraverso l’attribuzione a ogni vendemmia di una tra le quattro forze della filosofia presocratica.

Ben RyéInsoliti e sorprendenti (Davide non finisce mai di stupirci) gli abbinamenti cibo-vino, tutti da provare. Tra tante emozioni, una nota tecnica: il passito di fama planetaria viene prodotto in modo particolare. Alla metà di agosto si procede con la prima vendemmia, seguita dall’appassimento dei grappoli maturi per circa 3 settimane. L’appassimento concentra fibre, zuccheri, sali minerali e composti fenolici. Successivamente viene fatta un'altra vendemmia da contrade diverse di Donnafugata (distribuite sul territorio) e si procede a una vinificazione del mosto fresco a cui fa seguito l’immissione, a più riprese, di uva passa che viene sgrappolata a mano per non danneggiare gli acini. Durante la macerazione l’uva sottoposta ad appassimento rilascia un ampio bouquet olfattivo, oltre a dolcezza, freschezza ed elegante aromaticità. Dopo un mese di fermentazione il vino passa in vasche d’acciaio per 7-8 mesi seguiti da 12 mesi di affinamento determinanti per questo tipo di vino.

 

La degustazione

2016
Esemplare giovane, riconoscibilissimo, grazie al sentore di albicocca sciroppata, il suo “trademark”. Al naso gelsomino, glicine, una nota fresca quasi mentolata, anice, finocchietto selvatico, origano. In bocca ha una nota alcolica un po’ indisciplinata, ma una grande freschezza più che salinità. Corrispondenza gusto-olfattiva eccellente. Un po’ di salsedine e sabbia bagnata. Il 2016 ha avuto un andamento stagionale critico dovuto ai forti venti primaverili: lo scirocco è devastante per la fioritura della vite e inibisce lo sviluppo. Questo ha comportato un ritardo vendemmiando oltre le date consuete, con un diradamento di più del 30% dei grappoli. Figlio dell’etere, dell’aria, dei venti. Abbinamento al sushi, anche con tanta presenza di wasabi, e alle fritture sempre esotiche.

2015
Colore differente, barbagli dorati. Agrume amaro, nota di chinotto, macchia mediterranea a profusione. Nota eterea di smalto. Molto austero, cupo, ginestra, naso un po’ arcigno, scontroso. Non è eloquente né dialettico o estroverso come il precedente. Alcol leggermente bruciante, non fuori dalle righe ma intenso, frutta esotica sul finale. La massa glicerica imponente inibisce un po’ la freschezza. È un vino che ha tridimensionalità. Ossobuco con risotto alla milanese o stoccafisso in bianco con pinoli e uva sultanina. Ha i piedi sull’isola, figlio della terra.

2012
Annata infernale, caldissima. Nota ossidativa accompagnata da evidenze di smalto, uva di Corinto, uva sultanina, note di agrume scuro, di noce di cola, macchia mediterranea. Ricorda il babà al rum. In bocca ha linearità, progressione e sapidità. Il sorso è ricco di caramello, miele di castagno, assenzio, artemisia, con una chiave di lettura un po’ alpina. Qui c’è un mare increspato, una nota più azzurra. Perfetto con le carni e con tutti i fondi bruni: arrosti, selvaggina, brasati, stracotti a profusione, anche il salmì con una punta di cacao. Figlio del fuoco.

2010
Al primo impatto sembra addirittura meno evoluto del 2016: molta albicocca, seguita da colatura di alici, pesce salato, acciuga, caramello, fichi bianchi secchi, corbezzolo, una nota di liquerizia, datteri. Progressione fruttata, densità quasi collosa al palato. Sale, capperi, note ittiche, salate. Da osare con ostriche, frittura di pesce, ma anche crostini con paté di olive. Figlio dell’acqua.

I calici2009
Virata cromatica: siamo in un’altra dimensione. Vino claustrale, dal naso austero. A tratti sembra scontroso, arcigno. Poi note evolutive di frutta tropicale, datteri, fichi, composte speziate con pepe e cannella, lavanda essiccata. Ingombra il palato, sembra dotato di una voluminosità liquida e di una grande forza/spessore: un concentrato di energia incredibile. Note di miele amaro, ma con ancora la fisionomia del frutto con molta polpa. Da provare con agnello alla libanese, con frutta secca. Figlio della terra e del fuoco.

2008
Macchia mediterranea essiccata, pesca sciroppata, elicriso, note quasi cerealicole e di mirto, di sabbia calda, sandalo, cioccolato bianco con il riso soffiato. In bocca è più sottile, elegante: sembra distendersi con una silhouette accattivante, non troppo soggiogato dalla componente glicerica. È un vino che ha proporzione e misura. Maiale in agrodolce o anatra laccata alla pechinese. Figlio dell’aria.

2007
Albicocca in confettura, tamarindo, nota molto asciutta di fieno secco, qualcosa di essiccato, ricordi di dattero e di fico macerati in alcol, frutta secca, noci pecan. Non ha la stessa stoffa del 2008 e ha un ritorno di una nota alcolica che indica una non completa integrazione. Note di combustione, empireumatiche, di vulcanizzazione, di caramello bruciato. Meno materico rispetto alle altre annate, note di disidratazione, con evidenze di propoli, crema per mobili. Frittura o pesce azzurro fritto, marinature, foie gras o animelle con le nocciole. Figlio del fuoco.

Per chiudere, le parole di Gabriel García Márquez che, meglio di qualunque altra immagine, ci portano sull’isola:

«Stavamo passando l'estate nell'isola di Pantelleria, all'estremo sud della Sicilia, e non credo che esista al mondo un luogo più consono per pensare alla Luna. Ricordo come in un sogno le pianure interminabili di roccia vulcanica, il mare immobile, la casa dipinta a calce fin negli scalini, dalle cui finestre si vedevano nella notte senza vento i fasci luminosi dei fari dell'Africa. […] Io pensavo con una certa nostalgia premonitrice che così doveva essere la Luna. Ma lo sbarco di Armstrong aumentò il mio orgoglio patriottico: Pantelleria era meglio