La new wave dell’arte bianca

La new wave dell’arte bianca

Non solo vino
di Alessandro Di Venosa
18 febbraio 2021

Chi sono i giovani panificatori che stanno rivoluzionando la produzione del pane di qualità in Italia? A chi si ispirano? Qual è il loro manifesto?

Il pane è un elemento che conosciamo da sempre e che ha letteralmente accompagnato la storia dell’umanità. Eppure, mai come oggi, questo alimento è al centro di confronti e domande che raccolgono attorno al dibattito agricoltori, mugnai, studiosi, grandi chef e, naturalmente, panificatori.

Si è detto molto di una new generation che nell’ultimo decennio si è approcciata in modo nuovo al mondo dei lievitati e lo sta completamente stravolgendo. Ma chi sono i protagonisti di questa nuova ondata di panificatori? Stanno davvero sovvertendo l’idea di pane e panificazione?  E perché la loro figura è così nettamente diversa da quella del prestinè, il panificatore così come lo abbiamo conosciuto fino all’inizio di questo millennio?

Farina e dopoguerra

Lo stereotipo del panificatore al quale siamo abituati a pensare ci racconta di uomini – quasi mai donne – che lavorano prettamente di notte, che trasformano enormi quantità di farina industriale e quando la saracinesca del negozio si alza per far entrare i primi clienti, riaprono la porta sul retro e tornano a casa per il giusto riposo. Una figura del tutto ininfluente rispetto alla qualità e alla sostanza del prodotto finito.
Questa involuzione di una delle figure più importanti della nostra cultura gastronomica, trova il suo avvento in un momento storico preciso: il secondo dopoguerra e il Piano Marshall. È questo il momento a partire dal quale cambia completamente il concetto di panificazione. La nota farina Manitoba, originaria di un’ampia provincia Canadese, fu importata per la prima volta in Europa: fare pane, ora, voleva dire usare farina super raffinata, proteica, facile da lavorare e bianchissima; il saccharomyces cerevisiae (più comunemente noto come lievito di birra) utilizzato a manciate. Era il momento del grande boom economico, in cui tutto andava veloce, anzi velocissimo, e anche il pane doveva riuscire a mettersi nella scia di questo trend. 

Le famiglie un tempo erano numerose, compravano sempre il pane per la settimana; il boom economico ha ristretto i nuclei familiari, le persone hanno cominciato a mangiare più spesso fuori casa e ci si sono messi pure i surrogati del pane, come cracker e grissini” ricorda Gabriele Bonci in un’intervista al Gambero Rosso.

Fu l’inizio di una rivoluzione e fu la fine, o quasi, delle produzioni agricole locali: fino agli anni ’50 del '900, infatti, il pane veniva prodotto con farine prodotte dai mulini indigeni che erano in grado di rifornire tutti i fornai che orbitavano intorno. Si trattava di un vero e proprio prodotto contadino, figlio del territorio.
In un incontro tenutosi nel maggio del 2019 organizzato da Made in Corvetto dal titolo il “Pane di Milano”, Davide Longoni – uno dei padri di questo nuovo movimento di panificatori – racconta di come l’arrivo del grano americano cambiò completamente il punto di vista sulla panificazione contemporanea: “La nascita della forma odierna della pizza o della michetta si devono all’introduzione di queste farine di forza che danno vita a pani leggeri e molto lievitati. La guerra rappresenta quindi un importante spartiacque: quelli che prima erano i pani scuri, i pani grigi, vengono ora associati alla povertà, mentre il pane bianco, leggero e a poco prezzo diventano simbolo del benessere e della ricchezza appena riconquistati”.

Eugenio Pol

Eugenio Pol, il Vulaiga

Il pane si fa con le mani. Decidere di lavorare con materie prime non standardizzate significa che dovrai basarti su quello che ti dirà l’impasto, non c’è ricetta, non c’è manuale. La tecnica assume un significato diverso: diventa allenamento quotidiano; allenare i sensi a riconoscere gli attimi, allenare il tatto a sentire il giusto momento. Il fornaio rispetta il pane quando impara a conoscere i suoi stati. Il pane viene bene quando sappiamo ascoltare quello che ogni giorno ha da raccontarci”. È quello che si legge in un post su Instagram di Pandefrà, panificio di Senigallia condotto dalla giovane Francesca Casci. Poche righe che però sono una summa della controrivoluzione iniziata nel 1990 per opera di un uomo, un vero e proprio spirito libero, di nome Eugenio Pol: cuoco prima, panificatore poi, fino ad essere entrambi ad un certo punto della sua storia. 

Siamo in Valsesia, Nord Piemonte, Eugenio lavora nella cucina di un’osteria di Varallo. Va tutto bene, ma c’è una cosa che continua a tormentarlo: quel pane che tutti i giorni viene servito agli avventori dell’osteria non ha sapore, al limite sa di lievito di birra – che era diventato ormai ciò che identificava il profumo e il sapore del pane – e ha una consistenza poco gradevole; soprattutto non ha nessuna capacità di abbinarsi ai suoi piatti.
Inizia quindi a studiare e a lavorare su una panificazione diversa: quella detta naturale e che si basa sull’utilizzo di lievito madre. Sa che in provincia di Lodi c’è un panificatore che lavora secondo questi principi: lo invita nel suo ristorante, gli offre il pranzo e si fa spiegare cosa fare. La risposta alla domanda su come procedere è la più spiazzante che si potesse ricevere: “Mescola acqua e farina. Poi lascia fare a loro”. Nessun acceleratore, nessun trucco. È quello il giorno in cui nasce il lievito madre di Eugenio Pol. Oggi la “sua madre” ha 30 anni (circa la metà di quelli di suo “padre”) e dal 1996 è la protagonista indiscussa di Vulaiga – termine che in dialetto locale indica la neve quando scende leggera come farina – il forno fondato da Pol a Fobello.

Davide Longoni

Un pane nuovo, un ritorno al passato

Ma torniamo alla figura di Davide Longoni. Quando Davide, dopo una laurea in Letteratura e le prime attività lavorative, capisce che la sua strada è quella del pane, nonostante avesse alle spalle una famiglia di panificatori, trova in Eugenio Pol la sua vera fonte di ispirazione, tanto da riuscire finalmente a conoscerlo al Salone del Gusto di Torino nel 2018. Davide si sposta dal cuore della Brianza a Monza e, dopo qualche anno, a Milano.
La sua attività è in perenne evoluzione: continua a studiare e a cercare ogni giorno la via per offrire ai suoi clienti un pane diverso, per stupirli con quegli stessi profumi e sapori che lo avevano folgorato una sera a cena agli inizi degli anni 2000. Per lui fare pane è prima di tutto un gesto culturale: significa occuparsi del territorio andando a cercare personalmente agricoltori e mugnai che gli forniranno la materia prima principale. Farine biologiche, poco raffinate, provenienti da cereali che in molti casi sono stati salvati dall’oblio (anche grazie al suo lavoro). Da qualche anno, nel Parco Agricolo Sud di Milano, Davide ha avviato la sua coltivazione di cereali arrivando a fare pani completamente autoprodotti.

La carica dei nuovi giovani panificatori

Come avvenne con Eugenio Pol, oggi Davide Longoni è diventato una sorta di guida “pratica e spirituale” di un manipolo di panificatori moderni che hanno trovato e stanno perseguendo la strada del buono. L’identikit della nuova generazione parla di donne e uomini, spesso giovanissimi, che prima di tutto hanno potuto e voluto studiare e informarsi; sono spesso laureati in materie, solo all’apparenza, slegate da quella che hanno fatto diventare la loro attività di sostentamento. Chi sono? Solo per citare alcuni di loro: Francesca Casci di Pandefrà ha una laurea in giurisprudenza, Pasquale Polito di Forno Brisa, una delle realtà più dinamiche in Italia, è laureato in Geografia, Aurora Zancanaro di Le Polveri di Milano è laureata in chimica così come Lorenza Roiati de L’assalto ai Forni di Ascoli Piceno. Potremmo andare avanti a lungo, perché i protagonisti di questa new wave sono tanti e tutti molto preparati. Molti di loro si sono formati all’interno di cucine stellate: è il caso, ad esempio, di Adriano Del Mastro, fondatore dell’omonimo forno a Monza, che è stato cuoco prima e chef bakery poi per Niko Romito.

La loro preparazione, indipendente dalla materia, è l’elemento principe che muove quest’onda. Lo studio e le tante esperienze in patria e all’estero hanno conferito a ognuno di loro l’apertura mentale necessaria a capire che per crescere, tutti insieme, non servono segreti; anzi lo scambio di informazioni è basilare per l’avanzamento di tutto il movimento. È a partire da questa idea che nasce l’attività dei PAU, i Panificatori Agricoli Urbani. Bread for Change è il loro motto e lavorare insieme per un pane, e non solo, migliore è la loro missione. I PAU collaborano, sono sinergici: in alcuni casi coltivano insieme i campi dai quali arriverà la farina per le loro produzioni, si incontrano in collettivo più volte all’anno presso bellissime location immerse nella natura per parlare dello stato dell’arte del loro lavoro e per decidere insieme la direzione da prendere. Qualche mese fa è nato anche il loro manifesto: 10 punti in cui si esprimono le visioni di fondo su cui tutto è fondato. Eccoli:

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1. Fare il pane è un atto agricolo

La materia prima del nostro lavoro quotidiano è il cereale trasformato in farina. Ogni impasto esprime il nostro legame con la terra.

2. Il panificatore è un paesaggista

Il pane dà forma all’ambiente in cui viviamo, la scelta delle materie prime determina il paesaggio. 

3. Il pane ha nome e cognome

Il pane è fatto di persone: i contadini che coltivano i cereali, i mugnai che li trasformano in farine, gli artigiani che le panificano, i consumatori che se ne cibano. 

4. I laboratori dei panificatori hanno pareti trasparenti

Cooperiamo condividendo ricette, consigli e fornitori. Crediamo che la rivoluzione del Pane Agricolo Urbano sia di tutti, per questo accogliamo nelle nostre botteghe chiunque scelga di intraprendere la strada del pane.

5. Crediamo in un futuro artigiano

Ci definiamo artigiani del pane e, nel farlo, associamo un significato specifico a questo concetto, ovvero la capacità di visione e la conoscenza diretta di tutta la filiera, a prescindere dalle dimensioni produttive dell’azienda. Nel lavoro artigiano mente e mano sono collegate e anche la tecnologia è al servizio della filiera.

6. Il panificatore è un soggetto dinamico

Ognuno di noi all’interno del proprio laboratorio fa ricerca. Lavoriamo farine agricole, ogni giorno ci adattiamo a una materia prima diversa mettendo in discussione quanto fatto fino a quel momento. Precondizione per l’innovazione è l’assenza assoluta di dogmi.

Il panificatore ogni giorno si adatta alla lavorazione di una materia prima viva e che attraverso il suo prodotto agisce e opera in un sistema sociale, culturale.

7. Le nostre botteghe sono presidio di gentilezza

Una rivoluzione è in corso e vogliamo raccontarla. Le nostre botteghe e i nostri laboratori sono spazi accoglienti, ambienti permeabili e aperti allo scambio immateriale. In negozio si fa cultura del prodotto, si tessono reti. Il ruolo di chi lo presenta è di grande importanza. 

8. Il pane è nutrimento

Mangiare il pane deve far bene e deve essere un piacere. La ricerca della qualità riguarda le materie prime e i processi di trasformazione, per garantire salubrità e integrità nutrizionale. Il prezzo del pane prodotto ne rappresenta il valore, misurato in termini di impatto sull’ambiente, sul paesaggio e sulla società.

9. Il pane è relazione
Siamo amici, un gruppo di persone che vive con piacere lo stare insieme. Crediamo che la rete rappresenti un’opportunità per crescere condividendo riflessioni, idee e il nostro tempo. Ci siamo dati un compito ambizioso: ricordare alle comunità la centralità del pane. Il prodotto si pone al centro di una rete sociale, la innesca e la tiene in piedi.

10. Siamo espressione della biodiversità

Come in un organismo agricolo, la forza dei Panificatori Agricoli Urbani è data dalla capacità di adattarsi e co-evolvere. Crediamo in un ambiente capace di accogliere nuovi stimoli, nuove spighe, e lo stiamo costruendo insieme.

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Il pane torna ad essere cultura e amore per il proprio territorio e per la propria gente: questo manifesto è un chiaro intento di tutto questo; come se non bastasse, Davide Longoni qualche mese fa ha pensato a un ulteriore passaggio evolutivo della propria vita, diventando editore della prima rivista culturale dedicata al pane: L’integrale Rivista - che in effetti, diversamente non avrebbe potuto chiamarsi.
Il pane torna a essere un prodotto di campo, un prodotto figlio di teste che pensano, di mani che lavorano, di persone che lo amano. 

Il pane torna a essere un prodotto buono, salutare e sano.
E colui che oggi se ne prende cura, quello che abbiamo definito come il panificatore moderno, forse non è altro che un antico panificatore che ha ritrovato il sentiero giusto e si è rimesso in cammino. C’era tanto bisogno di questo, ed è per questo che non potremmo essere più felici.

Photo Credit: www.coltivarecustodire.com, Identità Golose, www.facebook.com/panificatori.agricoli.urbani/