Pantelleria: zibibbo di sole, di vento e di pietra

Pantelleria: zibibbo di sole, di vento e di pietra

Territori
di Paola Marcone
29 luglio 2021

Il paesaggio rurale pantesco è emblema di uno struggente rapporto tra lavoro agricolo e condizioni ambientali estreme, dove l’intervento dell’uomo è nella natura e non contro. La viticoltura eroica dell’isola ne è una testimonianza.

Con i suoi 836 metri sul livello del mare la Montagna Grande di Pantelleria si erge fiera nel Canale di Sicilia, quasi a voler ammonire come quella terra vulcanica, più vicina alla Tunisia che all’Italia, non sia un puntino casuale segnalato solo dalle carte geografiche ma abbia il diritto di raccontare storie di uomini abituati alla fatica non meno che alla bellezza.

Perché Pantelleria bella lo è proprio in modo abbacinante, come sa chiunque abbia avuto modo di viverla o come – limpidamente – ha saputo descriverla Cesare Brandi in “Sicilia mia”: “Tutta l’Isola è verde e nera come dipinta di verde su un fondo di lavagna: ma più nera della lavagna, perché oltre alle lave dall’aspetto del carbon fossile, ci sono le stupende ossidiane, i blocchi di vetro vulcanico le cui facce sciabolano riflessi torvi come mannaie (…)”.

La pietra, il vento, il sole

Pietra vulcanica ovunque, quindi, frutto di manifestazioni eruttive degli ultimi periodi del Terziario e che colora i vari versanti dell’isola con un grigio dalle tante sfumature più o meno intense fino a quelle verdi dell’ignimbrite, diventando la protagonista assoluta del paesaggio.

Si trasforma, infatti, in materia prima per la costruzione di manufatti agricoli come il dammuso, è baluardo per gli agrumi, che vengono circondati da giardini fortificati in pietra, o ancora rende possibili le diverse coltivazioni, captando o condensando l’acqua come nel caso dei terrazzamenti.

Non esiste abitante dell’isola, quindi, che non abbia una qualche familiarità con la pratica dei muri in pietra a secco, riconosciuta dall’Unesco Patrimonio culturale immateriale nel 2018 e che nel Comune di Pantelleria interessa circa 5.500 ettari di territorio (il valore nazionale assoluto più alto), su cui insistono muri di varie altezze e ampiezze a seconda delle diverse funzioni costruttive: sostegno per i terrazzamenti, limite tra le proprietà, protezione delle colture dal vento.

In ogni caso la necessità di reperire soluzioni agricole tecnicamente originali per preservare i raccolti da condizioni ambientali non di rado difficili è una costante, se solo si ferma il pensiero sul fatto che a Pantelleria le precipitazioni si attestano su una media annua di 409 mm e sono praticamente assenti nei 5 mesi estivi, durante i quali la siccità viene aggravata da venti incessanti e spesso distruttivi, prevalentemente di Scirocco e Maestrale, che vengono registrati mediamente per 338 giorni all’anno. Non a caso gli arabi chiamavano Pantelleria “Bent el Riah”, figlia del vento.

È nella natura delle cose, quindi, che per venire a patti con il clima impietoso e con una matrice geologica impegnativa, l’agricoltura dell’isola ha da sempre dovuto sfruttare adeguati supporti in termini di manufatti e tecniche di coltivazione, capaci di aumentare la tolleranza delle varie specie arboree, partendo, comunque, dal presupposto che le piante ammesse in coltura già di per sé avrebbero dovuto essere altamente resistenti all’aridità e al vento.

Ecco allora che vite, olivo e cappero sono le coltivazioni che disegnano l’orizzonte pantesco da millenni, essendosi rivelate tra le più adattabili anche alle escursioni termiche e alle temperature medie che nell’isola, anche in inverno, non conoscono lo zero termico.

Lo zibibbo

L’uva sovrana assoluta è lo zibibbo, chiamata anche moscato di Alessandria con sinonimo che evoca le sue origini orientali, che si caratterizza per la sua accentuata attitudine aromatica, determinata dalla diretta discendenza genetica dal moscato bianco, e per il verde quasi fosforescente dei grappoli che spicca netto sui toni scuri delle rocce vulcaniche.

Un’uva che per gli abitanti di Pantelleria è sempre stata considerata al pari del pane quotidiano per il triplo pregio che riesce a vantare: uva da tavola, uva passa e naturalmente uva da vino.

Anche il nome del vitigno, presumibilmente introdotto sull’isola al tempo della denominazione musulmana, per alcuni rimanda proprio al termine arabo “zaibib”, che significa uva passa, mentre per altre fonti l’etimologia richiamerebbe il Capo Zebib in Africa.

Quel che è certa, comunque, è l’identificazione totale della viticoltura pantesca con lo zibibbo che regala uve di alta concentrazione zuccherina e che il disciplinare di produzione Pantelleria DOC, revisionato da ultimo nel 2014 ma istituito sin dal 1971, obbliga ad utilizzare al 100% per ben sette tipologie (Moscato di Pantelleria; Passito di Pantelleria; Pantelleria-Moscato spumante; Pantelleria-Moscato dorato; Pantelleria-Moscato liquoroso; Pantelleria-Passito liquoroso; Pantelleria-Zibibbo dolce) mentre per l’ottava tipologia, Pantelleria-Bianco, anche Frizzante, la percentuale minima è indicata all’85%.

Il vino simbolo rimane la tipologia Passito di Pantelleria con uve sottoposte in tutto o in parte, sulla pianta o dopo la raccolta, ad appassimento al sole e con l’aggiunta di alcol o uva passa nella versione liquorosa.

Il risultato regala pienezza, con il calore dell’alcol e la morbidezza degli zuccheri ad accompagnare il caratteristico profumo del vitigno e a bilanciare una fresca sapidità.

Viticoltura eroica

Sia chiaro, tuttavia, che da queste parti la natura non regala mai alcunché. Se oggi, infatti, la viticoltura è estesa in gran parte nelle terrazze delle cuddie (colline) e nelle pianure di Ghirlanda e Monastero i metodi di coltivazione rimangono eroici, con termine non utilizzato solo in senso genericamente descrittivo ma tecnico.

La legislazione nazionale, infatti, così definisce i vigneti – tra gli altri – impiantati sulle isole minori e dove le pratiche di coltivazione, svolte sugli impervi terrazzamenti, sono ancora tutte manuali, potendo beneficiarsi, al limite, solo dell’ausilio degli animali da soma come nel caso del mulo pantesco, oggi però in via di estinzione.

Pratiche colturali, inoltre, che a causa delle ostiche condizioni ambientali sono limitate per le viti alle forme di allevamento ad alberello, detto pantesco appunto, in cui la sagoma delle piante viene forgiata in modo quasi simile a quella dei bonsai e tanto da far assumere all’intero paesaggio di Pantelleria un fascino estetico “a metà tra i giardini del Giappone e i dipinti di Poussin”, come suggestivamente evocato ancora da Cesare Brandi.

Se non bastasse, poi, gli alberelli, dai ceppi mantenuti ad un’altezza di circa 10-15 cm e branche lunghe fino ad un metro lasciate striscianti, sono usualmente piantati in conche profonde circa 20 cm, necessarie per accumulare l’acqua piovana e proteggere i grappoli dal vento. 

Il paesaggio, quindi, così ulteriormente inciso da questa pratica, riconosciuta nel 2014 dall’Unesco Patrimonio culturale immateriale, si conforma ad un aspetto che potrebbe definirsi lunare, tutto crateri sprofondati nella terra vulcanica, e che Angelo D’Aietti, appassionato conoscitore dell’isola, felicemente ha fotografato ne “Il libro dell’isola di Pantelleria” con queste parole: “La guerra contro il vento nel settore vite fu più difficile che altrove e impegnò a fondo l’intelligenza dell’agricoltore pantesco. Per salvare l’uva in fiore dal micidiale nemico, non era sufficiente la potatura spietata della pianta. Occorreva dell’altro e il nostro agricoltore ebbe un’idea dantesca: come Dante schiaffa i simoniaci entro “… fori, d’un largo tutti e ciascuno era tondo”, così lui propagginò la sua vite entro buche circolari chiamate “conche” e in ognuna di esse affondò un ceppo distanziando l’uno dall’altro di otto palmi cioè due metri. Quando la vite è spoglia, il terreno in cui è piantata appare un curioso colabrodo.”.

Anche da questa descrizione, dunque, Pantelleria si conferma isola di estremi, dai panorami inusuali, totalmente modellati dall’aridità, dal pietrame e dal vento ma non come frutto di capriccio quanto, viceversa, come risultato del rigoroso patto che l’uomo è riuscito a stringere con la natura.

Patto che per la caparbia viticoltura isolana costituisce il presupposto indispensabile affinché si possa continuare a far conoscere l’ingegnosità delle ancestrali pratiche rurali di Pantelleria che donano al mondo vini orgogliosamente irripetibili.

Crediti foto: consorziodipantelleria.it