Nuove leggende, stessa emozione. Undici vini iconici del Nuovo Mondo

Nuove leggende, stessa emozione. Undici vini iconici del Nuovo Mondo

Mondo Vino
di Ilaria Ranucci
18 giugno 2022

Arrivano da California, Oregon, Cile, Australia, Argentina, Canada e Sudafrica e hanno rappresentato un momento di svolta nella storia enologica dei rispettivi paesi. In alcuni casi hanno anche sovvertito graduatorie che sembravano intoccabili

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 22 Maggio 2022

Come sommelier AIS viviamo un dilemma, anche se felice. Da esperti e degustatori siamo chiamati a essere obiettivi e ad applicare logiche comuni. Come appassionati, invece, gettiamo alle ortiche ogni pretesa di oggettività e dedichiamo tempo, fatica e denaro a cercare vini che ci facciano battere più forte il cuore. Alcuni sono personali – il proprio anno di nascita, quello di una persona cara o un vino associato a un momento particolare della nostra vita. Altri fanno parte del nostro vissuto comune di esseri umani e di appassionati di vino. Difficile, se non impossibile, restare impassibili di fronte a un vino di annata storica, all’ultima annata di un grande produttore ormai scomparso, al primo assaggio nella vita di un vino di cui avevamo sentito tanto parlare. Per nostra fortuna ci sono molti vini con storie emozionanti da raccontare. Quelli più recenti testimoniano la grande trasformazione del mondo del vino nel secondo dopoguerra. Ve ne raccontiamo alcuni provenienti dal cosiddetto “Nuovo Mondo”, con focus sui vini che hanno rappresentato un momento di svolta – in senso vitivinicolo – nel Paese di appartenenza. Tre vini californiani, uno dell’Oregon, due cileni, due australiani, un argentino, un canadese e un sudafricano. Diversi tra loro, ma con elementi ricorrenti: il riferimento, con ammirazione e spirito di competizione, ai vini del vecchio mondo; la capacità di visione, spesso contro tutto e tutti, di chi li ha creati.

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Penfold’s Bin 95 Grange.
Il brutto anatroccolo che è diventato un cigno

L’ormai mitico Grange ha seriamente rischiato di non vedere mai la luce. Il motivo? La struttura e la sua trama tannica, inusuali all’epoca per un vino australiano. Era una diversità ricercata, il frutto di un viaggio in Europa in cui il suo creatore, Max Schubert, maturò l’idea di applicare in Australia le tecniche produttive dei grandi bordeaux, scegliendo però la syrah, shiraz, più idonea ai climi australiani, cui si aggiungerà nel tempo una piccola percentuale di cabernet sauvignon. Particolarità, inusuale per un vino icona, il fatto che le uve provengano da regioni diverse, una selezione anno per anno tra i vigneti migliori della Penfold’s. Il brutto anatroccolo, prima annata 1951, fu giudicato imbevibile e non idoneo al commercio. Schubert lo nascose per qualche anno, nella convinzione che con l’affinamento sarebbe diventato un cigno. Ebbe ragione: nel 2021 una delle poche bottiglie rimaste delle prime 1800 prodotte nel 1951 è stata battuta all’asta per 142.131 dollari australiani (al cambio di oggi, circa 93.000 euro). Più di tutto, ha cambiato la percezione del vino australiano, affermando la tipologia dei grandi shiraz capaci di lungo affinamento, ricchi di estratto, spinta e tannino, resi più complessi dall’apporto del legno, comunque comprimario, sovrastato dalla potenza del frutto.

Henske Hill of Grace.
Il tormento e l’estasi

L a Collina della Grazia, nella Valle dell’Eden. Un nome decisamente impegnativo per questa perla della Eden Valley. Hill of Grace è la traduzione di Gnadenberg, il nome della chiesa sulla collina, lo stesso di una zona del paese di origine della Famiglia Henske, fuggita dalla Siliesia (allora parte della Prussia, oggi divisa tra Germania e Polonia) negli anni ‘40 dell’800. Muoiono nel viaggio la moglie e i due bambini più piccoli, si salvano il padre con i figli più grandi. Da questa storia di sofferenza e dura fatica nasce l’azienda vitivinicola che prende il nome dalla famiglia, punto di riferimento della Eden Valley, tuttora a conduzione famigliare e giunta alla sesta generazione. Come filosofia aziendale, un forte legame con la regione e con la tradizione e, da alcuni anni, un crescente orientamento alla viticoltura organica e alla biodinamica. Fiore all’occhiello e simbolo di questa storia di riscatto il vigneto Hill of Grace, piantato prevalentemente a syrah/shiraz, 4 ettari a 400 metri di altitudine, su suoli alluvionali. Le viti più vecchie, prefillosseriche e a piede franco, risalgono al 1862, 160 anni fa, e danno una rimarchevole concentrazione al vino omonimo, molto complesso e articolatissimo nei profumi, ma sempre elegante e rigoroso quanto esuberante è invece il Grange. Nella diversità ugualmente emozionante.

Chateau Montelena e Stag’s Leap.
Il Giudizio di Parigi

A un anno dalla scomparsa di Steven Spurrier, e con i migliori vini californiani ormai colmi di onori, è impossibile non citare il famoso “Giudizio di Parigi” e i due outsider che hanno rivoluzionato, in un solo giorno, il mondo del vino. Spurrier organizzò nel 1976 a Parigi una degustazione alla cieca di vini francesi e californiani. Vitigni: cabernet sauvignon e chardonnay. All’evento invitò un panel formidabile di degustatori, per lo più convinti che la giornata sarebbe stata non più che una giocosa occasione di incontrarsi per ribadire la superiorità dei propri vini transalpini. Vinsero, invece, rispettivamente nella categoria dei bianchi e dei rossi, Chateau Montelena 1973 e Stag’s Leap 1973. La presenza, quasi casuale, di un giornalista di Time trasformò la degustazione in un terremoto e mise sulla mappa del vino di qualità la California. All’epoca entrambe le aziende erano di recente fondazione e si trovarono improvvisamente in orbita. Oggi Stag’s Leap Wine Cellars, nell’omonimo distretto, e Chateau Montelena Winery, nel distretto di Calistoga, rimangono punti di riferimento della Napa Valley. I vini più recenti non hanno perso smalto, mantenendo lo stile che li contraddistingueva già all’epoca, non potenti e debordanti come i loro successori di epoca parkeriana, ma equilibrati, vibranti ed espressivi.

Opus One.
Un’opera prima, tutto fuor che modesta

Difficile immaginare due personaggi più estroversi e carismatici di Robert Mondavi e Philippe de Rotschild, entrambi già celebri negli anni ’70, quando nacque l’idea di una joint venture, su proposta del primo, che però non cedette il passo su nulla al pur blasonato socio francese. Rocambolesca la nascita del vino. Si discute su molti aspetti. Sul nome alla fine si decide per “Opus One”, “Opera Prima”. Sull’etichetta la scelta cade sulla celebre immagine dei due profili, in cima quello di Rotschild, ma con sotto più in alto la firma di Mondavi. Per quanto riguarda le vigne, le uve per la prima annata vengono addirittura comprate, come temporaneo compromesso. Il team di enologi è codiretto, ma lo stile produttivo è molto orientato a quello di Mouton, con un uvaggio tipico della rive gauche. La prima cassa del 1979 segnò un record a unʼ asta di beneficienza. Oggi è un classico e mantiene, sia pure nella potenza tipicamente californiana, uno spirito bordolese, riassunti in un profilo gusto-olfattivo ricco e articolato. Negli anni si è accorciata la permanenza in legno, da 24 a circa 18 mesi, e si sono allungati i tempi di macerazione. Prevale sempre il cabernet sauvignon, in percentuale variabile tra l’80% ad oltre il 90%. Da sempre, come complemento, cabernet franc e merlot, con aggiunta, in modo discontinuo, di petit verdot e malbec.

Pinot Noir The Eyrie
Per amore dell’heartbreak grape

Se oggi è indiscusso il fatto che l’Oregon sia una delle patrie del pinot nero, l’”heartbreak grape”, nessuno ci avrebbe remotamente pensato negli anni ’60 del ‘900. Il fermento era in California e l’ideale da inseguire, bigger and better, Bordeaux. In fuga da quel modello di vita e di vino, un piccolo e disomogeneo gruppo di pionieri si stabilì nell’umido e fangoso Oregon. Leader informale del gruppo David Lett, dentista mancato e diplomato in viticoltura alla UC Davis, folgorato ante litteram dal pinot nero durante le sue esperienze di lavoro in Europa. Tornato negli USA, contro ogni consiglio, si mise alla ricerca di un posto dove i terreni non costassero troppo e il clima ricordasse quello, non certo solare, della amata Borgogna. Trovò la Willamette Valley. Fanno sorridere oggi le foto e i racconti delle condizioni di vinificazione dei primi anni, a dir poco creative. Nessuno rise e molti rimasero a bocca aperta quando il 1975 South Block Reserve, sesta annata prodotta, si qualificò terzo alla Olympiad di Gault Millau nel 1979 a Parigi, dimostrando che il sogno di quei pionieri aveva solide radici. Dopo oltre 40 anni David Lett non c’è più, ma il primo vigneto piantato, the Eyrie, ormai vigna vecchia, ancora produce quello che, per coerenza, classe ed energia, è uno dei vini bandiera dell’Oregon.

Catena Zapata Adrianna Vineyard Malbec
La lucida ricerca dell’eccellenza

Definire Nicolás Catena come il padre del vino argentino moderno non è una esagerazione. Nipote di immigranti italiani, professore di economia, tornò suo malgrado per necessità – la morte del nonno e della madre in un incidente – all’azienda di famiglia negli anni ‘60 del ‘900, per farne, in pochi anni, il principale produttore di vino argentino. Innumerevoli le novità introdotte, grazie anche a una grande apertura all’estero, e alla costante frequenza delle eccellenze mondiali, con lunghi viaggi e frequenti degustazioni e poi il supporto della figlia Laura. A coronamento, la scelta di proporre anche vini più ambiziosi e identitari, per portare l’Argentina nelle liste dei vini top. Tra le novità introdotte i cru di malbec, in diverse declinazioni espressive di terroir. Tra questi il vigneto Adrianna, piantato nel 1992 nella Uco Valley, a Gualtallary, rompendo gli schemi dell’epoca: suoli alluvionali e poveri a circa 1450 metri di altitudine, dove si pensava impossibile produrre vino di qualità. Il Catena Zapata Adrianna Vineyard Malbec e i tre cru, Fortuna Terrae, Mundus Bacillus Terrae e River Stones, sono l’antitesi del luogo comune che vuole i malbec argentini immediati e fruttati. Sono freschi, minerali e propensi a esprimersi al meglio dopo qualche anno di sosta in bottiglia.

Seña & Almaviva
Uniti per vincere

Al massimo piacevole, equilibrato e fruttato, e con un buon rapporto qualità/prezzo. Questo è stato, sino a quasi la fine degli anni Novanta, il prototipo dei vini cileni. Al tempo stesso un tratto positivo, che ha consentito la crescita sul mercato internazionale e una maledizione, poiché rendeva quasi impossibile proporre con successo vini più impegnativi. Poi, quasi in contemporanea, sul finire degli anni ‘90 del secolo scorso, sono nate due joint venture internazionali, dichiaratamente alla ricerca di quello che mancava: un vino icona, prodotto senza compromessi, e con consistenti investimenti, per confrontarsi con i mostri sacri. Nel 1996 Eduardo Chadwick di Viña Errazuriz si allea con Robert Mondavi per produrre Seña. Un taglio bordolese, a predominanza cabernet sauvignon, fermentato e maturato in legno e prodotto in un vigneto appositamente selezionato nella Aconcagua Valley. Suoli più sabbiosi di quelli prevalenti nel Medoc ne fanno un vino più concessivo dei migliori bordeaux, ma comunque articolato e complesso. Nel 1997 Concha y Toro annuncia invece, in collaborazione con Philippe de Rothschild, la nascita di Almaviva. Altro taglio bordolese, ugualmente a prevalenza cabernet sauvignon e affinato in legno, prodotto in uno dei migliori vigneti a Puente Alto, nella Maipo Valley.

Inniskillin Gold Vidal Icewine
L’equilibrista che viene dal ghiaccio

C’è un clima ideale per la coltivazione della vite. E poi c’è il clima canadese, spesso estremo, in cui anche una pianta resistente come la vite fatica ad esprimersi, soprattutto prima dell’attuale riscaldamento climatico. Già intorno al 1970 c’è chi ha trovato una soluzione creativa al problema, andando a riproporre, in tutt’altro continente, un metodo di vinificazione di nicchia persino nei paesi di origine come Germania e Austria. Inniskillin, azienda fondata nel 1975 da Donald Ziraldo e Karl Kaiser, è sin dalla nascita una pioniera, con la prima nuova licenza per produrre commercialmente vino in Ontario dal 1929. Innova anche in ambito produttivo, divenendo l’alfiere dell’icewine canadese. Prima annata commercializzata il 1984, perché nel 1983 le uve lasciate in vigna e divenute dolcissime furono mangiate dagli uccelli. Il “vino del ghiaccio” ha indiscutibilmente fascino. Uve colte nel pieno di freddissimi inverni, pressate ghiacciate per eliminare l’acqua e ottenere un vino ad elevato residuo zuccherino. Le condizioni sono estreme e il resistentissimo riesling lascia all’inizio spazio all’ancor più indomabile vidal, ibrido francese da ugni blanc e seybel, che regala un vino in cui la indiscutibile spalla acida crea una coppia armoniosa con la grande dolcezza.

Klein Constantia Vin de Constance
La rinascita della fenice

Diventare il primo Governatore di una ancor giovane colonia africana non è cosa da poco. Ma Simon Van der Stel (da cui prende il nome Stellenbosch) è passato alla storia soprattutto per la passione per la viticoltura, che lo portò a identificare già alla fine del Seicento suoli con grande vocazione vitivinicola non lontano dal Capo di Buona Speranza, creando la leggendaria Constantia. Nonostante le alterne vicende seguite alla sua morte, con la divisione di Constantia in tre proprietà, la sua visione si avvera nel corso del Settecento e da quel terroir nasce uno dei primi vini “super premium” al mondo, il Vin de Constance, prodotto da uve appassite in pianta, principalmente muscat de Frontignan (moscato bianco). Si dice che persino Napoleone abbia voluto berlo anche in punto di morte. La ruota continua a girare e da metà 1800 cambiano i gusti e i flussi di esportazione e arrivano le nuove malattie della vite, portando il declino e persino il fallimento. Del Vin de Constance rimangono la fama e, in un diario di fine 1700, una descrizione del processo produttivo. È solo nel 1990 che, dopo una impegnativa ricerca del profilo originale del vino promossa dal nuovo proprietario di Klein Constantia, Duggie Jooste, questo vino storico, intrigante e con grande potenziale di invecchiamento, torna a vedere la luce.