Giuseppe Maga: adesso tocca a me

Giuseppe Maga: adesso tocca a me

Interviste e protagonisti
di Sara Missaglia
09 luglio 2022

Giuseppe Maga, il figlio di Lino, si racconta nel ricordo del papà e degli anni di difesa e successo del loro Barbacarlo. Traguardi non facili ma raggiunti con orgoglio, forza e grande dignità

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 22 Maggio 2022

«Mi manca, il problema è che manca». Incontrare Giuseppe che parla, nella sala degustazione della cantina mentre fuma esattamente come il papà, porta inevitabilmente il pensiero a lui, Lino Maga. La notte di Capodanno si è portata via il piccolo grande uomo dell’Oltrepò Pavese e il vuoto che ha lasciato nel cuore del figlio, ma non solo, è difficile da colmare. Il posacenere è un tralcio di vite, e il fumo annebbia l’aria ma mai i ricordi. Le tante bottiglie sul tavolo, insieme ai calici, alle fotografie, ai riconoscimenti sembrano prendere la forma delle reliquie e tracciano distintamente il percorso di novant’anni di vita. Giuseppe cerca: sposta carte, bottiglie, libri, e trova appunti, disseminati ovunque. Una caccia al tesoro, ogni giorno ne trova di nuovi: brevissimi scritti del papà, pensieri sulla carta da toccare, sfiorando l’anima di chi non c’è più e che vive anche in queste parole. E Giuseppe li legge ad alta voce, quasi fosse un’invocazione. «Il tempo è breve, conservo la dignità d’attesa. Tutti mi invitano a resistere, la volontà non manca, ma le forze cedono». La grafia è tremolante, sono pensieri degli ultimi giorni, ma ciò che colpisce è la straordinaria lucidità e il senso di realtà, mantenute sino alla fine. Per tutta la durata del nostro incontro Giuseppe ha sempre gli occhi lucidi: sembra tornare ragazzino nonostante i suoi 56 anni vissuti al fianco del papà: nessuno più di lui ha conosciuto le soddisfazioni, le vittorie, le battaglie, i tanti “mal di panciaˮ di Lino. Padre e figlio insieme, con Giuseppe che ha sempre fatto un passo indietro per lasciare che fosse il padre ad apparire in prima linea: «ho preferito rimanere nell’ombra, ma mio padre meritava tutto lo spazio che si era guadagnato nel tempo. Cercavano sempre di lui, a volte riservandomi un trattamento poco gentile. Eppure a me questo non è mai pesato, il nostro era un rapporto profondo e vero, anche se a volte fatto di scintille. Papà le cose non le mandava a dire, lui stesso si definiva un personaggio scomodo perché amava la verità: e se non ci fossero stati amici del calibro di Veronelli o di Brera non ce l’avrebbe fatta».

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Gino e Gianni, incantati da un oracolo di nome Lino Maga e da un vino da cui sono stati stregati: sempre pronti a spronarlo, anche nei momenti più bui. “Molà nò”, non mollare: un mantra che ha dato la carica a Lino nei 22 anni di lotte per la difesa di una collina, di una denominazione e della storia di famiglia. Un mantra che Giuseppe ripete a se stesso per un Barbacarlo dopo Lino. «A volte la natura ci dà e a volte ci toglie: stagioni belle, e poi maltempo e tristezza: questo per me è un periodo buio, ma so che passerà ». E tra date e ricordi sempre più al confine tra realtà e leggenda, Giuseppe racconta Lino: «era un uomo che ha scelto la fatica, era abituato a camminare in collina, non ne ha mai avuto paura. Non accettava compromessi, poche parole ma mai fuori luogo. Duro e puro, non era facile averla vinta con lui. Nel 2003 abbiano avuto un’annata eccezionale: fino al 2002 eravamo Doc e utilizzavamo una bottiglia leggera con collo cilindrico. Nel timore che il vino potesse rifermentare e la pressione potesse far scoppiare le bottiglie, gli proposi di sostituirle con una bottiglia dal vetro più pesante e dal collo più lungo. Mio padre non era d’accordo, ma alla fine assecondò la mia richiesta. Siamo riusciti così a salvare l’annata. Non mi ha mai detto “bravo”, non ci riusciva proprio, ma ancora oggi non dimentico il suo sguardo di approvazione: parlava bene di me agli amici, ma faceva fatica a riconoscermi qualcosa, cercando forse di spronarmi a fare meglio». E ancora: «il 2003 è stato l’anno in cui siamo usciti dalla Doc, siamo stati bocciati in commissione perché il nostro vino non era conforme al disciplinare superando i 12 grammi per litro di zuccheri. Dopo avergli inviato due bottiglie del nostro vino, Veronelli ci suggerì di declassarlo da Doc a Igt per non rinunciare ad una vendemmia unica, a cui assegnò il suo ultimo Sole». «Papà diceva tre parole ed erano quelle: aveva sempre poco tempo per me, pensava sempre al vino. Sono cresciuto da solo, abituato ad arrangiarmi: guardavo quello che faceva e imparavo. Avevo tre anni e in groppa al nostro asino entravo in vigna per fare vendemmia: sono ricordi ben presenti, che davano un senso di festa, di comunità, di rapporto pieno e vero con la natura. Ricordo il cortile davanti alla nostra cantina sempre pieno di bottiglie vuote per l’imbottigliamento. Le guardavo come trofei, pronte a ricevere il frutto del nostro lavoro. Dopo l’asino papà mi lasciò guidare la motozappa, non avevo ancora sei anni: nemmeno alla guida di una Rolls-Royce mi sarei sentito così importante, mi sembrava di pilotare un’astronave! Mio nonno Piero, con cui andavo molto d’accordo, per portarmi nei vigneti mi stava davanti con il motorino, lui che non aveva la patente, e io dietro, con quello che allora sembrava un mezzo meccanico all’avanguardia: per schiacciare la frizione dovevo alzarmi in piedi, ero un bambino e non ci arrivavo. Facevo le cose di nascosto perché mio padre altrimenti si arrabbiava: alle elementari mi regalò una bicicletta robusta e pesante, non aveva né marce né leva del cambio, a differenza di quelle dei miei amici. Di nascosto creai un allestimento speciale con quello che ero riuscito a procurarmi: frecce, specchietti, antifurto, cambi, ricetrasmittente. Il papà non disse nulla, colpito dalla mia natura creativa». Dai racconti di Giuseppe prende forma un mondo contadino che sa ancora di uva pigiata nelle notti calde di Broni. «Ricordo quando con mio padre d’inverno facevamo sotto il porticato gli scopini con la saggina per lavare le botti e le legature con i rametti di salice, da fare in primavera: preparavamo le botti prima della vendemmia per testare la tenuta e controllare se i cerchi fossero tirati». Si arrivava a casa con l’asino e con la bigoncia, in dialetto “navassa”, il recipiente in legno in cui si raccoglieva l’uva: prima si pigiava con i piedi e poi con le pigiatrici. Notti di lavoro con la brenta sulle spalle per trasferire il mosto dal tino alla botte: una vita scandita dai tempi del vino, fatta di poche parole e di tanta intesa. «Due caratteri diversi, uno peggio dell’altro: papà sempre schivo, io più creativo, con la testa matta da inventore che cercava di trovare soluzioni ingegnose in vigna e in cantina realizzandole spesso senza dirgli nulla. Alla fine, quando una volta al mese mio padre faceva un sorriso, voleva dire che avevo fatto un buon lavoro». Lino era un uomo molto esigente, chiedeva tanto soprattutto a se stesso: «mi dava tranquillità averlo, mi ha dato tanto». Giuseppe apre un Montebuono del 1997: sembra un ragazzino tanto nel colore quanto nella freschezza. Dagli scaffali tanti album di fotografie che Giuseppe nel mentre apre: li sfogliamo insieme, e nel gesto di girar pagina c’è la lentezza della malinconia degli anni andati. Foto in bianco e nero, in vigna e al mare, quando la vacanza aveva il sapore dell’eccezionalità. Poi i colori si fanno sbiaditi, e quelle foto sono per Giuseppe il senso del tempo e della storia che non si ferma. Lino si occupava personalmente di ordinare le fotografie in un archivio di ricordi. Lino e Giuseppe, l’uva e le vigne, le fiere, i premi ricevuti, le foto ai convegni: un orgoglio contenuto di fronte al successo, tipico di chi sa che nulla arriva per caso, di chi riesce a trattare due impostori come il Successo e la Sconfitta, come scriveva Kipling, allo stesso modo.

Giuseppe sorride: «degustavamo sempre i vini insieme, e a mio papà non piaceva il nostro vino fino a quando decideva di metterlo in bottiglia. Da lui ho imparato che quello che conta è la terra, e il frutto viene prima di tutto». Ci sono stati anni di battaglie legali, e Giuseppe ricorda che il papà rientrava a tarda notte per aver partecipato a riunioni, convegni e serate in cui cercava di portare avanti il suo credo, fatto di terroir, di natura e di rispetto e difesa del territorio: «prendeva sempre un sacco di applausi, poi tutti hanno sempre continuato a fare quello che volevano, così diceva papà. Le cause non vanno mai fatte, continuava a ripetere, ma se c’è una cosa in cui credi devi andare fino alla fine». A Giuseppe torna in mente il profumo delle ciambelline dolci inzuppate nel vino della scodella: un mondo fatto di semplicità, di tradizioni, di natura. Il segreto è tutto qui: «il vino è una cosa seria: assecondare la natura con la testa rivolta verso l’alto, con la speranza di arrivare in vendemmia. La ricompensa è il grappolo, a noi è sempre bastato questo”. Negli ultimi tempi Lino non riusciva più ad andare in vigna, ad arrampicarsi sulle sue colline: ogni sera aspettava Giuseppe a casa per farsi raccontare il lavoro del giorno: «papà si fidava, poi ogni tanto faceva il suo giro, mi guardava con approvazione». Il brindisi è un pensiero a lui, esattamente come avrebbe voluto: Giuseppe dedicherà a Lino l’annata 2021 in etichetta, e ha messo in cantiere la botte che prenderà il suo nome, come si usa in cantina. «Da noi ogni botte ha un nome, le persone vivono tra legno e vino: in cantina è sempre come essere in famiglia, le chiamiamo per nome e mai con i numeri». Il futuro è avanti: molà nò Giuseppe, adesso ci sei tu.