Michele Satta. Il destino, il talento e il rispetto

Michele Satta. Il destino, il talento e il rispetto

La Verticale
di Armando Castagno
20 maggio 2020

Viniplus di Lombardia - N°18 Marzo 2020. Da Sant’Ambrogio Olona, alle porte di Varese, a Castagneto Carducci. L’intervista a Michele Satta, uno dei grandi protagonisti del vigneto bolgherese, e la verticale storica di tutte le annate del Piastraia

Tratto da Viniplus di Lombardia N°18 - Marzo 2020

Clicca sull'immagine per scaricare l'articolo in formato PDFForse per capire Bolgheri, e per avere in mente cosa chiedere ai suoi vini e cosa no, è più utile venire d’inverno che d’estate. Alla luce di questo posto, d’estate non si fa caso: tutto ne è intriso, come ovunque nelle campagne vicine al mare, specie se osservate da un’altura. A gennaio e a febbraio, il vento e l’ombra dell’inverno di città sono qui sostituiti dallo scintillio di una luce lancinante, pulviscolare, tutta riverberi e barbagli, meno violenta, altrettanto intensa. Se è nuvoloso, il contesto guadagna in vastità: suggerisce il concentrarsi e l’inseguirsi di energie inindagabili, magneticamente cariche. Poteva capitare a chiunque di finire vittima dell’incantesimo di questo luogo, che più che i cipressi carducciani ci ha sempre destato la memoria del “Meriggio” dannunziano, tra contemplazioni di bonacce marine e mostruose metamorfosi silvane. È un tratto di costa in cui la natura davvero non sussurra; vibra invece come una presenza numinosa, ineludibile. Se è sereno, la si avverte vibrare senza interloquire, pur “nella dolce immobilità cilestrina e nelle fughe di cielo” (Elio Vittorini, Gli inverni marini, 1929).

Questo è lo scenario in cui si è dipanata, da un dato punto in poi, la vicenda umana e lavorativa di Michele Satta, varesino di nascita e di educazione. Qui Michele ha seguito un destino davvero imprevedibile, che lo ha portato oggi a essere riconosciuto a Bolgheri come un patriarca o un totem, un punto di riferimento morale, consultivo o persuasivo per tanti giovani all’avvio della loro avventura da agricoltori. Eravamo sempre arrivati in visita da Michele in primavera o in estate, spesso in una di quelle giornate tra giugno e luglio dove in qualunque ora del giorno è difficile Il destino, il talento e il rispetto scattare una foto decente, tanta la “bruciatura” dei particolari; stavolta, invece, siamo saliti a Castagneto Carducci a fine gennaio.

QUANDO SEI ARRIVATO A BOLGHERI?
«Nel 1974, a 19 anni»

ALLORA PARLIAMO DEI PRIMI 19, PER COMINCIARE, SE TI VA.
«Di sangue sardo, sono nato nel 1955, quindi ancora in quella fase in cui l’Italia viveva una rinascita sociale e intellettuale; ma sono nato in una tradizione paesana, alle porte di Varese, a Sant’Ambrogio Olona. Un contesto dove ci si conosceva tutti, e infatti se ripenso alla mia infanzia mi vengono in mente ricordi domestici, e la memoria di una certa autonomia di noi bimbi di allora. Devo avere maturato in quegli anni la visione della natura come di un mondo aperto a me come una cosa bella».

COME E QUANDO SI PRESENTA, NELLA TUA VITA, BOLGHERI?
«Dopo aver frequentato la seconda media, con i miei genitori – papà ingegnere, mamma insegnante – facemmo una vacanza in Sardegna, diciamo in cerca delle nostre origini. Mentre loro la giravano in lungo e in largo, mi lasciarono per una settimana dai miei zii di Nulvi, Baingio (Gavino, ndr) ed Evelina, in un podere chiamato “Funtana ‘e Sa Nughe” (“Fontana della Nuvola”). Avevano le pecore, i cavalli, mi svegliavo presto per fare il mio in campagna; in una settimana, mi innamorai di quel contesto. Anni dopo, quando alla fine del liceo si trattò di decidere cosa fare all’Università, scelsi agraria. Ripensandoci, credo di avere avuto una specie di attaccamento fisico per il lavoro della terra, un’affezione partita forse proprio intorno agli 11-12 anni».

SE TI DICO “NATURA” E TI CHIEDO DI PENSARE AI TUOI PRIMI VENT’ANNI, CHE IMMAGINE “VEDI”?
«Vedo la natura del mio paese, Sant’Ambrogio, e sento l’ebbrezza dei suoi profumi, delle foglie, della fioritura del mio giardino, e il toccare la terra quando mio padre mi faceva seminare il prezzemolo».

SCUSA SE SONO INDISCRETO, MA CHE RAPPORTO TROVI CI SIA TRA QUESTO TUO MODO DI VEDERE LA NATURA E LA MATURAZIONE DELLA TUA FORTE COSCIENZA RELIGIOSA?
«Strettissimo. È la stessa cosa, anzi. Identica. Di entrambe le cose, l’origine è lo stupore, che è il motore della dinamica umana. Quando sono venuto qui a Bolgheri, il ricordo più inscalfibile che ho è legato alla prima semina del grano. Guidavo questa macchinetta, aprendo e chiudendo una sorta di rubinetto per far cadere i semi, e ricordo queste zollone di argilla smossa con questo semino che cadeva, e ci spariva dentro. Quando un mese incadopo ho visto la terra completamente coperta di germogli mi sono quasi messo a piangere dalla commozione».

SI SBAGLIA A DIRE CHE IL TUO MOTORE INTERNO SIA DA SEMPRE IL TUO RAPPORTO CON LA VITA, IL TUO RISPETTO PER ESSA?
«No, non si sbaglia: è questo che mi è accaduto. È proprio una questione di rispetto, una bellissima parola che non riassume una forma di educazione imposta dall’etichetta, ma che viene invece da respicere, in latino “guardare indietro”. Il rispetto è il guardare ciò che c’è dietro. Perché ciò che chiamiamo vita è l’imporsi di un reale che viene dal passato, da ciò che è stato, da ciò che è stato fatto. La vita non è frutto di un calcolo matematico, è qualcosa che c’è».

E IL VINO QUANDO SUBENTRA NELLA TUA VITA, E COME?
«Come ti dicevo, era il 1974. Eravamo in campeggio qui a Castagneto con i miei, accompagnai mia madre a comprare i pomodori e incontrammo un vecchio compagno di studi di mio padre, ingegnere anche lui, che aveva una fattoria qui. Quando ha saputo che stavo per iniziare agraria, mi fece una proposta. Come usava allora, me la fece a Varese alla presenza dei miei. Io avevo 19 anni, e volevo sposare Lucia, cosa che avrei poi fatto a 23, e nella proposta di lavoro che questo ingegnere mi stava facendo era compresa anche la casa. Così accettai con entusiasmo e feci quattro anni di Università da studente lavoratore, prima da ragazzo di fatica, poi come fattore sostituendo il vecchio Antonio Pantani, ex mezzadro detto “il Moro”, che andava in pensione. Era una figura pittoresca, credo con la terza elementare, che aveva una cultura agricola spaventosa, completa. La vigna era l’ultimo raccolto dell’anno e serviva per fare il vino sfuso, o quello per il consumo del padrone. Era importante, ma nel novero di molte altre produzioni».

A CHE ANNO SIAMO ARRIVATI?
«Al 1978, e fino al 1983 non successe nulla di interessante. Ma io fui tra i testimoni di un’agricoltura che andava cambiando a velocità incredibile. Mi resi conto ben presto che il modello stesso della fattoria di un tempo, che aveva sempre funzionato, con il suo frazionamento in tante colture, era in fuorigioco e andava ripensato. Non aveva più alcuna possibilità di essere competitiva un’azienda come quella dove lavoravo, che coltivava, su 70 ettari a disposizione, 10 ettari di pesche, 2 di fragole “in tunnel”, mezzo di carciofi, uno di baccelli, 2 di grano, 7 di vigna, e così via». PERCHÉ? «Perché nel 1983 eravamo già fuori dal mercato senza rendercene conto, si andava sviluppando l’agricoltura di altre zone, con altri costi di produzione, più bassi, superfici ampie, sfruttate all’osso. Essendo a 22 anni responsabile anche della parte economica dell’azienda, anziché consegnare le pesche al grossista che le ritirava da noi andavo personalmente sul mercato di Livorno per fare qualche soldo in più. Prendevo il camioncino prima che albeggiasse e partivo. Una mattina avevo, ricordo anche il prezzo, ottime pesche a 1.200 lire il chilo. Alle 7 di mattina il prezzo era già sceso a 1.000. Alle 10 di mattina arriva un camion da Fondi e le vende a 500 lire al chilo. Io sono tornato a casa e metà del mio camion l’ho buttato via. Dopo qualche mese, ho deciso di andarmene: era tempo. Lo spiegai al proprietario, che mi comprese».

COME HAI FATTO DA LÌ IN POI, DICO PROPRIO MATERIALMENTE, ECONOMICAMENTE?
«Stavo per entrare in banca».

COSA?
«Il MedioCredito Centrale a Roma. Avevo un contatto. Il direttore della sede romana mi ricevette e gli piacqui; stavano per varare un concorso, mi fece capire che sarei entrato. Avevo risolto».

MA…?
«Ma proprio quando ormai ero destinato a chiudermi in un ufficio, due settimane prima del concorso mi richiamò il famoso ingegnere amico di papà e mi disse chiaro e tondo: “Michele, non ce la faccio a gestire la vigna, te la darei in affitto, compresa la cantina. Mi paghi solo il vino che c’è dentro”. Erano la bellezza di 1000 ettolitri, fatti da me l’anno prima. Io mi sono gasato: potevo pagare il vino, se lo vendevo subito. E da lì in poi potevo essere autonomo. Chiesi di poter usare tutti gli attrezzi dell’azienda dall’alba fino all’ora d’arrivo degli operai, cioè dalle 5 di mattina alle 7, e dopo che erano andati via fino a sera. Si strinse nelle spalle e accettò. Tesi la mano. Era il 1983».

E QUAL ERA LA VIGNA CHE TI STAVANO AFFITTANDO?
«Quella laggiù» - e indica una collina in direzione del mare, stupenda, dormiente, irrorata di luce. «Si chiama Vigna al Cavaliere. Iniziai insieme a un amico friulano puntando molto su quelle che chiamavamo “cubigiane”, cioè i bag-in-box da 10 litri, a 1.800 lire il litro; il venerdì caricavamo il camioncino, il sabato eravamo a Milano a fare il porta a porta dalle famiglie nostre clienti e tornavamo con i soldi (sorride, ndr)».

E LA PRODUZIONE IN BOTTIGLIA? COME SEI PASSATO DA QUELLA SITUAZIONE ALL’ATTUALE?
«Diciamo che lungo la strada l’innamoramento per la dinamica della produzione agricola ha lasciato strada all’innamoramento per il vino. Mi sono reso conto che fare vino tout court era una cosa, farlo con cura un’altra. Io nel 1985 non avevo mai bevuto una bottiglia veramente buona. Il momento fondamentale coincise con tre esperienze in breve tempo: un corso di analisi sensoriale che frequentai a San Michele all’Adige, progettato bene, con nozioni di chimica e di biochimica; l’incontro con Attilio Pagli, enologo con il quale collaboriamo ancora oggi con mia grande felicità; e l’incontro con Ornellaia, nel 1993».

RACCONTA.
«Sentii dire che alla Tenuta dell’Ornellaia era arrivato, da qualche tempo, un enologo ungherese che aveva 4 anni meno di me. Si chiamava Tibor Gál. Mi sembrò quasi doveroso chiamarlo, presentarmi, e lo invitai a giocare a pallone con i miei amici nella nostra partitella del sabato. Nacque un’amicizia autentica, e lui disse a Ludovico Antinori che sarebbe stato il caso che Ornellaia si avvalesse di un agronomo, perché incredibilmente non ne avevano uno. Mi chiamò Ludovico e mi offrì il posto. Fu una grazia divina per me: i rapporti con persone importanti, gli orizzonti che si spalancavano, ad esempio sulla logica dell’esportazione, e l’approccio diretto ai veri, grandi vini del mondo, finalmente, come quelli di Guigal, della Romanée-Conti, dei maggiori produttori alsaziani. Rimasi all’Ornellaia tre anni, fino al 1995, da agronomo. Tibor purtroppo è morto nel 2005, a 46 anni, in un assurdo incidente stradale in Sudafrica, ma chi lo ha conosciuto non lo può dimenticare».

INTANTO AVEVI INIZIATO ANCHE LA TUA PRODUZIONE.
«Nel 1990. Quello è l’anno del mio primo Sangiovese in purezza, prodotto in quattro barrique di numero; lo battezzai col nome della Vigna al Cavaliere, della quale avevo cambiato diversi aspetti agronomici, primo tra tutti la potatura, ma anche le rese. Da lì in avanti trovo che il percorso della mia azienda sia stato meno impetuoso, più coerente, meditativo. Più consapevole, ecco. E vedo il compimento della mia visione del vino, e non solo del vino, in quella di mio figlio e delle mie cinque figlie».

OGGI CHE AZIENDA È LA TUA, O MEGLIO, LA VOSTRA?
«Abbiamo 23 ettari tra proprietà e affitti. Il nostro vino viene solo da queste vigne, e ogni anno produciamo 8 etichette delle quali 5 portano il nome di Bolgheri come denominazione di origine. Gli otto vini sono: il bianco Costa di Giulia, un Bolgheri Rosso, un Viognier a nome Giovin Re (che è l’anagramma del vitigno, ndr), un Syrah, il Cavaliere, che è il Sangiovese ex-Vigna del Cavaliere da cui sono partito, e le selezioni Marianova, taglio di Syrah e Sangiovese, e infine I Castagni e il Piastraia».

CHE STORIA HA IL PIASTRAIA, IL ROSSO CHE ABBIAMO SCELTO PER LA VERTICALE?
«È un taglio paritario di cabernet sauvignon, merlot, syrah e sangiovese, nato con la vendemmia 1994. Il nome è un autentico toponimo bolgherese, sta per “luogo di estrazione di pietre piatte”, le “piastre”, appunto; fu scelto però per ragioni fonetiche legate ai grandissimi Bolgheri che ci avevano preceduto, che finivano quasi tutti per -aia; così ci chiesero i nostri distributori più importanti, e all’inizio del resto erano poche centinaia di bottiglie. Le uve arrivano da cinque vigneti: Campastrello, I Castagni, Torre, Vignanova e Poderini. Facciamo vendemmia e vinificazioni separate per varietà in tini di legno da 30 hl; la prima uva vendemmiata è il merlot, l’ultima il cabernet sauvignon. Maceriamo tra le tre e le quattro settimane, a seconda dell’annata e dell’uva, senza dogmi; il vino matura poi in barrique per un quinto nuove, per 18 mesi. Non abbiamo mai saltato un millesimo, quindi dal 1994 al 2017 sono state prodotte 24 annate su 24, e le assaggeremo tutte. Dal 2002 il vino è infine una vera selezione, in quanto da quell’anno produciamo il Bolgheri con le uve che ci sembrano meno adatte per un rosso da lungo invecchiamento, quale invece il Piastraia è, o dovrebbe essere».

UN’ULTIMA COSA. COSA TI È RIMASTO, SE QUALCOSA TI È RIMASTO, DELLA TUA EDUCAZIONE LOMBARDA?
«Anzitutto il senso e il valore del “fare”, è qualcosa che nobilita, io lo sento questo valore. E poi alcuni lati caratteriali che ho visto riflessi nella mia vicenda professionale, più che sentirli parte di me: il rischio dell’autonomia corso senza troppi tentennamenti, per esempio; il dovere di dire a se stessi “io devo capire”, e soffrire per capire, studiando, osservando; il saper prendere decisioni rapide; la missione di essere precisi nel lavoro; il rispetto».

DI NUOVO LUI.
«Di nuovo lui. Il rispetto».

PIASTRAIA Michele Satta
VERTICALE STORICA 2017-1994

2017
Valutazione complicata dalla gioventù del vino, che ha ancora qualche lascito fermentativo in toni un po’ lattici e in una sorta di “nebulosità” aromatica. Però promette bene: l’avremmo immaginato meno fresco, vista l’annata precoce e calda, invece ha un frutto succoso e una trama gagliarda, solida. Un Piastraia tra i più estroversi mai prodotti, in senso anche positivo.

2016
Ecco invece un profilo nitido, a tinte sfolgoranti, dalla definizione al laser; il classico timbro del millesimo in Toscana. Un tocco delizioso di agrume su fondo “minerale” di grafite e con qualche cenno erbaceo fresco prelude a un assaggio di misura classica, pieno di sapore. Lo chiude un’uscita appena amara, densa ed energetica, in crescendo di potenza. Vino di grande razza e di ottime prospettive.

2015
Annata solare, timbrata dalla forza di un grande sangiovese, leggibile nel contributo aromatico (sottobosco estivo, ginepro, humus, violetta); un lieve ricordo boisé addolcisce il profilo. La bocca è ampia, completa, impetuosa e più seria; l’alcol si fa sentire ma l’insieme non ha squilibrio, e l’accelerazione sapida del finale lo qualifica come uno dei nostri preferiti nella verticale.

2014
Versione interlocutoria: il profumo, pur con sfumature floreali di una certa delicatezza, ha per il resto toni scuri di terra, caffè in polvere e cacao, e un che di leguminoso; il gusto, dal canto suo, conosce una specie di “pausa” lungo lo sviluppo, e dà un’idea di diluizione, stemperandosi infine in una morbidezza impensabile. Tra i Piastraia degli ultimi anni pare quello da bere prima, secondo noi entro 4 o 5 anni, prima che perda altro mordente.

2013
Un’edizione riuscita e assai originale, dalle note balsamiche in evidenza (anice, genziana, menta) e con una bella distribuzione del sapore, avvolgente e caldo, ritmato da tannino piuttosto incisivo; dilaga infine la sensazione della sapidità. È un’altra annata con un sangiovese imperioso, il che ne rende il contegno quasi severo. Pare avere grandi margini di miglioramento, e può essere ancora conservato in cantina per diversi anni.

2012
Dedicato agli amanti delle percezioni dolci: quasi soave al naso tra mirto e rosolio, frutta nera e resina, e risolutamente morbido al sorso, scorrevole, rassicurante, proporzionato, un po’ sbrigativo in fondo. Manca la personalità delle annate migliori, e del resto il millesimo a Bolgheri è stato caratterizzato da un’estate arroventata, che causò raccolta precocissima di uve dal talento relativo. In beva.

2011
Come da letteratura sull’annata, incasella punti di forza e fragilità in variegato miscuglio. È un vino vistoso: offre con generosità note di rosmarino, terracotta, confetture e spezie tostate, ed ha intensità gustativa contundente. È però anche un rosso indefinito, in debito di dettaglio, in qualche modo incompleto. Le settimane centrali di agosto a 40°C sotto la sferzata del maestrale hanno costretto alla vinificazione di uve in parte appassite, ricche in valori analitici ma non di ispirazione e complessità potenziale.

2010
Ha di davvero notevole una cosa in particolare: l’integrità del frutto: la nota (amarena, susina rossa) è prepotente e nitida come forse in nessuna altra annata salvo la 2016. Con l’aria, ecco poi sfumature di fiori secchi, tabacco, liquirizia, e forse un presagio di goudron, ma il coacervo resta piuttosto vivido e succulento. Bocca di segno opposto, tannica e virile, dinamica nella frazione acida, e dalla chiusura lunga e salata, di sorprendente severità viste le premesse del profumo. Grande edizione, probabilmente per i meriti di un merlot mai distinto così nettamente dal “concerto” di uve del Piastraia.

2009
Due bottiglie aperte, nel dubbio: l’impressione su entrambe è quella di una evoluzione più veloce del previsto per un’edizione da annata calda. Si è trasformato quasi completamente in una decina d’anni: profuma oggi di rosmarino e castagna, ginepro e dattero, e in bocca rivela una dolcezza tannica inusuale, un leggero deficit di acidità, un contegno generale poco preciso. Chiude senza sbracare e senza distendersi, nei ritorni delle note un po’ dolciastre percepite al naso. Sarà bene affrettarne la stappatura.

2008
Uno stupendo profumo in pieno stile “rive droite”, voluttuoso e sensuale, può essere descritto scomodando descrittori come la ciliegia rossa, la rosa selvatica, il legno di cedro, l’acciuga, la mineralità più scura (grafite, cenere). In bocca non è tenacissimo, ma brilla invece per eleganza e raffinatezza, anche tattile, considerando la grana minuta del tannino; il contesto quasi sembra frusciare, rispetto ad altri millesimi. Un Piastraia tout en finesse, da godere oggi o aspettare ancora, perché riteniamo possa rimanere su questa linea espressiva a lungo grazie alla sua spontanea leggiadria.

2007
Piccola annata, col senno di poi: non manca certamente di grazia, anche perché la struttura estrattiva è a dir poco agile, ma anche dei limiti ben precisi di complessità: non va insomma molto oltre una declinazione “naftalinosa” delle componenti balsamiche, e il frutto appare velato da questa coltre di odori da erboristeria. Senza essere ossidato, in bocca rivela che il suo tempo migliore è passato da qualche anno: gli difettano la presa, un carattere originale, l’autorevolezza.

2006
Di impressionante prestanza sin dal colore, conferma la fama del suo millesimo di aver frequentemente partorito, in regione, degli autentici colossi. Questo “sa” di ciliegia nera e more in confettura, carbone e brace, humus e ratafià; come in un Caravaggio maturo, rischiarano il cupo profilo lampi fulminei di freschezza, pennellate floreali, un ricordo di agrumi. Bocca di solennità monumentale ma statica, marziale, distaccata, come quella di tanti coetanei toscani. Commiato nel segno di una densità “masticabile”: un soliloquio di impeccabile coerenza, ma un soliloquio.

2005
È un’annata da rivalutare, nella Toscana centrale e in quella costiera; i vini, che parevano inizialmente eleganti ma sommessi, si sono invece dimostrati in possesso di doti di resistenza insospettabili. Ed ecco un Piastraia in versione fine e minuziosa, delicato ma non debole: fiori, pepe, alghe e felce a profusione nel bouquet, grazia e bellezza al sorso, nobile e fresco, ravvivato da echi di sapore che rammentano l’arancia amara e le spezie balsamiche (chiodo di garofano). Bel finale lindo e di controllata estensione; pare di cogliere la eco di un bel syrah. Ha probabilmente ancora margini di evoluzione, ma goderlo in questi mesi pare un’ottima idea… a trovarlo.

2004
Annata tecnicamente difficile a Bolgheri: serviva la mano leggera per tirar fuori il meglio dalle uve del 2004. Qui, compito riuscito a metà: qualche nota sovramatura c’è – persino qualche cenno “animale” e di pellame conciato – a inficiare un profilo per il resto forte e sanguigno, di apprezzabile continuità se non proprio dinamico al gusto. Finale gustoso, ma maturo e non così suggestivo nel dolce ritorno fruttato e in quello speziato di cacao amaro.

2003
Un rosso di eccezionale splendore: completo in tutto, il 2003 è il prodotto di un millesimo che apparve ingestibile per eccesso di calore, e che invece ha talvolta stimolato nelle viti la loro portentosa reattività naturale. Ha una silhouette olfattiva di gran classe, integra dopo 16 anni, tra gelsi freschi, tabacco, fieno e liquirizia, e con un cenno ferroso. Vigorosa la bocca, in cui sorprendono la presenza acida e la magnifica grana del tannino. Chiude lungo ed espressivo ribadendo il suo lato migliore: la capacità di coinvolgere.

2002
In ottima forma dopo un bel po’ di tempo e soprattutto dopo che l’annata ha mostrato in innumerevoli circostanze e salvo eccezioni la sua scarsa propensione all’invecchiamento. Qui, c’è di contro una vitalità brillante: il profumo evoca gli agrumi, il mare, la lavanda, la frutta esotica; un tocco di legno ancora leggibile ricorda la gracile costituzione del vino, che non lo ha “digerito” mai – in annate come la 2002, piovose e di poca luce, accade sovente. In bocca peraltro “c’è” ancora tutto, pur declinato in una fisicità minuta e nervosa; la chiusura ha citazioni di erbe aromatiche e un tocco di clorofilla. Tratto, originalità, integrità: la vera sorpresa della verticale.

2001
Atout principali: lo stato evolutivo - lusinghiero, tanto da farne un vino magnetico e attraente – e la compostezza generale. Punto debole: è sempre rimasto un rosso monolitico, inscalfibile o quasi dal tempo, e quindi relativamente poco eloquente e dal quale filtrano ancora oggi quasi solo elementi “tattili”: la dovizia di estratti, il calore alcolico, la vena acida, la sapidità del finale. La sua tenacia è comunque un dato qualificante: su una zuppa di legumi alla toscana funzionerà ancora a meraviglia, persino più di quanto avrebbe fatto dieci anni fa.

2000
Per una volta, è il naso a risultare ritroso ed enigmatico (si colgono flebili accenni di more e fumo, zucchero filato e mirto), e la bocca a farsi invece rivelatrice di un temperamento. Che in questo caso è di gran vigore e inattesa forza dinamica, quasi mai patrimonio di questo millesimo italiano caldo e precoce, celebratissimo (e sopravvalutato) oltreoceano. Pregevoli anche l’armonia e la coesione del vino, in beva ora e per almeno altri cinque anni.

1999
Era un esito magnifico ai suoi esordi; lo abbiamo ritrovato memore della sua bellezza passata, nonostante l’impietoso lavorio del tempo. Il profilo che offre oggi ha un tono mellito, ma anche sfumature di salvia, viola, sottobosco e tabacco biondo, e un’idea amarostica di rabarbaro. Al sorso si è trasformato in modo strano: una sferzata acida lo fa trasalire dall’interno; il tannino è rude e asciutto; la sapidità straripa nel finale, estendendolo. Segue nel bene e nel male i destini del sangiovese che vi contribuì.

1998
Colore e profilo olfattivo crepuscolari e vien da dire malinconici; sa di fogliame e di radici, erbe da amaro, frutta ammaccata, forse tabacco scuro; la bocca è pacificata nel tannino e bonaria nello sviluppo, ma è ancora in grado di lasciar scoccare una scintilla salina in fondo, testimone delle sfumature “minerali” che ha sempre avuto. Ha platealmente già dato il suo meglio, eppure un ascolto paziente può ancora rivelarne qualche aspetto interessante.

1997
Bouquet interamente terziario, non ossidato: c’è inoltre una lieve impronta del “brett” a velare un poco gli odori di metallo fuso, fungo, carruba, camino, rosa appassita: un insieme fosco la sua parte, ma non privo di un fascino “gotico”. Peccato però che il sapore sia assai più logoro: un’acidità aliena al corpo del vino non fa che alimentare la sensazione di sconnessione tra le parti. Finisce su ritorni confusi, senza allungare. Annata controversa, apprezzata all’epoca; alla prova dei fatti però sono pochi i 1997 ancora saldi “sulle gambe”, a Bolgheri come nel resto della regione e del paese.

1996
Se c’è un elemento comune ai 1996 europei, quello è l’acidità veemente. Bolgheri, pur nella mediterranea luminosità dell’ambiente, non fa eccezione, e difatti questa versione del Piastraia vive proprio della signorile eleganza di tocco assicurata dall’acidità, che prende in carico il compito di “sollevare” il peso del vino. Note balsamiche e di agrumi, di tè e fiori secchi al naso, una bella struttura all’assaggio, un epilogo di piena soddisfazione. A quasi un quarto di secolo dalla vendemmia, un’esibizione stupenda: il migliore dei vecchi Piastraia a mani basse.

1995
Filtra ancora qualche vaga suggestione speziata e qualche nota empireumatica dallo spettro olfattivo, ma il vino è più o meno ossidato ed esausto. Anche in bocca si nota l’ormai prossimo cedimento della struttura, non adeguatamente sostenuta dagli estratti e dai fenoli, come svuotata al centro dello sviluppo e di scarso significato nei ritorni aromatici.

1994
Spoglio, essenziale, ma riconoscibile come vino da uve almeno in parte bordolesi, la cui presenza si trova riflessa nelle note di mentolo, cedro, concia, bacche mature, peperoncino; l’ossigenazione ne fa emergere in una mezz’ora la componente erbacea meno nobile (tisana, saggina, ortica). Bocca di medio peso, con un buon calore in fondo, senza slanci particolari. Un vino che ha “tenuto”, ma che non ha saputo trasformarsi virtuosamente come altre annate dello stesso periodo. Nota bene: la 1994 è un’annata da definirsi sperimentale. Ne furono prodotte, e certo non con i mezzi odierni, solo 500 bottiglie. È il raro, lontano testimone dell’avvio della vicenda che sin qui abbiamo raccontato.