Canavese coast to coast

Parlare della propria terra è sempre un onore e un onere. Il canavesano Francesco Ferrari accoglie la sfida e riesce nel suo intento stuzzicando la platea con un racconto sincero e passionale su una delle tante zone piemontesi troppo spesso offuscate dal bagliore langarolo.

Altai Garin

Posto al centro di un ideale quadrato con a nord la Valle d'Aosta, a sud il bacino del Po, a ovest la serra di Ivrea e a est la valle di Lanzo, il Canavese è sempre stato crocevia di interscambio culturale ed economico essendo posto, sin dalla presenza romana, sulla via delle Gallie.

Durante l'epoca carolingia la posizione geopolitica di Ivrea era cruciale: la Marca di Ivrea, infatti, comprendeva sotto il proprio controllo diverse contee tra le quali Torino, Vercelli e Asti.

Geologicamente parlando, il terreno è di origine morenica, la seconda area per estensione d'Italia dopo quella del Garda, risultato dell'azione erosiva del ghiacciaio Balteo che, oltre ad aver forgiato la Valle d'Aosta, ha creato condizioni pedologiche uniche in Piemonte. Formato da rocce erose 30 milioni di anni fa, l'anfiteatro morenico di Ivrea risulta essere un unicum in Europa, con i suoi 550 km2 e le varietà geologiche che lo compongono, come le rocce laterali di grandi dimensioni e quelle frontali di grana inferiore.

In questa splendida realtà nasce la denominazione ad origine controllata e garantita Caluso, esclusiva nell'utilizzo del vitigno erbaluce in tre versioni: metodo classico, secco fermo e passito dolce, tipologie che ben si integrano con le caratteristiche peculiari di questo vitigno: grande grappolo con acini dalla buccia spessa (così da risultare resistente alle muffe), grande produzione di acido malico, maturazione piuttosto tardiva e il fatto di essere un'uva neutra. Per mantenere la grande freschezza biologica che l'uva sviluppa si predilige la coltivazione a pergola necessaria per gestire al meglio l’esposizione al sole. Riconosciuta come varietà sin dal 1224, l'erbaluce ha avuto una storia di luci e ombre con il riconoscimento da parte del mondo come “Sauternes di Caluso” nell'800, l'abbandono all'inizio del secolo successivo, fino alla ripresa lenta e costante nella seconda metà del ‘900 con la nascita della DOC nel 1967 e il passaggio a DOCG nel 2010.

La degustazione inizia con l'unico spumante della serata, un metodo classico da uva erbaluce. Prodotto esclusivamente con il frutto del raccolto del 2010, il Caluso DOCG Cuvée 1968 di Orsolani si presenta di un colore chiaro ma intenso, giallo dorato a centro calice, e un perlage di grande classe. I sessanta mesi sui lieviti rivelano la grande complessità olfattiva: note di bergamotto, camomilla, eucalipto stringono la mano ai sentori di pasticceria tipici del metodo classico e alle erbe aromatiche proprie della cultivar. L'acidità e la cremosità sono i marker decisivi di questa bottiglia con una buona nota sapida che allunga la persistenza del sorso.
Il relatore

Si prosegue con una batteria di quattro bianchi fermi che concretizza il racconto. Ci accoglie il Primavigna di Crosio 2017, erbaluce in purezza coltivata a pergola e maturata in acciaio. Un colore molto chiaro di ottima lucentezza appare nel calice. Vino perfetto, anfitrione della tipologia, sprigiona al naso frutta a polpa bianca, pera e pesca, erbe aromatiche e sfondo agrumato. La bocca è la fotocopia delle sensazioni olfattive, con una freschezza e una salinità veramente godibili. Il finale di buona persistenza sfocia in una piacevole sensazione amaricante.

Il secondo vino, di pari annata, fornisce un’interpretazione diversa dello stesso vitigno. Benito Favaro utilizza in combinazione acciaio, legno e cemento, in quest’ordine, per fermentazione e maturazione. Questo 13 mesi rompe gli schemi tradizionali, con i sentori marcatamente legati a una maturazione in pièce: agrume candito, gelatine di mela, vaniglia. L'assaggio è lungo, fresco e soprattutto sapido. Un vino che manifesta il lato più godibilmente amaro del prodotto.

La terza bottiglia è una prova di forza di Ferrari: un erbaluce concepito per essere di pronta beva, proposto cinque anni dopo la vendemmia. Il Cavalier Giovanni 2014 di Carlo Gnavi è un vino sorprendente, evoluto e soprattutto piacevole. Il naso è mielato, dolce, confettura di susine e anice protagonista. La bocca è precisa, fresca, smussata nel suo lato più amaricante, ma ancora di ottima sapidità contrastata, in maniera quasi didattica, da una morbidezza abbagliante, frutto dell'affinamento. 

La poliedricità del vitigno diventa manifesta con l'ultimo assaggio della carrellata, dove si scontra con la prova finale proposta dal relatore: la macerazione. Una macerazione non estrema svela la capacità espressiva del vitigno anche nel profilo orange: sei giorni a contatto con le bucce e 18 mesi di maturazione in barrique esauste, rendono l'Ingenuus 2016 dell'azienda Cieck un vino differente rispetto agli assaggi precedenti. Olfattivamente si rivela il cambio di direzione con la frutta co-protagonista dei sentori balsamici, erbe amare, rabarbaro, china e artemisia. La cera d'api si percepisce nelle successive olfazioni insieme a té e arancia candita che fanno da sfondo. Al sorso il vino è esplosivo: sapidità, freschezza e un leggero tannino sono calibrati dalla struttura imponente.

Canavese, però, non è solo erbaluce e Ferrari è lesto a ricordarcelo: «nebbiolo non è sinonimo esclusivo di Langa». Figlio di una coltivazione secolare, il nebbiolo ha trovato nel canavesano un'ottima casa e, come nel resto delle zone di produzione, è indice della qualità territoriale. A differenza dell'erbaluce, esclusivo della zona morenica di Ivrea e dintorni, il nebbiolo è protagonista anche della microscopica DOC a confine con la Valle d'Aosta: Carema. Interessante sottolineare come siano differenti i metodi di coltivazione del nebbiolo nel canavese e a Carema: in prossimità di Caluso, il nebbiolo dà i migliori risultati con pergole di piccole dimensioni supportate da pali mentre a Carema, la cui viticoltura si sviluppa sulle pendici montuose delle Alpi, la scelta ricade sulla pergola alta su piloni di pietra per sfruttare al massimo la ridotta superficie, beneficiare della cessione notturna di calore dei piloni in pietra e proteggere al meglio la vigna dai massi erratici frananti.


I vini

Il nebbiolo, storicamente usato in uvaggio a causa delle vigne miste a bacca rossa tradizionali della coltivazione in montagna, lo troviamo con il Canavese Rosso DOC. Il Sogno d'An Piole 2016 di Giovanetto è il risultato dell'unione di nebbiolo, ner d'ala, neretto di San Giorgio e una piccola percentuale di barbera. Coltivate in pergola canavesana, queste uve vengono fermentate e vinificate in solo acciaio regalando un prodotto fresco e croccante, dal colore intenso e vivo, poco “nebbioleggiante”. Note di frutti di bosco, amarena, pepe bianco raccontano il vino al naso del degustatore che, con il sorso piccante e godibilmente tannico, può concordare con Ferrari e la sua sintesi: «semplice ma non banale».

A Carema un’altra interpretazione di nebbiolo della Cantina Produttori Nebbiolo. 36 mesi di maturazione in legno grande, di cui 18 in castagno, “il legno del posto”, la Riserva dell'annata 2014 rivela tutte le caratteristiche di un grande nebbiolo in purezza, di trama granata lucente con un naso balsamico e floreale, con ciclamino ed eucalipto a farla da padroni. Il sorso è pieno, felice, con un tannino perfettamente integrato e una freschezza che ci racconta del percorso che la bottiglia ha ancora davanti a sé.

“Dulcis in fundo” mai fu più azzeccato: due passiti di erbaluce concludono la serata, due annate che danno la dimensione della possibilità evolutiva di questo vitigno in appassimento. Il primo è il Sulé 2010 di Orsolani le cui uve appassiscono per 34 mesi in cassetta prima di maturare in tonneau per altri 48 mesi. Frutta candita, marmellata di agrumi, croccante alle nocciole, zenzero... un carnevale di profumi. Il sorso è fisiologicamente dolce senza mai essere opulento e stanco; lo zucchero c'è ma è controbilanciato da una salinità e una freschezza strabilianti. 

Chiudere con un Caluso passito 1994 non è da tutti i giorni. Non bisogna però pensare che si tratti di un vino pronto da tempo e tirato fuori dal dimenticatoio per caso: Carlo Gnavi ha, infatti, alternato per 15 anni cemento e legno prima di decidere di far uscire questo nettare che, meritatamente, può sostare nel Gotha dei grandi vini dolci italiani. La noce, figlia di una maturazione ossidativa, è evidente, ma è una delle tante note presenti nel bouquet aromatico del vino: spezie dolci, fichi secchi, cardamomo, liquore agli agrumi amari, frutta secca. L'assaggio è strepitoso, una lunghezza e complessità feroce con dolcezza e morbidezza equilibrate da una spalla acida incredibilmente ancora viva. Un vino che mette la lode sulla grandezza di un vitigno che ha nobilitato una zona vitivinicola ingiustamente sottovalutata.