L'evoluzione delle stretegie vinicole in Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica

Marketing, ricerca e distribuzione. In 10 anni Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica hanno scalato le gerarchie mondiali del vino. Ad un'anno di distanza dalla serata organizzata da Ais Milano e dedicata ai vini di questri tre territori, un'approfondita analisi per tracciare l'ascesa dei vini del cosiddetto "Nuovo Mondo"

Giorgio Fragiacomo

Il Tri Nations è un torneo di Rugby tra Australia, Nuova Zelanda e Sud Africa, tre paesi a fortissima vocazione rugbistica. In questi paesi il rugby spesso viene usato come metafora di vita. L’analogia tra come le tri nations si sono mosse sul mercato mondiale del vino ed il loro stile di gioco nel rugby è molto appropriata. Sono stati capaci di imporsi sui mercati mondiali con un marketing coeso e compatto proponendo vini con un ottimo rapporto prezzo qualità, piacevoli ma talvolta molto semplici, spingendo soprattutto il concetto di vini “varietali” e sul gusto “internazionale”. Adesso, avendo scalato le classifiche dell’export ed il “market share”, questi paesi stanno scoprendo, a modo loro, la “regionalità”. Intesa come nome australe, in qualche modo comprende il concetto delle differenze stilistiche dovute al “terroir”, questo è attualmente uno dei fattori principali che può sostenere il modo di produrre e di vendere il vino proprio di questi paesi. L’anno scorso al Westin Palace in questo periodo (vedi video, clicca qui) si era svolta la serata dedicata alla scoperta dei vini di questi paesi, con un approfondimento sulla vasta gamma di terroir che si trovano nelle tri nations analizzando la metodologia di marketing che ha spinto questi paesi ad ottenere un considerevole posizionamento nell'ultimo decennio.
Il torneo Tri Nations è stato creata nel 1995. Lo stesso anno in cui l’Australia lanciò la sfida che in 10 anni l’ha vista raggiungere il sesto posto come paese produttrice di vino ed il quarto posto come esportatore con l'8% di quota del mercato mondiale. Questo paese conta circa 2300 produttori, ma in realtà 10 gruppi dominanti detengono l’85-95% della produzione. Le varie istituzioni vinicole che raggruppano i produttori e si occupano di ricerca, regolamentazione, lobbying e di marketing avevano steso insieme un vero e proprio ”business plan” per effettuare la scalata al mercato.

Questo “plan” denominato “Strategy 2025” prevedeva gli investimenti, in marketing, ricerca, produzione, ettari vitati, distribuzione ecc. tutti gli interventi necessari per raggiungere il traguardo. Inoltre, e soprattutto, identificava come doveva essere il vino australiano e come doveva essere percepito dal suo pubblico. Nella fattispecie, un vino fruttato, morbido nei rossi, fresco nei bianchi, di facile e piacevole beva. Doveva essere affidabile e soprattutto riconoscibile, quindi l’etichetta doveva riportare un “Brand” identificabile, il nome di un vitigno facilmente ricordabile ed infine il paese di origine, concetto espresso con il termine “Brand Australia”.
Questi obbiettivi dovevano essere raggiunti in 30 anni e furono invece oltrepassati con 20 anni d’anticipo.
Il successo di questa strategia “all inclusive”? Uffici “generici” di marketing presenti nei mercati chiave come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti e la coesione degna di una mischia di rugby hanno permesso di sfondare e raggiungere la meta.
Inoltre, questo precedente ha agito da catalizzatore e modello per tutto il comparto denominato “Nuovo Mondo”. Sud Africa e Nuova Zelanda ma anche e soprattutto il Cile, il vero arci-rivale dell’Australia.
La Nuova Zelanda ha lanciato una simile sfida con i suoi iconici sauvignon blanc, diventati, almeno in certi paesi, il modello di riferimento "placcando" fortemente i modelli europei Sancerre e Puilly fumè, come stile.
Il Sud Africa nel 1995, un anno dopo il crollo definitivo di apartheid viene riammesso nella comunità mondiale ed i suoi vini conoscono un boom dell’esportazione. Reagisce alla sfida australiana con il suo distinto stile di marketing e prendendo pieno vantaggio del favorevole tasso di cambio.

Dopo un decennio di successo però i vini dei nostri 3 eroi si trovano ora abbastanza schiacciati in fasce di prezzo medio-basse, proprio a causa delle strategie impostate all'inizio, che hanno favorito principalmente la grande distribuzione, unico sbocco per le grandi quantità prodotte soprattutto in Australia. In questo paese, comunque, si è levata una voce di dissenso da una buona parte degli oltre 2200 piccoli produttori , vocalizzata soprattutto da Brian Croser, ex titolare di Petaluma, famosa cantina del Sud Australia ubicata in una delle zone più vocate alla viticoltura di qualità.
Nel Maggio 2007 l’industria australiana, mediante la sue due principali istituzioni, ha rilanciato un nuovo documento di marketing intitolato “Directions to 2025”, nel quale si legge con ciarezza una svolta verso vini a carattere “geografico”. La spinta è ora maggiormente rivolta a vini che si distinguano per la propria provenienza, un sentimento di nuovo echeggiato dalle altre due nazioni.
Il concetto di “territorio” in questi paesi si distingue da quello europeo.
Il primato va ai Sud Africani, che avevano già legiferato un sistema chiamato Wine of Origin (WO) nel 1973, sistema che prevedeva 4 categorie di unità geografiche che partivano da maxi zone, regione, distretto, e “ward”, le ultime due categorie prevedono terreni e condizione pedo-climatiche omogenee.
Vent’anni più tardi gli australiani hanno istituito il sistema di Geograpical Indcations (GIs), inizialmente per essere conformi agli accordi commerciali con l’Unione Europea. Tre furono i principali risultati. In primis, gli australiani hanno smesso di utilizzare nomi geografici europei per identificare lo stile di un vino, ad esempio Chablis per vini secchi o Champagne per gli spumanti (di qualunque metodo). In secondo luogo, hanno creato una maxizona “South Eastern Australia”, che comprende gli stati del Nuovo Galles del Sud, Victoria e Sud Australia e permetteva a vini creati con un assemblaggio di uva vendemmiata in diversi stati di avere una provenienza geografica. In terzo luogo ha avuto luogo la creazione embrionica di tre unità geografiche: regione, zona e sottozona, che ponevano le basi ragionate per arrivare ad esaltare le differenze regionali.

Attualmente esistono circa un centinaio di GI, il sistema è abbastanza collaudato e si sta diffondendo un vero senso comune dell’importanza del riconoscimento di “denominazione” ad una zona.
La Nuova Zelanda invece è il fanalino di coda. Aveva abbozzato la creazione di un sistema di indicazione geografiche poi abbandonato ed attualmente attraversa una fase di discussione. Non per questo, non si può affermare che non esistano zone marcatamente diverse. Come in Australia, molti dei vini esportati dalle grandi società (4 dominano il paesaggio vinicolo) sono assemblaggi multi-regionali, ma come in Australia c’è un crescente numero di piccole aziende (circa 540) che puntano sulle differenze regionali .
Andrebbe qui sottolineato che i sistemi GI e WO non impongono assolutamente nessuna regola sulla produzione, né in termini di vitigni, né di rese, e nessun vincolo nell’impostazione di precise pratiche agrononomiche ed enologiche. L’unica regola è che l'85% dell’uva debba provenire dalla zona indicata. In realtà le tre nazioni hanno delle zone, chiamiamole “classiche”, che sono ormai riconosciute anche all’estero.
Per l’Australia è doveroso menzionare La Barossa Valley e Mclaren, per Shiraz tradizionali fatti con vigne a volta centenari e su piede franco; Coonawarra ed il suo suolo di “terra rossa” vicino all’oceano, per il Cabernet Sauvignon; la umida Hunter Valley per il Semillon; i mitici moscati di Rutherglen, vini liquorosi che sono una via di mezzo tra un vino di Madeira ed un Vin Doux Naturel; le sassose Clare e Eden Valley per il Riesling, il Margaret River nell’Australia Orientale ; la Yarra Valley e Mornington Peninsula per i Pinot Neri.
In Nuova Zelanda Marlborough è arci-nota per il Sauvignon Bianco, la calda Hawkes Bay per i vitigni bordolesi , Gisborne per lo Chardonnay, Martinborogh vicino a Wellington e la Central Otago con il suo clima rigidamente continentale (i vigneti più meridionali del Mondo) per il Pinot Nero. In Sud Africa i vari “ward” del distretto di Stellenbosch e Paarl.
Ma come è successo con i vitigni Shiraz e Chardonnay australiani, anche per i Sauvignon Bianco e Pinot Nero della Nuova Zelanda nonché per lo Chenin Blanc (detto localmente Steen) o il Pinotage per il Sud Africa si rischia di rimanere vincolati ad uno stereotipo e di limitare l’esportazione di altri vitigni e zone. Nella serata al Westin erano state analizzate inoltre più in dettaglio le varie zone di ciascun paese, ma inevitabilmente sono stati poi degustati i vini dai vitigni o dalle zone geografiche più note.
L’importanza del sistema sta nella premessa che gli stessi vitigni allevati in diverse zone producano delle ragguardevoli differenze “stilistiche nel vino” e questo sta a dimostrare che certe zone sono più vocate per determinati vitigni. Un aspetto che in Europa si dà più che scontato, ma che in realtà nel nuovo mondo non sempre o non ancora viene apprezzato.
La vocazione di certe zone per certi vitigni è stata confermata dai risultati dei “wine shows”, un vero e proprio circuito di gare/tornei a livello locale, regionale, statale, nazionale ed internazionale – esattamente come nello sport- ha avuto come effetto collaterale quello di evidenziare attraverso le premiazioni, quali vitigni rendano più in alcune zone specifiche. In paesi dove si può piantare il vitigno che più si desidera e dove si vuole, questo sistema è importantissimo per verificare la validità delle scelte vinicole.
Per quanto riguarda le tendenze del futuro, in ciascuno di questi grandi paesi esiste una forte spinta per trovare sempre nuove zone in cui il territorio permetta a certi vitigni di esprimersi al meglio. Al momento il santo graal per ciascuno dei tre paesi è la ricerca di zone “Cool Climate”, ossia zone in cui le condizioni pedo-climatiche permettano di far crescere uvaggi con caratteristiche aromatiche ottimali, con un’equilibrio tra acidità ed alcol più intriganti. Attualmente esiste una corsa per individuare la zona più adatta al Pinot Nero, vitigno che ossessiona questi paesi.
Il concetto di “terroir” in questi paesi non predilige il suolo quanto il micro-clima e soprattutto la ricerca di zone che si distinguano per una marcata escursione termica diurna-notturna, che possa favorire la maturazione ottimale dell’uva. L’irrigazione è molto diffusa, ma le frequenti condizioni di siccità (fenomeno meno caratteristico in Nuova Zelanda, il cui nome indigeno – Aeteroa - significa paese della lunga nuvola bianca) influenzano fortemente lo sviluppo di nuove zone appunto limitate dalla disponibilità idrica. Bisogna comunque dire che questi paesi sono all’avanguardia nei sistemi di irrigazione e generalmente fanno uso scientifico del supporto tecnico.

Altro fattore che distingue la tecnica di viticoltura delle tri nations è l’importanza del “canopy management” ossia la gestione della chioma, in parole poverissime l’utilizzo di svariate tecniche per migliorare il rapporto tra il fogliame ed il frutto. Canopy management, sia attraverso nuovi sistemi di allevamento, sia ttraverso tecniche innovative di potatura, ha significato una grandissima svolta per Nuova Zelanda e Australia, permettendo di ottenere vini di qualità anche piuttosto elevata in zone meno propense. Chiaramente stiamo parlando di un elevatissimo livello di meccanizzazione, visto le dimensioni medie di un vigneto australe.
Ciononostante, quando la vendemmia avviene manualmente, o in presenza di vini da vigneti non irrigati (ce ne sono parecchi) o di fronte a sistemi di allevamento particolare quali ad esempio le vigne di shiraz e grenache ultra secolari allevate ad alberello che si trovano in Sud Australia nella Barossa Valley e McClaren Vale in particolare, questi elementi vengono giustamente evidenziate in etichetta e nel marketing di questi vini , con il richiamo, altro esempio, a noti termini descrittivi quali “dry farmed” o “bush vines” o “hand harvested”.
Come si sarà visto da questo articolo, il rischio di generalizzare con un paese come l’Australia è elevato, ma al tempo stesso, con tre paesi con le vaste dimensioni delle nostre tri nations è quasi un’obbligo. L’importante è sapere, come si è cercato di dimostrare nella serata al Westin Palace, che questi paesi sono in grado di produrre una gamma di vini che spazia molto, da vini di facile beva a veri e propri grand cru. Avendo saturato i principali mercati mondiali del vino del primo tipo, la nuova sfida di questi paesi è ora di saper far conoscere le differenti sfumature dei vini “regionali”, un obbiettivo che come illustrato recentemente si sono attrezzati a raggiungere.
Speriamo che anche le attuali condizioni di mercato lo permettano.

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