Il Giappone arriva a Brescia tra sake, vitigni autoctoni e internazionali
Racconti dalle delegazioni
19 dicembre 2025
Una di quelle prime volte che non si dimentica: la sede AIS di Brescia, lo scorso 28 novembre, ha ospitato un evento interamente dedicato ai vini giapponesi. A raccontare il territorio e i suoi vitigni, fra curiosità e nozioni interessanti, c’era il giramondo Guido Invernizzi.
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Ha fatto registrare il “tutto esaurito” l’evento svolto lo scorso 28 novembre presso la sede AIS di Brescia che ha visto come protagonista la produzione vitivinicola giapponese e non solo. Un’occasione che non si sono lasciati sfuggire i tanti appassionati e amanti del vino; d’altronde non capita tutti i giorni di svolgere una degustazione esclusiva di sake e vitigni autoctoni del Giappone. Insieme al globetrotter Guido Invernizzi siamo andati alla scoperta delle tradizioni, della storia e degli sviluppi della viticoltura nipponica, partendo proprio dal sake.

La storia del sake
La bevanda alcolica giapponese per antonomasia, quella più storica e tradizionale, non può che essere il sake, il famoso fermentato di riso. Già nel Medioevo,nel periodo Helan (794-1185) ne esistevano ben 10 tipologie, veniva consumato caldo e spesso era offerto durante i matrimoni. Solo intorno al 1300, durante il periodo Kamakura (1185-1333) il sake diventò un bene di consumo di massa portando però anche conseguenze negative: si registrarono infatti molti casi di abusi e alcolismo. Il Governo dell’epoca si vide pertanto costretto ad aumentare il costo del riso per limitarne il consumo; anche le tasse sull’alcol vennero innalzate. Tutto ciò causò un calo abbastanza significativo di produzione: delle 30 mila fabbriche attive nel periodo di maggiore produzione ne restarono soltanto 8 mila.
Per ciò che riguarda invece la sua commercializzazione c’è una data spartiacque, il 1868. Se prima di allora la produzione veniva destinata esclusivamente all’interno dei confini giapponesi, dal periodo Meji (1868-1912) si ebbe un’apertura verso l’estero: nel 1873 il sake venne presentato all’Expo di Vienna e nel 1907 il Giappone partecipò per la prima volta ad un concorso di degustazione.
Oggi i consumi interni sono diminuiti ma è migliorata la qualità. Attualmente insistono circa 1500 fabbriche, l’export è rivolto soprattutto al mercato europeo ma anche asiatico e australiano; anche la presenza all’Expo di Milano del 2015 ne ha aumentato ulteriormente la popolarità e la diffusione in Italia.
Come si realizza il sake?
“Se il sake fosse una persona il riso ne descriverebbe il corpo, l’acqua il genere, il koji il cuore e i lieviti lo stile”. Da questo famoso detto giapponese riusciamo a intuire quelli che sono gli ingredienti necessari per la sua produzione; come per il vino, risulta poi fondamentale il fattore umano che ne delinea il risultato finale.
Il riso è ovviamente la componente più importante, in Giappone ne esistono di due tipologie: quello che si usa comunemente in cucina e il riso Sakamai, chiamato anche riso da sake. I suoi chicchi sono più grandi rispetto a quelli del riso da tavola: essi vengono raffinati e assottigliati fino al 50-70%, motivo per cui devono essere robusti per sopportarne le lavorazioni, mantenendo comunque una consistenza omogenea. Dal chicco vengono rimosse le proteine e i grassi contenuti nella parte esterna per giungere fino al suo cuore, lo shimpaku, formato da amido, elemento fondamentale per la produzione del sake: morbido e poroso, permette di assorbire facilmente l’acqua. Yamada Nishiki è fra le qualità migliori di riso per sake ed è infatti definito il Re di questa tipologia: seppure sia la pianta più difficile da coltivare – essendo più alta delle altre e quindi con maggiore probabilità di ammalarsi - è anche quella da cui si ottengono i migliori sake Daiginjo.
L’acqua è invece l’elemento più abbondante in quanto rappresenta l’80% della quantità totale degli ingredienti. La produzione dei migliori sake si concentra infatti nei posti vicini ai corsi d’acqua ricchi di alcuni minerali quali potassio, magnesio, calcio e fosforo, i quali sostengono la diffusione e il lavoro dei lieviti. Il livello di acqua nel chicco è estremamente importante e influenza il sapore del sake, motivo per cui il tempo di assorbimento viene calcolato in maniera quasi maniacale perché c’è il rischio che il chicco possa assorbire troppa acqua e la sua qualità sarebbe inficiata.
Il koji, usato già dall’ottavo secolo, è una sorta di fungo filamentoso molto simile alla muffa le cui spore si spargono sul riso precedentemente cotto a vapore per avviare il processo di saccarificazione. Attraverso il koji l’amido di riso viene trasformato in glucosio: avviene quindi la trasformazione degli zuccheri semplici in quelli complessi. La sua rilevanza si può intuire anche dal fatto che ogni fabbrica ha una propria stanza del koji, costruita in legno di cedro giapponese.
I lieviti, inizialmente indigeni mentre oggi sono selezionati, fanno partire la fermentazione producendo alcol e ossigeno; in alcuni casi avviene anche l’aggiunta di acido lattico per aumentare l’acidità del composto e inibire i batteri.
Tutto inizia dal processo di raffinazione del riso che permette di giungere allo shimpaku; lo stesso viene successivamente lavato prima di dare avvio al processo di assorbimento dell’acqua. Nella fase successiva il riso viene cotto al vapore, raffreddato – deve essere asciutto all’esterno ma contenere la sufficiente quantità di acqua al suo interno - e successivamente trasferito nella stanza del koji dove viene disteso e inoculato con le sue spore che, penetrando nei chicchi, danno inizio al processo di saccarificazione.
Il passo successivo è quello di creare lo shubo, una sorta di lievito madre indispensabile per generare la fermentazione del sake. Lo shubo, l’acqua, il koji e il riso cotto a vapore vengono mescolati ogni giorno, per circa due settimane, monitorando il livello di concentrazione dei lieviti e regolando la temperatura fino a quando non si avvia la fermentazione multipla parallela: la saccarificazione e la fermentazione alcolica avvengono infatti contemporaneamente ad una temperatura di circa 6 gradi.
Altro passaggio importante è la pressatura che può avvenire in modi diversi, il più tradizionale, anche se risulta anche quello ad oggi meno usato, è il fukurotsuri che tradotto in italiano sarebbe “appeso per il collo”: la parte liquida del sake cola infatti direttamente da sacchetti di cotone appesi in appositi recipienti di vetro chiamati tobin, di fatto senza che venga esercitata alcuna pressione, sfruttando semplicemente la gravità .Si giunge così alla fase finale con il filtraggio, la pastorizzazione, la maturazione - quest’ultima generalmente per un periodo che va dai sei mesi ad un anno - ed infine l’imbottigliamento.
I vitigni autoctoni e internazionali
La vite in Giappone non ha una lunga tradizione: se il clima umido favorisce la produzione del riso, generalmente non è d’aiuto per la coltivazione dell’uva.
Le prime forme di vite arrivarono nel sedicesimo secolo grazie ai portoghesi ma non suscitarono un grande interesse; i primi tentativi di produzione si avranno infatti solo a partire dall’Era Meji (1868-1912).
Due figure chiave in tal senso furono Zembei Kawakami e Seiichi Satò: nel 1870 i due si recarono in Francia per intraprendere degli studi su agricoltura ed enologia; al termine del loro percorso, tornati a Katsunuma, nella prefettura di Yamanashi, fondarono la prima azienda vitivinicola giapponese.
Tra gli anni ‘60 e ‘70 nascono invece le cantine più importanti tra cui Suntory; sempre in quel periodo si susseguono grandi investimenti in ricerche agronomiche, portando negli anni a seguire ad una svolta qualitativa e ad una viticoltura più sostenibile.
Fra le uve autoctone giapponesi più diffuse c’è sicuramente il koshu, vitigno a bacca rossa anche se il suo colore è più simile al rosa; dalla buccia spessa che lo rende più resistente a possibili malattie, per le sue caratteristiche organolettiche può essere posizionato tra un bianco e un rosso leggero con una buona acidità, un basso contenuto di zuccheri e di alcool. Negli ultimi vent’anni è stato vinificato sia nella versione classica in acciaio, che sur lie per vini di maggior corpo o ancora in versione spumante Metodo Classico per bollicine di buona freschezza; più rare sono le sue espressioni macerate o con passaggio in legno.
Anche il muscat balley è un vitigno a bacca rossa abbastanza diffuso. Creato da un incrocio fra muscat huamburg e balley, diventa la base principale per rossi versatili: fragranti da bere giovani, con passaggio in legno oppure in versione spumante rosé.
Fra i vitigni autoctoni possiamo citare ancora anche lo yama sauvignon, incrocio fra yama budou e cabernet sauvignon, mentre fra quelli internazionali i più vitati sono il merlot, lo chardonnay, il cabernet franc e il pinot noir.
Il territorio e il mercato vininicolo
Il Giappone si presenta come un arcipelago molto variegato: 6.582 isole, 200 vulcani, molti dei quali attivi; facendo parte della cintura di fuoco del Pacifico, sono frequenti i terremoti e gli tsunami.
C’è una grande varietà di terreni anche a brevi distanze, le estati sono generalmente calde e umide e le precipitazioni abbondanti in ogni regione nipponica.
Yamanashi è la zona vitivinicola più rinomata: definita anche la Borgogna giapponese perché gode di un clima continentale con estati calde ma ben ventilate, la sua vicinanza con il monte Fuji rende i suoi suoli ideali per la vite, favorendo un ottimo drenaggio e una buona escursione termica. Qui i terreni si trovano soprattutto su pendii formati da materiali sabbiosi e ghiaiosi che favoriscono radici profonde e quindi maggiore qualità.
Fra le altre aree vitivinicole possiamo ricordare Nagano che gode di buona altitudine - tra i 600 e i 900 metri slm - con terreni vulcanici dai quali si ottengono buoni merlot; l’Hokkaido è la zona più fredda ma è in una fase emergente per la realizzazione di chardonnay e pinot nero di buona qualità; il distretto di Niigata gode invece di un clima temperato e sembra stia diventando il distretto del vino naturale ma le piogge e gli inverni molto nevosi rendono difficile la gestione della vendemmia e il mantenimento delle piante.
Oggi in Giappone esistono circa 300 cantine e i consumatori si attestano all’incirca sui 30 milioni, a dimostrazione di come il vino sia diventato parte integrante della cultura alimentare nipponica.
Il consumo medio è aumentato del 3% nel 2024 rispetto all’anno precedente: si prediligono vini dalle fasce accessibili,le bollicine risultano quelle maggiormente consumate. L’importazione di vino si concentra sui paesi UE con Francia Italia e Spagna ai primi posti seguiti da Cile e Australia mentre l’export è focalizzato verso il mercato di Cina, Hong Kong, Singapore e Stati Uniti.
LA DEGUSTAZIONE
Yamanokasumi - Sake Metodo classico 11%- Shichiken
Questo sake viene realizzato con il metodo champenois: svolge una doppia fermentazione in bottiglia, la prima per ricavare il sake "base" e la seconda per la presa di spuma. Resta per cinque anni a contatto con i lieviti e viene imbottigliato non filtrato.
Alla vista si presenta torbido con particelle in sospensione e d’altronde non essendo degorgiato è una componente caratteristica, è come se fosse un metodo ancestrale; le bollicine sono piccole, sottili e persistenti.
Al naso il sentore tipico è quello di farina di riso ma c’è anche una forte presenza lattiginosa, note fruttate di pera e un sentore di umami. Al gusto è secco ed emergono anche al palato note fruttate che portano stavolta verso la nespola; persistente, fresco e con una bella rotondità nonostante la poca presenza di alcol. Sul finale emerge una nota leggermente amaricante e mielata di torrone.
Hoshinokagayaki – Sake Metodo classico11% -Shichiken
Anche questo sake è realizzato con metodo Champenois con doppia fermentazione ma a differenza del prima viene degorgiato per rimuovere i lies residui e filtrato prima dell’imbottigliamento finale.
Il nostro calice si può dire sia dotato di una materia colorante quasi inesistente ma cristallina con bollicine fini e persistenti. Al naso anche in questo caso emerge la parte cerealicola insieme ad una delicata nota floreale e fruttata di fiori bianchi e banana e un sentore di cipria. All’assaggio è secco e dal finale quasi piccante; sapido e di buona freschezza, lascia il palato pulito. La nota alcolica è leggera così come la struttura che emerge più all’olfatto che al gusto. Verticale e diretto.
Yamanashi bianco 2021 - Koshu 11% - Chateau Mercian
Le uve koshu, provenienti dal distretto di Yamanashi ,vengono raccolte manualmente; segue una pressatura delicata e la fermentazione in acciaio a temperatura controllata.
Visivamente si presenta cristallino, di un paglierino chiaro e con una media consistenza. La parte olfattiva presenta delle note empireumatiche di polvere da sparo, elemento che lascia intendere la presenza vulcanica nel terroir che rende l’assaggio minerale; si avvertono anche sentori di fiori bianchi, fruttati e agrumati di pesca e scorza di cedro. La componente gustativa fa emergere una buona freschezza e una spiccata sapidità che lo rende quasi un vino saporito; non è complesso ma rappresenta molto bene la sua tipologia, racchiudendo l'essenza della vinificazione giapponese e dell'uva con cui viene realizzato.
Kiiroka Bianco 2021 - Koshu 12% - Chateau Mercian
Al calice abbiamo un vino realizzato da koshu in purezza ma sur lie; fermenta prima in vasche di acciaio per circa 14 giorni, segue affinamento per circa 8 mesi sempre in acciaio.
Il nostro calice si presenta dal colore paglierino con una leggera nota rosata, dovuta probabilmente ad un piccolo cedimento degli antociani del koshu. Al naso è molto elegante con una nota sulfurea che ricorda vagamente il sauvignon blanc; presenti sentori di frutta gialla matura e di agrume ai quali si aggiungono quelli vegetali, prevalentemente erbacei. In bocca mostra una bella acidità e una sapidità diversa dall’assaggio precedente in quanto tende ad asciugare di più. Complessivamente è fine, elegante ed equilibrato.
Hokushin bianco 2021 - Chardonnay 13% - Chateau Mercian
Realizzato nel distretto di Nagano con uve di due parcelle: alcune provenienti da un terreno argilloso, la restante parte da un terroir sassoso. Affina per 7 mesi in barrique per il 27% nuove.
Dal colore dorato e dotato di una buona luminosità, questo vino ha i classici sentori olfattivi dello chardonnay: tanta frutta tropicale, soprattutto banana ma anche scorza d’agrume, note burrose e sentori sia speziati di vaniglia che leggermente empireumatici. In bocca è cremoso e rotondo; all’assaggio riemerge la parte fumé che ci porta alla mente una scatola di sigari, dovuta ovviamente al passaggio in legno. Complessivamente è ben equilibrato con una buona acidità e un finale persistente.

Shiojiri rosso 2019 –Merlot 13% - Chateau Mercian
L’unico rosso in degustazione fermenta in acciaio, svolge fermentazione malolattica e affina in barrique per 13 mesi.
Dal colore granato e con una buona limpidezza, ancheil secondo internazionale in degustazione ricorda i classici sentori del suo vitigno di appartenenza con una nota prevalente di frutta rossa matura di fragole, lamponi e more; l’uso del legno è ben gestito conferendo i classici sentori speziati vanigliati. Al palato torna presente la speziatura ma rende in questo caso il nostro assaggio quasi pepato; la componente alcolica è ben bilanciata regalando un buon equilibro.Il finale è lungo, con un tannino presente ma non invasivo e una buona bevibilità.