Mario Maffi. «Solo se ami e conosci il tuo territorio, puoi divulgarlo »

Mario Maffi. «Solo se ami e conosci il tuo territorio, puoi divulgarlo »

Interviste e protagonisti
di Alessandro Franceschini
27 dicembre 2021

Ha una memoria fotografica folgorante, ricorda nitidamente non solo tutte le tappe della sua vita professionale, ma anche volti e avvenimenti appartenenti al mondo del vino in generale e dell’Oltrepò Pavese in particolare.

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 21 Novembre 2021

Un territorio, quest’ultimo, del quale continua a essere, al netto delle sue contraddizioni, continuamente innamorato senza indugio alcuno. Nato a Varzi e cresciuto a Retorbido, Mario Maffi è una delle storiche, e sicuramente più affidabili e serie, figure appartenenti a questo triangolo di vigna posto a sud della Lombardia. Uno dei suoi motti, trasmessogli agli inizi della sua carriera, è tuttora: “In azienda sempre i vini dell’azienda, fuori dall’azienda sempre i vini degli altri”, esempio pratico e concreto di cosa significhi coltivare costantemente la curiosità, mettendosi sempre in discussione. «Ancora adesso ho questo vizio e i miei 400 vini all’anno, per rimanere sempre allenato, continuo a degustarli». Nato come perito agrario, è diventato velocemente uno degli enologi più sensibili del vigneto oltrepadano.

QUANDO HAI INIZIATO A FARE QUESTO LAVORO?
Inizialmente andai a lavorare per la ditta immobiliare Vittoria, che faceva capo alla Mira Lanza di Genova. Avevano un gruppo di aziende e io mi occupavo di zootecnia, tabacco, riso e ovviamente di viticoltura. Poi, dal giugno del 1974, mi sono occupato solo di viticoltura ed enologia.

LA PRIMA AZIENDA?
Si chiamava Ballestrieri, a Casteggio, poi diventata Ballabio. Avevo 27 anni e mi sono ritrovato a dare del tu a gente come Antonio Piccinardi e Luigi Veronelli, un’esperienza unica per quell’epoca. Poi sono andato a Rivanazzano, nella Tenuta di Nazzano, e sono cresciuto ulteriormente perché avevo maggiori responsabilità.

IN QUEGLI ANNI HAI ANCHE INIZIATO, GIOVANISSIMO, A FARE IL RELATORE AI CORSI AIS
Sì, ho frequentato i corsi nel 1975 e nel 1978 sono diventato relatore. Un’avventura importante, soprattutto in Lombardia, ma non solo, durata più di 30 anni e partita a Milano quando i corsi si tenevano sulla terrazza Motta.

IL TUO NOME È PERÒ SOPRATTUTTO LEGATO AL LAVORO CHE HAI FATTO A CODEVILLA NELL’AZIENDA MONTELIO
Con Montelio mi sono innamorato definitivamente della mia terra, dell’Oltrepò Pavese. Vi entrai nel 1982 ed ebbi subito carta bianca avendo un bellissimo rapporto con la proprietà. Da 90.000 bottiglie, con la mia direzione, siamo passati negli anni a 132.000.

SEI STATO PIÙ UN TRADIZIONALISTA O UN INNOVATORE?
Nella vinificazione in bianco sono stato un innovatore. Riuscivo già alla Ballestrieri e a Rivanazzano a fare vini bianchi di ottimo livello senza l’utilizzo del gruppo frigorifero, facendo all’antica e con i lieviti naturali. Oggi invece devi avere la tecnologia del freddo e io alla Montelio ho lavorato anche con l’iperossigenazione ottenendo risultati sorprendenti. Con il Müller-Thurgau, invece, facevo criomacerazione. Sui rossi, invece, sono stato un tradizionalista e continuo a esserlo tuttora, tranne che per il pinot nero vinificato in rosso, dove faccio fare un po’ di macerazione a freddo i primi giorni. Sono però cambiate due cose oggi.

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QUALI?
Il grado e mezzo di alcol in più dovuto al clima, che incide parecchio, e poi le barbatelle, che oggi sono come dei polli di allevamento.

Mario MaffiCOSA INTENDI?
Il pollo ruspante è in mezzo all’aia con il suo spazio, quello di allevamento è in batteria, ha uno spazio ridotto e si nutre con mangime di pessimo livello. Le viti di una volta vivevano 70 anni, oggi, lavorando bene è già tanto se arrivi a 30-35 anni. È vero, ci sono più malattie, ma è cambiato qualcosa. C’è stata una sorta di “ingentilimento”. L’esplosione della viticoltura a livello mondiale, ad un certo punto, ha portato i vivaisti a non riuscire più a servire il mercato con il materiale che avevano a disposizione e quindi hanno cominciato a raccogliere di tutto e di più. Oggi c’è un dietrofront, ma il danno è stato fatto.

L’OLTREPÒ PAVESE È UN UNIVERSO MOLTO FRASTAGLIATO, DI NON AGEVOLE LETTURA. QUESTA COMPLESSITÀ È CHIARA AD APPASSIONATI E CONSUMATORI?
In Oltrepò si può fare qualsiasi cosa, ma il terreno è come un mosaico. Solo a Montelio, in una singola vigna, avrei dovuto cambiare tre portainnesti in 150 metri. Questo è il vero problema presente in questa terra.

IL FATTO CHE QUI SI POSSANO COLTIVARE TANTE VARIETÀ È UN FATTORE POSITIVO O ERA MEGLIO SPECIALIZZARSI?
I numeri parlano chiaro: croatina, pinot nero, barbera e riesling rappresentano l’84% della superficie vitata all’interno della denominazione. Quattro vitigni, che possono essere declinati in otto vini.

DOVREBBE ESSERE QUESTO L’ARCHITRAVE DELL’OLTREPÒ PAVESE?
Sì, questo è l’Oltrepò Pavese. Poi tutto il resto ben venga, dal cortese al sauvignon blanc, se fatto bene. Però non puoi andare in giro con oltre 70 tipologie di DOC e altre 40/50 di IGT. Crei confusione.

LA SPUMANTISTICA IN ITALIA HA AVUTO, E VIVE TUTTORA, UN MOMENTO IMPORTANTE. LA FRANCIACORTA È ORMAI UNA VERA E PROPRIA CASE HISTORY. C’È ANCORA SPAZIO PER L’OLTREPÒ O È UN TRENO ORMAI PERSO?
Come la storia insegna, la spumantistica ha radici antiche qui. Potrebbe essere un traino pazzesco e, secondo me, c’è ancora molto spazio per l’Oltrepò Pavese. Il problema è che quando si parla di Metodo Classico, se vuoi fare quantità, devi avere disponibilità finanziarie, perché per tre anni o quattro anni devi tenerlo lì a riposare in cantina, aspetto simili ai grandi rossi. In Franciacorta sono arrivati imprenditori che arrivavano da altri mondi a investire cifre importanti.

CON DEI ROSSI DA GRANDE INVECCHIAMENTO, CI SI POTREBBE METTERE AL PARI DI ALTRE ZONE CHE HANNO FATTO DI QUESTA TIPOLOGIA IL PORTABANDIERA DEL LORO TERRITORIO?
I grandi rossi nel nostro territorio sono due: uno unisce barbera, croatina, uva rara e vespolina. Ha trovato esplicazione soprattutto in un angolo di territorio che chiamiamo Buttafuoco. Aggiustando un po’ le percentuali nel disciplinare, rendendo questo rosso più omogeneo, sui terreni giusti puoi fare cose meravigliose. Poi abbiamo il pinot nero vinificato in rosso: anche in questo caso ci sono zone e produttori che sono in grado di donare interpretazioni straordinarie. In questo caso il problema è la presenza di un disciplinare unico: in realtà ci sono due pinot nero completamente diversi. Uno coltivato nella prima fascia collinare e poi quello coltivato più in alto. Senti due cose differenti nel bicchiere. È una questione di terroir, ma anche di altitudine.

INSOMMA, DEI CAPISALDI SUI QUALI PUNTARE CI SONO ECCOME. CI SONO ANCHE LE PERSONE?
Sì, oggi ci sono molti giovani che lavorano bene e che hanno una nuova mentalità. Il problema è che se li metti tutti assieme arrivano a fare solo il 15% di tutto il vino prodotto in Oltrepò Pavese.

UN CONSIGLIO DA DARE ALLE NUOVE GENERAZIONI?
Bisogna amare e conoscere il proprio territorio per poterlo divulgare. Non bisogna fare l’errore dei loro padri, cioè quello di conoscere solo il loro paese e considerare quello di fronte un nemico. Bisogna ampliare l’orizzonte. Devo dire, però, che questa nuova generazione oltrepadana è già più aperta, più disposta al dialogo e al confronto. Abbiamo giovani che si sono fermati, hanno studiato e hanno ottime basi. Bisogna ripartire da loro.