Lino Maga. Il senso di un uomo per la collina

Lino Maga. Il senso di un uomo per la collina

Interviste e protagonisti
di Gabriella Grassullo e Ezio Gallesi
24 marzo 2020

Viniplus di Lombardia N°8 - Marzo 2015. Una lunga e appassionante intervista al Signor Maga, papà di una delle icone dell'Oltrepò Pavese: il Barbacarlo.

Tratto da Viniplus di Lombardia N°8 - Marzo 2015

Dare un senso al modo in cui diamo un senso al mondo”. Il senso di una fine, Julian Barnes. 

Barbacarlo 1983Il mondo di un uomo, Maga Lino, dove tempo, memoria e silenzi che hanno parole, sono la chiave della sua anima e il volto del suo vino. Lo incontriamo nel cortile a retro del negozio con lo sguardo fisso su quella che una volta era un’intera parete a edera. «Sono arrabbiato, hanno tagliato l’edera, e io amo le piante vive». Esordisce così. «Ma venite, venite». Ci fa accomodare, ci sono già alcune bottiglie aperte sul tavolo. Comincia a versare: 2012, 2011, 2010, 2007 e una magistrale 1983, la sua preferita. Abbiamo in mente troppe domande e curiosità da rivolgergli, l’atmosfera si fa subito fumosa. Il signor Maga fuma, e non qualche sigaretta: ci sentiamo immersi nel mondo letterario di Balzac, Baudelaire, Sand, Tolstoj. Ma la storia di Maga è quella di un uomo combattivo, di un luogo, di una collina, di un vino che ha fatto tanto discutere, ma che è frutto di una dedizione e capacità fuse tra il magico e l’arcano della natura: il Barbacarlo, un vino che Maga non giudica mai, lo lascia fare agli altri, anche se «deve sapere di mandorla». 

Ogni annata del Barbacarlo ha un suo fascino
È giusto che sia così, non ha senso stappare bottiglie di diverse annate quando il vino è sempre uguale. Ogni anno la vigna dà il vino nuovo, segue l’andamento climatico, la natura è fatta così. Poi va bene o va male. Fin quando sono qui, attendo.

Quali sono le particolarità di questa vigna? 
Sono colline difficili, bisogna lavorarle a mano e la resa è bassissima. E poi sono viti vecchie, 40, 60 anni. 

Quali cambiamenti sono avvenuti negli ultimi anni?
È cambiato tutto, c’è una burocrazia che soffoca, non sei più padrone della tua terra, sei obbligato a chiedere ad altri cosa devi fare e pagare per ottenere qualcosina. Il nostro Paese è ricco di piccole cose che il mondo ci invidia, però continua a portare avanti i grandi numeri.

Qual è il valore storico di questo territorio e soprattutto il valore del vino?
La storia e la tradizione. Senza storia non c’è commento e qui c’è chi guarda ancora alla tradizione. Mi vorrebbero come uno dei tanti, invece son uno dei pochi, e resisto anche per la vicinanza della gente che mi dà soddisfazioni morali immense. Mi tengono in piedi.

Molte persone la vogliono incontrare
Vero, e adesso c’è mio figlio, che avrà un’eredità difficile. Il mondo è cambiato, io mi sono fermato, non trovo più una logica, se sono invitato alle serate faccio disastri, perché vai a ledere, non puoi più dire la verità.

Ce la dica la sua verità
L’agricoltura è la terra e i suoi frutti. Adesso abbiamo la chimica, la biologia, le qualità certificate. Almeno avere l’intuito di copiare il modello francese dove predomina il terroir. In Francia bisogna scrivere obbligatoriamente per legge in etichetta chi fa il vino, il consumatore è informato, compra il vino che sceglie. 

Nel significato francese di “terroir”, oltre alla natura c’è l’uomo come elemento fondamentale, è davvero così?
L’uomo asseconda la natura e il vino, si sa, è una spremuta d’uva. Vedete, io stimo l’enologo, però se in ogni annata il vino è uguale, va contro la natura. Nel 1992 non ho imbottigliato, nonostante il certificato Doc. Mi telefonò Veronelli e mi disse: “Perché non hai imbottigliato?”. Risposi: “Quando l’annata non c’è, non c’è Santo che aiuti”. “Tu hai bisogno di un enologo” mi disse e ridendo gli risposi “Se lo dici tu”. Si presentò con l’enologo di Frescobaldi, Carlo Corino, che mi disse: “Sono venuto da lei per imparare”. Risposi: “Io, invece, io sono qui per ascoltarti”. “Ma lei, il Barbacarlo, non prevede di uniformarlo facendolo tutti gli anni nello stesso modo?”. Gli chiesi come avrei dovuto fare e mi parlò di MCR, Mosto Concentrato Rettificato. “No, io seguo la natura”. Allora mi chiese ancora se avessi mai pensato alla barrique. “Vede dottore” gli dissi “mio nonno aveva otto figli, quando sostituiva una botte diceva ai suoi figli che bisognava collaudarla per due anni con uva di seconda scelta per evitare il gusto del legno, che era considerato un difetto, mentre ora se ne fa una virtù”. 

Lino Maga

Lei si sente molto legato alla tradizione?
Gli usi e i costumi vanno rispettati, regione per regione, luogo per luogo. Io ho amato l’Oltrepò Pavese. Da giovane ho fatto le mie battaglie, ma è stato amministrato male. Il Dottor Migliorisi, Presidente dell’Unione Italiana Vini, nel 1968, mi disse: “Cosa facciamo con il Barbacarlo? Gli diamo il “Classico”? Risposi: “Va bene, come lo delimitiamo?”. “Su sette Comuni” mi disse! “E no!” replicai. E allora cosa facciamo? Risposi “Fate una denominazione Doc Oltrepò Pavese con un articolo che possa tutelare i nomi delle località, le fattorie, i Comuni”. In quel caso, gli dissi, avrei firmato. Poi uscì il decreto datato 6 agosto 1970, che vige ancora, ma nessuno ha recepito quello che proposi. 

E come ha reagito?
Mi sono trovato con un decreto dove attribuivano al Barbacarlo una Doc su 45 comuni! Ho dovuto impugnarlo e la causa mi è durata 22 anni. Le cause non bisognerebbe mai farle, si fanno solo quando la tua coscienza ti dice che hai ragione. Era contro anche mio padre che mi disse che mi sarei impegolato in cose più grosse di me. “Tu il Barbacarlo ce l’hai, gli altri facciano quello che vogliono”. Ho fatto cose che…Intanto gli anni passavano e ora corro ancora.

Ha fatto cose in cui credeva, lei in fondo inseguiva una verità.
Sì, è così. La collina del Barbacarlo è sempre stata nostra, prima era luogo di “casa Porei”, poi nel 1884 il mio bisnonno Carlo la donò ai nipoti, che due anni dopo chiamarono la collina col nome dello zio. In dialetto zio si diceva “Barba”, così divenne Barbacarlo, ma poi del nome se n’è abusato. La Legge 930, l’unica vigente, disponeva che una denominazione si potesse estendere fino ai territori vicini quando esistevano analoghe condizioni naturali, caratteristiche chimico-fisiche ed organolettiche in vini da almeno 10 anni in commercio con quella denominazione. Allora girai tutte le cantine per comprare il Barbacarlo: ero con il notaio che annotava chi si rifiutava di darmi il vino, pur pagando. Ho mandato i campioni al Ministero dell’Agricoltura e al Comitato Nazionale Vini con 36 voci da controllare. Furono evidenti le differenze sul piano geologico e delle analisi: praticamente era stato immesso sul mercato un vino per almeno 10 anni che in comune aveva solo il nome.

Cosa fece in seguito?
Licenziai un paio di avvocati che cercavano compromessi impossibili. Trovai quello giusto che aveva rinunciato a tutto, ma non al vino e sposò la mia causa impugnando il decreto al Tar del Lazio che mi diede ragione. Il Consorzio, che ha il compito di tutelare le denominazioni d’origine, impugnò la causa al Consiglio di Stato, facendo aderire sia commercianti che imprenditori, avvalendosi di due importanti avvocati. Il Consiglio di Stato verificò tutto, denunce dei vigneti, carico e scarico, anche chi vendeva il Barbacarlo prima del 1970. La sentenza tardava dall’essere emessa. Mi chiedevo il motivo di queste lungaggini e se non avessimo potuto sollecitare il Consiglio di Stato. Convinsi l’avvocato a farlo. Alla fine ebbi ragione. Ma ho subito persecuzioni, è stata dura per 22 anni, e non so se ne è valsa la pena, ma è una questione di carattere. 

E ora qual è il suo sogno per l’Oltrepò?
Io amo tutti i produttori, quelli veri. Amo i vini genuini e chi li fa, vorrei vedere l’Oltrepò Pavese con il ruolo che ha sempre avuto, ma non è così, si commemorano i mostri sacri che hanno fatto tanto male all’Oltrepò. 

Quali mostri sacri?
Non posso fare nomi, sono quelli che mi hanno fatto tanto male, solo perché amavo l’Oltrepò. È inutile continuare ad insistere sul nome del vitigno che giova solo all’industria, dobbiamo tutelare i nomi dei luoghi. Perché avere tante denominazioni? Ne basterebbe una: Oltrepò Pavese, così si fa immagine. L’esempio è il Piemonte che “lega” al territorio anche le grosse realtà. Guardiamo l’Asti spumante, prodotto industriale ma legato alla città di Asti, il Carema prodotto solo nel comune di Carema, il Barolo, portato su 11 comuni, il Barbaresco, che l’amico Angelo Gaja chiama Langhe.  Ad ogni modo cerco di sopravvivere pur facendo fatica, ho il sostegno della gente che mi dà soddisfazioni morali immense, queste cose mi solleticano il cuore.

Allora non si sente certo solo?
Ho attestati che tengo nel cuore, non li espongo. Ho servito quattro Presidenti della Repubblica, quattro Governatori della Banca d’Italia, il Cardinale Casaroli, Papa Montini. È venuto in azienda il Presidente Napolitano con quattro Senatori, mentre Pertini mi telefonava. Nelle mie vicissitudini ho avuto l’appoggio di Luigi Veronelli, di Gianni Brera, e di giornalisti che mi hanno voluto bene. Mi sentivo in debito con Veronelli per l’appoggio, questi erano uomini e non ce ne sono più. Gianni Brera poi era un fratello, mi diceva “Molà nò al màs!”. Ora ho mollato, ho ceduto il passo al mio figlio che fa tutto.

C’è un vino che lei ama in modo particolare oltre a quelli che produce?
Non chiedetemi dei vini di altri. Li stimo, li bevo, senza criticarli, però io faccio il mio vino e basta.  Bevo le annate grame: questa, la 2002, è un’annata grama, ha piovuto tutto agosto, non ha la struttura delle annate buone. Il 2003, invece, è stato il meglio dei miei ricordi, e me lo hanno bocciato, superava i 12 grammi litro di zuccheri, non era conforme al disciplinare, loro non sapevano cosa fare. Telefonai a Veronelli e gli dissi: “Gino, mi hanno bocciato il vino”. Mi rispose: “Ma va? Mandamene una bottiglia e la documentazione”. Gli mandai un paio di bottiglie ed il certificato di non idoneità. Ha bisticciato con tutti i suoi collaboratori e ci ha dato il “sole”, è stato l’ultimo di Veronelli. Mi scrisse dicendomi: ”Sono pronto a ritirarti io tutto il tuo vino, non preoccuparti”. 

Cosa è oggi l’Oltrepò Pavese?
Penso che l’Oltrepò debba sollevarsi per forza, perché ha grandi possibilità. Basterebbe tutelare le produzioni. Bisogna uscire un po’ dal guscio delle commercializzazioni, perché generate solo dall’industria. La globalizzazione non giova più a nessuno, appiattisce. All’estero cercano l’Italia, ma le vere produzioni là non arrivano mai, bisogna invece tutelarle. 

Signor Maga, ci dia un messaggio positivo per il futuro di questa terra.
Quando si capirà che la terra è la nostra madre, con i suoi frutti, distinguendo le produzioni, daremo allora traino e immagine alla zona. Solo allora l’Oltrepò Pavese fiorirà.