Marco Colzani e “Il cioccolato senza compromessi”

Marco Colzani e “Il cioccolato senza compromessi”

Non solo vino
di Susi Bonomi
26 agosto 2021

Per la rassegna WHO - Wine Host Opinion - AIS Lombardia ha il piacere di ospitare Marco Colzani, brianzolo, laureato in agraria con specializzazione in viticoltura ed enologia. Innamorato della materia prima agricola, non produce vino, ma si occupa invece di cioccolato, e di frutta che trasforma in succhi e confetture.

Compagno di corso di Arianna Occhipinti, solare titolare dell’omonima Azienda Agricola in quel di Vittoria (RG), Marco inizia la sua carriera nel mondo del vino proprio in Sicilia, aiutando Arianna ad avviare la propria cantina. Poi, come enologo, fa diverse esperienze in Italia e all’estero lavorando per un certo periodo anche a fianco di Roberto Cipresso. Ma, appena può, torna a casa per dare una mano nella pasticceria di famiglia. Ed è qui che comincia a fare i primi progetti estranei al mondo del vino, allestendo un laboratorio di tostatura caffè e proponendo alla clientela della pasticceria anche qualche confettura, un po’ per passione, un po’ per necessità.

Dal caffè alla frutta e al cioccolato

Marco comincia a immergersi completamente nelle attività di famiglia dovendo sostituire il padre per le precarie ma, per fortuna temporanee, condizioni di salute. Prende così a lavorare intensamente con la frutta che aveva già “incontrato” poco tempo prima quando, cimentandosi nella creazione di una “base” da spumantizzare, aveva fermentato mele per ottenere del sidro. Proveniente da poche aziende selezionate, raccolta nella sua piena maturità, la frutta è trasformata in succhi econfetture che vende non solo nella sua pasticceria, ma anche in negozi di amici, in altre pasticcerie, negli alberghi. Contemporaneamente continua la sperimentazione nel laboratorio di tostatura sostituendo, a poco a poco, il cacao al caffè.


Marco ColzaniPiano piano comincia a farsi conoscere e il mercato mostra di apprezzare i suoi prodotti tanto che lo spazio a disposizione nel laboratorio di famiglia non è più sufficiente. Con la fidanzata, ora sua moglie, investe in una struttura più spaziosa e in macchinari tecnologicamente avanzati, decidendo di limitare il suo impegno alla trasformazione delle solo due materie prime agricole, cacao e frutta, in qualche modo cronologicamente complementari. Il cioccolato era consumato fino a Pasqua e la produzione riprendeva a ottobre lasciando scoperti i mesi estivi. E proprio in questi mesi assolati la frutta è invece varia e abbondante. Così, con lo spirito imprenditoriale che lo contraddistingue, intuisce che solo lavorando con questi due prodotti l’attività sarebbe stata economicamente e lavorativamente sostenibile, come effettivamente è stato.

Per Marco concepire un progetto legato al cioccolato, è stato più semplice - come egli stesso ci confida - rispetto a quanto avrebbe potuto fare un pasticciere come il padre che, nonostante i 40 anni di carriera, aveva basi culturali e mezzi differenti per poter affrontare il complesso processo di trasformazione del cacao. Gli studi di agronomia sono stati fondamentali per poter interpretare il cacao a partire dalla pianta che lo genera, preservando il più possibile le proprietà organolettiche intrinseche.

La filosofia “bean to bar”

Quando una quindicina di anni fa l’avventura di Marco ebbe inizio, il mondo dei cioccolatieri artigiani bean to bar era tutto in divenire, innanzitutto per la difficoltà di reperire le fave di cacao. Erano sparite da tempo le grandi pasticcerie di Milano o Torino che le importavano per produrre il proprio cioccolato da utilizzare nei dolci. A partire dal secondo dopoguerra, infatti, l’ampia disponibilità di lavorati e semilavorati provenienti dai colossi mondiali del cioccolato aveva risolto loro tanti problemi e fatto abbandonare questo tipo di attività, onerosa da ogni punto di vista.

Oggi, è molto più facile reperire la materia prima anche se, volendo fare un po’ di chiarezza, si deve sapere che la maggior parte di chi si definisce cioccolatiere è in realtà uno scioglitore che compra cioccolato o massa di cacao disponibile presso le grandi aziende (che producono naturalmente a partire dalle fave, ma non sempre con quell’attenzione alla qualità o alla sostenibilità ambientale e sociale che ha o dovrebbe avere un artigiano bean to bar, N.d.A.) e lo trasforma semplicemente in tavoletta o in altra forma “cioccolatosa”. Negli ultimi anni, però, il consumatore si è fatto più esigente «anche in Italia, dove il consumo di cioccolato sta aumentando, soprattutto a favore del fondente monorigine da degustazione», come ci spiega Marco. Inoltre, «la richiesta di cioccolato non è più nemmeno stagionale poiché, accanto al mercato al dettaglio, esiste tutta una linea professionale destinata, per esempio, ai panificatori di ultima generazione, fautori della pasta madre, da Davide Longoni a Giovanni Mineo per citare qualche mio affezionato “cliente”», ai gelatieri, ai pasticcieri che preferiscono sempre più puntare sul cioccolato di alta gamma fra i propri ingredienti. 

La scelta delle fave di cacao

Per tornare al mondo AIS, di coloro che amano il vino e ricercano in esso il concetto di terroir, ecco una notizia che farà storcere un po’ il naso. «La pianta del cacao non ha molte esigenze e là dove trova condizioni ambientali di temperatura e umidità congegnali, fruttifica. Le caratteristiche organolettiche del cioccolato sono determinate prevalentemente dalla genetica, che prevale sul terroir - spiega Marco - ma comunque, per questioni di tradizione, di tessuto sociale, di cura e conoscenza agronomica, si deve continuare a parlare di luoghi/paesi d’origine».

La scelta delle fave di cacaoColzani, oltre a essere un artigiano del cioccolato apprezzato, ha la dote di saper comunicare concetti complessi senza entrare nei tecnicismi. E così ci parla di concetti generali per aprire le porte di questo dolce mondo anche a chi non lo conosce affatto. Saltando alcuni passaggi sulla genetica del cacao, pur accennata, andiamo alla sostanza. Per produrre il cioccolato si usano i semi - le fave - contenuti nelle cabosse, i frutti della pianta del cacao che nascono direttamente dal tronco poco lignificato. Nelle regioni tropicali dove il Theobroma cacao cresce, non vi sono stagioni ben definite così che la pianta si trova ad avere contemporaneamente fiori e frutti permettendo due raccolte l’anno: il grande raccolto (a fine dicembre fino a marzo) e il piccolo raccolto (giugno-luglio).

Marco seleziona le fave di cacao andando personalmente a visitare le piantagioni da cui si approvvigiona, per instaurare rapporti diretti con i coltivatori e «avere più capacità di interpretare la materia prima». In una cabossa si trovano dalle 25 alle 30 fave di cacao immerse in una mucillagine zuccherina. Per le particolari condizioni ambientali e la presenza di lieviti indigeni, una volta raccolta e aperta la cabossa, parte immediatamente la fermentazione alcolica, turbolenta e tumultuosa. Così, tradizionalmente, si ripongono fave e mucillagine in cassoni di legno cercando di controllare l’innalzamento della temperatura così come si fa con il mosto, e ossigenando la massa per evitare blocchi di fermentazione. Nel giro di qualche giorno, esaurita la fermentazione alcolica, parte immediatamente il processo ossidativo con formazione di acido acetico, e si instaurano le fermentazioni batteriche, creando così quel mix di reazioni che permettono di passare da un seme “verde”, astringente, a uno che sviluppa quei precursori aromatici che saranno pienamente dispiegati nel cioccolato. Si procedere poi con l’essiccazione, direttamente al sole o all’interno di capannoni termoventilati, «fino ad avere un’umidità residua non superiore al 10%». Le fave così  stabilizzate sono poi riposte in sacchi pronti per essere spediti via nave, certi che nessun’altra reazione potrà innescarsi.

Il processo di lavorazione a Carate Brianza

Arrivate nel laboratorio di Carate Brianza, le fave sono sottoposte a un attento controllo visivo per eliminare quelle danneggiate, mal fermentate o i corpi estranei. Un’essiccazione ad aria porta il contenuto di umidità al 2-3% e in seguito la temperatura viene incrementata per procedere alla tostatura durante la quale avviene la reazione di Maillard che esalta le note «cacaose». Una volta tostata la fava è croccante così che con un rompicacao è possibile liberare la granella dalla buccia e dalla radichetta ottenendo gruè di cacao o nibs.

Le fave di cacao«La granella contiene circa il 50% di burro di cacao legato alla materia secca (fibre e lignina)». Per liberarlo e passare a una consistenza fluida si usano macchine che originariamente erano a pietra (macine, mulini, molazze), oggi sostituite da sistemi rotativi, perlopiù a biglie d’acciaio. «Continuando l’azione di frizione arriviamo a una granulometria di 25 micron, la massima dimensione che i granelli possono avere affinché il cioccolato possa essere definito “finissimo”». Attenzione perciò durante l'acquisto perché quando si leggerà cioccolato “finissimo” non avremo un prodotto di elevata qualità organolettica, ma solo "raffinato" dal punto di vista "tattile". Si tenga infatti presente che, al di sotto dei 25 micron, le nostre papille tattili non sono in grado di percepire le particelle solide quando letteralmente “sciogliamo”, rendendolo fluido, il cioccolato in bocca.

In poche ore di sfregamento continuo si ottiene una massa di cacao fluida (anche perché la temperatura si mantiene superiore a quella ambiente, N.d.A.) che potrebbe essere volgarmente chiamata “cioccolato al 100% cacao”, se non fosse che legislativamente è possibile usare il termine “cioccolato” solo quando è presente anche dello zucchero seppur in quantità minime. La massa, preformata in blocchi da 10 kg, è stoccata e lasciata riposare per almeno 1 mese affinché si compia la maturazione del cioccolato. Quest’ultima operazione è fondamentale, poiché «dopo la tostatura e la raffinazione, il cacao subisce uno stress. All’uscita dal forno di tostatura la fava di cacao sa di crosta di pane, di bakery, per la reazione di Maillard. Inoltre, a seguito della raffinazione, si sviluppa un ”aroma” di frizione dovuto al fatto che, sfregando ad alta velocità le parti solide fra di loro, si crea un “ovattamento” delle componenti aromatiche del cacao». Con il riposo, l’aroma si ricompone.

«Non facciamo concaggio anche perché, a me, come enologo, questo non piace perché si va a ossidare il cioccolato. Ora, sbattendo la massa in continuazione e per molte ore, va via certamente l’acido acetico ma, insieme ad esso, anche molte delle componenti aromatiche interessanti», spiega Marco. Inoltre, concando, «il “cioccolato” sarebbe subito pronto e non dovrebbe stare fermo per un mese. Ma si svilupperebbero gli aromi terziari così che, del materiale di partenza, non si avrebbe più nulla. E i cioccolati diverrebbero tutti uguali. (D’altronde) a me piace il vino in acciaio, con un profilo aromatico preciso… La maturazione di un mese serve solo a stabilizzare la massa, senza ossidare».

In seguito, i blocchi di massa cacao maturati possono essere sciolti e si può procede alla ricettazione con l’aggiunta di zucchero bianco «da quest’anno solo da barbabietola italiana» per apportare la giusta dolcezza senza alterare il profilo aromatico. Il formato? Tavolette e mini-tavolette da 5 g «la dimensione ideale per fare una degustazione». Il gioco, d’altronde, è assaggiare.

Come nasce la ricetta?

Come prevedibile, non sono mancate domande da parte del pubblico presente on-line durante l’intervento di Marco Colzani, a partire da quella che chiede come si formula la ricetta per creare il suo cioccolato. «Dipende dal tipo di cioccolato, dall’origine del cacao e lo zucchero, di conseguenza, lo regolo in base a questo – risponde Marco –. L’Ecuador, per esempio, è così dolce di suo, con le note di banana, noce. Non serve aggiungere zucchero per gustarlo. Non è amaro. Ed è una delle referenze che vendiamo di più. Il trinitario della Repubblica Dominicana invece lo facciamo al 72% perché è un prodotto già rotondo, con frutta matura, spezie, tabacco, acidità fresca e stabile. Mettere una spalla dolce permette di goderselo di più». Infine: «produciamo cioccolato da degustazione da 70 al 100% di massa cacao. Per come operiamo non serve più zucchero, anche perché con una aggiunta ulteriore non tiene più l’impasto e si dovrebbe aggiungere altro grasso. Ma noi non togliamo né aggiungiamo burro di cacao al nostro cioccolato.  Manteniamo quello che normalmente ha la fava di cacao. Se si aggiunge altro burro di cacao, magari preso altrove, la frazione aromatica non fa altro che diluirsi».

Solo per il cioccolato da copertura, quello fornito ai professionisti, è necessario aggiungere del burro di cacao per esigenze tecnologiche, di lavorabilità. Ma per quello da degustazione assolutamente no, perché la filosofia di Marco è quella di mantenere inalterata l’aromaticità contenuta nella materia prima che ha la fortuna di lavorare.

E come dargli torto?