Maurizio Zanella. «Ai giovani consiglio di essere ribelli e non accontentarsi del passato»

Maurizio Zanella. «Ai giovani consiglio di essere ribelli e non accontentarsi del passato»

Interviste e protagonisti
di Sofia Landoni
30 dicembre 2021

C’è poco da fare: per realizzare grandi cose ci vuole un desiderio immenso. I grandi uomini e le grandi donne della storia hanno lasciato le loro orme eterne nel corso degli eventi non certo per un obbligo morale o per una decisione calcolata, ma per quell’irrefrenabile bisogno di salire un altro gradino, un altro gradino ancora.

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 21 Novembre 2021

Maurizio Zanella è una di quelle persone a cui la Franciacorta deve essere grata, perché ne ha rappresentato in prima persona uno dei più potenti traini. Lui ci credeva, profondamente. Lui la sapeva vedere, la Franciacorta, fin nei suoi più piccoli, apparentemente insignificanti, stupefacenti e promettenti angolini. Lui l’ha spinta verso l’alto, con l’energia che lo contraddistingue. Il suo successo arriva dalla libertà di pensiero e dalla perpetua fame, alimentate da alcuni incontri che gli hanno cambiato la vita. «La mia più grande fortuna è stata quella di iniziare da zero. Non avevo una storia familiare contadina e quindi non subivo i condizionamenti delle tradizioni pregresse, di quelle abitudini – talvolta controproducenti - da cui poteva essere difficile emanciparsi. Il mio percorso, le mie scelte, la mia innovazione: tutto si basava su una libertà di pensiero».

È STATO, ED È, UN GRANDISSIMO PROTAGONISTA DELLA STORIA MODERNA DELLA FRANCIACORTA. HA PARTECIPATO ATTIVAMENTE ALLA SUA ASCESA E ALLA DEFINIZIONE DELLA SUA IDENTITÀ VITIVINICOLA, CON UNA TENACIA INVIDIABILE. COSA EVIDENZIARE DI QUELL’INIZIO?
La Franciacorta proviene da una storia viticola per lo più a bacca rossa. Era una viticoltura promiscua, inserita su terreni che ospitavano sia la vite che i foraggi, come da tradizione contadina. Però, un conto è fare vino, un altro è farlo bere. A Berlucchi si deve la primogenitura del Franciacorta, sia in termini produttivi che di immagine commerciale. Loro sono riusciti a rendere “di moda” un prodotto nazionale, rompendo quell’egemonia di costume che considerava poco elegante bere uno spumante italiano e che privilegiava il consumo di Champagne. Questo fu l’inizio, poi vi fu lo sviluppo: decidemmo di ottenere la nostra indipendenza tramite la creazione di un Consorzio dedicato, staccato dal Consorzio Vini Bresciani e basato su regole che ci consentissero di andare tutti nella medesima direzione. Dobbiamo precisare, però, che le regole non fanno la qualità, sono solo un acceleratore di cultura. Ci vollero cinque anni per raggiungere questa tanto desiderata indipendenza.

LEI È STATO UNO DEI MAGGIORI PROMOTORI DI QUESTA INDIPENDENZA. DA COSA DERIVAVA IL SUO FORTE SLANCIO?
Derivava da una maggiore consapevolezza del territorio e da una stretta amicizia con Luigi Veronelli. Lui era un uomo libero, prendeva posizioni nette e coraggiose affermando ciò che pensava, a costo di andare contro tutto e tutti, a costo di crearsi qualche nemico qua e là.

COME VI SIETE CONOSCIUTI?
Accadde negli anni ’80. Noi, come Ca’ del Bosco, stavamo partecipando alla nostra prima fiera, a Genova. Era una manifestazione che racchiudeva diverse e variegate realtà della ristorazione. C’erano i produttori di piatti, di posate, di zerbini, di tovaglie…insomma, un po’ di tutto. Il nostro stand era la riproduzione di una cantina in cartapesta bianca – a Veronelli venne ad assaggiare il nostro vino. Da lì nacque un’amicizia personale, che andò ben oltre il confronto professionale.

UN’AMICIZIA CHE HA SIGNIFICATO MOLTO PER LEI
Sì, moltissimo. Da lui ho attinto quella parte di conoscenza che non avevo. Si può dire che Veronelli mi abbia formato. E poi c’era la sintonia personale. Io ho sempre avuto l’ardire di pensare che qui, in Franciacorta, c’erano potenzialità straordinarie. Ero animato da uno spirito di “ribellione” e questo piacque molto a Veronelli, che era un po’ un Don Chisciotte.

È STATO DIFFICILE PORTARE AVANTI QUESTI OBIETTIVI ALL’INTERNO DELLA FRANCIACORTA? No. MA NON SI È MAI SCONTRATO CON UNA MENTALITÀ FRENANTE O COMUNQUE UN PO’ ANTICA, NOSTALGICA DELLE TRADIZIONI PASSATE?
Sì, certo. Ma quando uno ha un’idea non si fa condizionare da queste circostanze o dalle difficoltà.

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SI RICORDA QUALCHE “BATTAGLIA” IN PARTICOLARE?
Mah, forse far capire l’importanza di frazionare i mosti: non c’era verso. Oppure mettere l’uva intera nelle presse, nessuno lo faceva e riuscire ad inserirlo nel disciplinare fu un po’ faticoso. E così anche altre cose che si scontravano con quelle tradizioni negative che non badavano primariamente alla qualità.

LEI COME ARRIVAVA A QUESTE CONSAPEVOLEZZE COSÌ DIVERSE?
Bastava vedere cosa facevano quelli più bravi di noi.

QUINDI GIRAVA MOLTO?
Sì, molto. Giravo, parlavo, mi confrontavo. Per la maggior parte delle volte viaggiavo in compagnia di Veronelli. Grazie a lui mi sono state aperte porte che, fossi stato da solo, non avrei mai visto. Chi avrebbe mai dato ascolto a un ragazzino di 20 anni?

UN VIAGGIO CHE SI RICORDA PARTICOLARMENTE?
Quello in California, all’inizio degli anni ’80, poiché scoprimmo che una realtà culturalmente molto più giovane di noi era in realtà anni luce avanti a noi dal punto di vista vitivinicolo. Perché? Perché seguivano pedissequamente il modello francese, che, tramite scelte sia agronomiche sia enologiche, puntava alla qualità. In Italia, invece, gli agronomi e gli enologi dicevano: “qui da noi non si può”. Noi eravamo arroccati su tradizioni negative; loro invece, non avendo condizionamenti pregressi di alcun genere, imparavano da zero, osservando i grandi della viticoltura.

DEDICA MOLTO TEMPO A QUESTI VIAGGI DI CONFRONTO ANCORA OGGI?
Sì, continuo spesso a girare per aziende capaci di esprimere il territorio, cercando di capire come innovano.

IL PROSSIMO VIAGGIO IN PROGRAMMA?
Per ora non ne ho. A giugno sono stato a Bordeaux e a maggio in Champagne.

QUAL È SECONDO LEI IL PUNTO DI FORZA DELLA FRANCIACORTA?
La Franciacorta è un territorio magico, che abbiamo la fortuna di avere in dote. Dobbiamo valorizzarlo al meglio, dobbiamo proteggerlo di più di come è stato fatto in passato. Dobbiamo difenderlo, e non solo in termici agronomici, ma anche di suolo, urbanistici, di progettazione, di futuro. Va bene usarlo, ma non sfruttarlo. Siamo stati un po’ ingrati verso questo territorio che ci ha dato tanto. Senza di lui non avremmo potuto fare niente di tutto questo.

COS’È PER LEI LA TRADIZIONE?
La tradizione è la conoscenza del vigneto, della pianta. Certo, in alcune zone la tradizione attinge anche dalle nozioni positive che vengono tramandate di padre in figlio, ma la tradizione è soprattutto qualcosa che deve essere costruita costantemente. Noi, in Italia, abbiamo bisogno di forgiare la nostra tradizione e per fare questo ci vuole tempo. Un tempo usato bene. Dobbiamo ancora costruire il nostro storico, fatto di tentativi, prove e osservazioni. Ci vuole tempo.

QUINDI, PARADOSSALMENTE, L’INNOVAZIONE SERVE A CREARE UNA TRADIZIONE
Sì. Bisogna fare un sapiente mix di esperienze passate e innovazione, per definire quella che sarà la nostra tradizione, ovvero per conoscere sempre di più il nostro vigneto, il nostro territorio.

QUALI CONSIGLI DAREBBE ALLE NUOVE GENERAZIONI?
Di essere ribelli. Di seguire strade nuove, di non accontentarsi del passato ma di rispettare un territorio. E sapere che una denominazione è un bene comune che va realizzato.