Il trebbiano d'Abruzzo: storie di un'eccellenza ritrovata
La serata dedicata al Trebbiano d'Abruzzo che ha aperto la stagione 2006/2007 della delegazione Ais di Lodi
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Anche quest’anno ho avuto l’onore di aprire la nuova stagione degli eventi organizzati dalla Delegazione Ais di Lodi per il 2007-2008. A differenza dell’anno scorso, ho avuto l’onore e il piacere di tenere la serata presso la nostra nuova sede, il Ristorante “La Coldana” di Lodi, che ci ha ospitato con grande calore e professionalità, offrendo a coronamento della serata un risotto con zucca e porcini davvero strepitoso.
La serata sul Trebbiano d’Abruzzo è la seconda tappa di un viaggio iniziato un anno fa attraverso l’Italia alla ricerca di quelli che io chiamo “figli di un bacco minore”, ovvero quei grandi vitigni da cui si originano vini altrettanto grandi, rigorosamente autoctoni (dove per autoctoni intendiamo vitigni presenti sul territorio da almeno mille anni) e vinificati rigorosamente in purezza, i quali però non hanno raggiunto nel panorama nazionale e internazionale quello status di superstar come ad esempio il nebbiolo a Barolo o il montepulciano in Abruzzo.
La formula è sempre la stessa. Il viaggio prevede non solo uno studio del vitigno, delle sue origini e delle caratteristiche che lo contraddistinguono sia in vigna che in cantina, ma prevede anche un incontro vero e proprio con la terra che accoglie le sue radici da sempre e con quattro produttori che al momento ne danno l’interpretazione più significativa e convincente. Dunque, un progetto ambizioso che presto diventerà libro. Risultato: le storie si snocciolano accanto ai calici in modo che la gente abbia per ogni vino la sua storia dato che, per esperienza, alla gente piace assaggiare buoni vini, piace conoscere trucchi e segreti, ma sopra ogni cosa alla gente piace ascoltare delle storie ed emozionarsi.
Dopo la Barbera d’Asti (tema della serata “La Barbera: storie di uomini e vini”, tenuta il 23.10.07) il passo era obbligato, non poteva che essere il Trebbiano d’Abruzzo, perché nonostante gli ottocento chilometri che li separano, trebbiano e barbera hanno due storie parallele, che partono da un grande passato dimenticato e approdano in un passato un po’ più recente fatto di miseria e di mediocrità. Ma non è solo questo. La loro è anche una storia speculare che si riflette l’una nell’altra, entrambi fratelli minori di vitigni più importanti (Montepulciano, nebbiolo), entrambi straordinari, difficili, tutti serrati nella loro complessità da una combinazione segreta che andava trovata, e comunque oscurati dai loro fratelli maggiori, nonostante il fatto che un giorno qualcuno, quella combinazione, l’abbia effettivamente trovata, Giacomo Bologna a Rocchetta Tanaro, Edoardo Valentini a Loreto Aprutino. Un gemellaggio impossibile dunque il loro, che si dipana nel corso dei secoli in due terre che, a ben guardarle, hanno poco in comune.
Il mio viaggio segue l’itinerario delle mie interviste ma, a ben guardare, per seguire la storia del trebbiano, avrei dovuto iniziare da Edoardo Valentini, scomparso il 29 aprile 2006 (proprio quando questo progetto prendeva vita) perché lui è stato il geniale artefice di questa “eccellenza ritrovata”, così come per la Barbera lo è stato Giacomo Bologna. Un padre forse più colto e meno istintivo, ma pur sempre un pioniere perché ne precede l’attività di almeno vent’anni, con una modernità di interpretazione che viene molto prima di Gravner, molto prima dello scandalo del metanolo, persino prima della creazione del Sassicaia (datato 1968). Tutto accadde in un paesino del pescarese - Loreto Aprutino - il piccolo feudo dove Re Edoardo, all’ombra della Majella e del Gran Sasso, studiava i presocratici costruendo a poco a poco la sua filosofia, dove leggeva Plinio trovandovi descritto il “tribulanum” come un vino straordinario, dove leggeva Cervantes e anche lì trovava traccia di un vino prodotto da un’uva che tanto assomigliava al trebbiano ma che non poteva essere lui perché in nulla somigliava al vino prodotto dai contadini - esattamente come prima del Bricco dell’Uccellone nessuno avrebbe mai riconosciuto la Barbera leggendo la descrizione che ne faceva Pier de’ Crescenzi nel 1305.
Lì, nel palazzo dove dalla metà del ‘600 i suoi antenati si erano succeduti prima di lui nell’amministrazione della terra, proprio lì Edoardo pensava, aveva intuizioni e le metteva in pratica non somigliando a nessuno, solo a se stesso, sulle orme di quegli antichi che gli parlavano dal passato. Valentini, prima di chiunque altro, nel suo splendido isolamento, ritrovava come in un sogno la perduta eccellenza di questo grande vitigno, che presto verrà sostituito durante il boom degli anni ’70 da cloni di trebbiano toscano, e quindi perduto e dimenticato di nuovo.
Perché il trebbiano è il figlio di un dio minore? Perché nonostante la sua grandezza non riesce a entrare a far parte dell’olimpo enologico? Qual è il suo punto debole? La mancanza di profumi, come sostiene Nicodemi? E se, rovesciando i termini della questione, fosse questo il suo punto di forza? Sappiamo infatti che, intestardendosi, si può far emergere da questa “margherita” priva di profumi tutta la marina che ruggisce a oriente e la mineralità delle montagne che incombono a occidente. E sono proprio il mare e la roccia a conferirgli la potenza che lo accomuna ai rossi. Altro che fiore. Il salmastro delle ostriche e la polvere da sparo sono la marca segreta di questo vitigno, nascosto molto bene e molto in fondo, e difficile da far riemergere. Solo questo, quando lo si riesce a intrappolare in una bottiglia come un genio nella lampada, può far mutare il luogo comune, l’opinione pubblica.
Perché allora è tanto difficile smarcarlo da un’immagine di vino da battaglia? Forse perché, come dice Masciarelli, è nell’ordine delle cose che, se con un vitigno riesci a fare dei vini gradevoli che costano poco perché riesci a produrne tanto, allora con quello ci devi produrre un vino da bere tutti i giorni e non un capolavoro. Perché il trebbiano, per aprirlo, devi stanarlo. E allora forse è meglio lasciarlo dov’è. Sì, perché il trebbiano ti fa perdere il senno. Ti fa proprio arrabbiare.
Il trebbiano non è stato nemmeno identificato con un territorio. Pare nato dal nulla, come un fungo nella notte nel bosco di ciascuna cantina, e di volta in volta è un’invenzione di Edoardo e Francesco Valentini, un’eccellente esecuzione di Gianni Masciarelli, un serio manufatto di Zaccagnini, frutto di un compromesso tra le necessità del titolare (Marcello Zaccagnini) e le virtù dell’enologo (Concezio Marulli), e un’elegante improvvisazione da parte di Alessandro Nicodemi, che ogni anno recita a soggetto e, nonostante i risultati, guarda il suo vino come la volpe l’uva, sapendo che è buono ma che non è il più buono. Poco altro all’orizzonte.
A differenza di Giacomo Bologna nell’astigiano, Valentini con la sua “ricetta segreta” non ha fatto da apripista perché dietro di lui non c’era nessuno, tranne Masciarelli forse, che però ha intrapreso un percorso suo completamente diverso. E se non c’era nessuno è perché bisogna essere disposti a fare scelte estreme per seguire le sue orme, e non tutti (per non dire nessuno) è disposto a non produrre e a non vendere pur di essere coerenti con se stessi.
LA DEGUSTAZIONE.
NOTARI 2006 (Nicodemi)
Gr. 13%. Vitigno: Trebbiano d’Abruzzo 100%. Superficie vigneto: 3 ettari. Età delle viti: 40. Densità: 2500 ceppi/ha. Pergola abruzzese e guyot. Rese: 70 q/ha. Inoculo con lieviti selezionati. Fermentazione: 90% in acciaio e 10% in barrique di secondo passaggio per 6 mesi. Affinamento in bottiglia: 4 mesi. Produzione: 10.000 bottiglie.
Colore giallo paglierino, con una leggera effervescenza iniziale che poi svanisce, lasciando in bocca un velluto piacevolissimo. Al naso è fine, dolce, non ampissimo ma rotondo, con note di frutta matura che sfumano sul finale nel croccante di mandorla. In bocca è morbido, caldo, avvolgente, con una punta di sapidità molto gradevole. E’ un vino equilibrato, elegantissimo, di una pulizia davvero encomiabile, che riemerge ad ogni sorso richiamando il successivo.
SAN CLEMENTE 2005 (Az. Agr. Ciccio Zaccagnini)
Gr. 13,5%. Vitigno: Trebbiano d’Abruzzo 100%. Età delle viti: 35. Densità: 4000 ceppi/ha. Guyot bilaterale. Rese: 60 q/ha. Lieviti indigeni. Fermentazione e malolattica in barriques nuove non tostate piegate a vapore. Affinamento: 8 mesi in barrique e 6 mesi in bottiglia. Produzione: 8.000 bottiglie.
Bella tonalità dorata che rivela la sua natura preziosa. Al naso è concentrato, molto fitto, ricco di profumi di frutta matura, quasi sciroppata, con pera e ananas in primo piano, e di toni di cannella e vaniglia che spingono e sostengono il frutto. In bocca è caldo, morbido, di grande struttura, con un finale di mandorla amara molto persistente. E’ un vino potente, imponente, quasi muscolare, in cui il legno non è una presenza relegata sullo sfondo ma si gioca da protagonista, fino in fondo, senza snaturare né prevaricare la natura degli aromi.
MARINA CVETIC TREBBIANO D’ABRUZZO 2005 (Masciarelli)
Gr. 14,5%. Vitigno: Trebbiano d’Abruzzo 100%. Superficie vigneto: 5 ettari. Età delle viti: 50. Densità: 1600 ceppi/ha. Pergola abruzzese. Rese: 80 q/ha. Lieviti indigeni. Fermentazione: barrique di primo passaggio. Affinamento: 22 mesi in barrique. Produzione: 20.000 bottiglie e 300 magnum.
Colore strepitoso, con una sciabolata di luce preziosa che ricorda l’oro intinto nel miele. Al naso è intenso e accattivante, con note agrumate molto importanti, l’albicocca secca, la mandorla, ma soprattutto la nocciola tostata, e le spezie dolci e piccanti a sostenere la struttura. In bocca lo zenzero si fa evidente, fondendosi col legno in un matrimonio d’amore suggellato dalla mineralità della polvere pirica. E’ un vino sontuoso, opulento, molto avvolgente, con una freschezza agrumata che ne smussa la complessità e ne nasconde l’imponenza, rendendolo accostabile e di “facile” lettura ad ogni sorso nonostante la struttura capace di reggere un filetto. Un vino buono, buonissimo, oserei dire perfetto, un cesello di filigrana d’oro con un uso sapientissimo del legno. Un’unica pecca: un’insolita nota dolce sul finale, quasi impercettibile a temperatura di servizio, ma a fine serata, con qualche grado in più, sorprendentemente stucchevole.
TREBBIANO D’ABRUZZO 2004 (Valentini)
Gr. 12,5%. Vitigno: Trebbiano d’Abruzzo 100%. Superficie vigneto: 40 ettari. Età delle viti: 45. Densità: 1400-1600 ceppi/ha. Pergola abruzzese. Rese: 120 q/ha. Lieviti indigeni. Fermentazione: tini di quercia da 60-65 ettolitri per 9-12 mesi. Affinamento in bottiglia: 4 anni.
Colore giallo paglierino, meravigliosamente velato come ogni vino non filtrato. Al naso emergono note floreali di campo, con frutta dolce e matura sullo sfondo, la pesca in particolare, e nuances speziate molto discrete. Ma i due caratteri che lo rendono unico sono la mineralità e la nota salmastra, straordinaria, scioccante, al limite dello sgradevole, che ti colpisce come una scarica elettrica e ti sconvolge per poi catturarti e farti suo. In bocca è emozionante, grasso, elegante e primordiale al tempo stesso, destabilizzante con la sua sapidità che ricorda la fragranza dell’oliva matura, la salamoia, l’acqua marina raccolta nella conchiglia dell’ostrica. E’ un’opera d’arte, che può piacere o non piacere, ma davanti al quale non puoi che inchinarti e riconoscere il genio.
La serata sul Trebbiano d’Abruzzo è la seconda tappa di un viaggio iniziato un anno fa attraverso l’Italia alla ricerca di quelli che io chiamo “figli di un bacco minore”, ovvero quei grandi vitigni da cui si originano vini altrettanto grandi, rigorosamente autoctoni (dove per autoctoni intendiamo vitigni presenti sul territorio da almeno mille anni) e vinificati rigorosamente in purezza, i quali però non hanno raggiunto nel panorama nazionale e internazionale quello status di superstar come ad esempio il nebbiolo a Barolo o il montepulciano in Abruzzo.
La formula è sempre la stessa. Il viaggio prevede non solo uno studio del vitigno, delle sue origini e delle caratteristiche che lo contraddistinguono sia in vigna che in cantina, ma prevede anche un incontro vero e proprio con la terra che accoglie le sue radici da sempre e con quattro produttori che al momento ne danno l’interpretazione più significativa e convincente. Dunque, un progetto ambizioso che presto diventerà libro. Risultato: le storie si snocciolano accanto ai calici in modo che la gente abbia per ogni vino la sua storia dato che, per esperienza, alla gente piace assaggiare buoni vini, piace conoscere trucchi e segreti, ma sopra ogni cosa alla gente piace ascoltare delle storie ed emozionarsi.
Dopo la Barbera d’Asti (tema della serata “La Barbera: storie di uomini e vini”, tenuta il 23.10.07) il passo era obbligato, non poteva che essere il Trebbiano d’Abruzzo, perché nonostante gli ottocento chilometri che li separano, trebbiano e barbera hanno due storie parallele, che partono da un grande passato dimenticato e approdano in un passato un po’ più recente fatto di miseria e di mediocrità. Ma non è solo questo. La loro è anche una storia speculare che si riflette l’una nell’altra, entrambi fratelli minori di vitigni più importanti (Montepulciano, nebbiolo), entrambi straordinari, difficili, tutti serrati nella loro complessità da una combinazione segreta che andava trovata, e comunque oscurati dai loro fratelli maggiori, nonostante il fatto che un giorno qualcuno, quella combinazione, l’abbia effettivamente trovata, Giacomo Bologna a Rocchetta Tanaro, Edoardo Valentini a Loreto Aprutino. Un gemellaggio impossibile dunque il loro, che si dipana nel corso dei secoli in due terre che, a ben guardarle, hanno poco in comune.
Il mio viaggio segue l’itinerario delle mie interviste ma, a ben guardare, per seguire la storia del trebbiano, avrei dovuto iniziare da Edoardo Valentini, scomparso il 29 aprile 2006 (proprio quando questo progetto prendeva vita) perché lui è stato il geniale artefice di questa “eccellenza ritrovata”, così come per la Barbera lo è stato Giacomo Bologna. Un padre forse più colto e meno istintivo, ma pur sempre un pioniere perché ne precede l’attività di almeno vent’anni, con una modernità di interpretazione che viene molto prima di Gravner, molto prima dello scandalo del metanolo, persino prima della creazione del Sassicaia (datato 1968). Tutto accadde in un paesino del pescarese - Loreto Aprutino - il piccolo feudo dove Re Edoardo, all’ombra della Majella e del Gran Sasso, studiava i presocratici costruendo a poco a poco la sua filosofia, dove leggeva Plinio trovandovi descritto il “tribulanum” come un vino straordinario, dove leggeva Cervantes e anche lì trovava traccia di un vino prodotto da un’uva che tanto assomigliava al trebbiano ma che non poteva essere lui perché in nulla somigliava al vino prodotto dai contadini - esattamente come prima del Bricco dell’Uccellone nessuno avrebbe mai riconosciuto la Barbera leggendo la descrizione che ne faceva Pier de’ Crescenzi nel 1305.
Lì, nel palazzo dove dalla metà del ‘600 i suoi antenati si erano succeduti prima di lui nell’amministrazione della terra, proprio lì Edoardo pensava, aveva intuizioni e le metteva in pratica non somigliando a nessuno, solo a se stesso, sulle orme di quegli antichi che gli parlavano dal passato. Valentini, prima di chiunque altro, nel suo splendido isolamento, ritrovava come in un sogno la perduta eccellenza di questo grande vitigno, che presto verrà sostituito durante il boom degli anni ’70 da cloni di trebbiano toscano, e quindi perduto e dimenticato di nuovo.
Perché il trebbiano è il figlio di un dio minore? Perché nonostante la sua grandezza non riesce a entrare a far parte dell’olimpo enologico? Qual è il suo punto debole? La mancanza di profumi, come sostiene Nicodemi? E se, rovesciando i termini della questione, fosse questo il suo punto di forza? Sappiamo infatti che, intestardendosi, si può far emergere da questa “margherita” priva di profumi tutta la marina che ruggisce a oriente e la mineralità delle montagne che incombono a occidente. E sono proprio il mare e la roccia a conferirgli la potenza che lo accomuna ai rossi. Altro che fiore. Il salmastro delle ostriche e la polvere da sparo sono la marca segreta di questo vitigno, nascosto molto bene e molto in fondo, e difficile da far riemergere. Solo questo, quando lo si riesce a intrappolare in una bottiglia come un genio nella lampada, può far mutare il luogo comune, l’opinione pubblica.
Perché allora è tanto difficile smarcarlo da un’immagine di vino da battaglia? Forse perché, come dice Masciarelli, è nell’ordine delle cose che, se con un vitigno riesci a fare dei vini gradevoli che costano poco perché riesci a produrne tanto, allora con quello ci devi produrre un vino da bere tutti i giorni e non un capolavoro. Perché il trebbiano, per aprirlo, devi stanarlo. E allora forse è meglio lasciarlo dov’è. Sì, perché il trebbiano ti fa perdere il senno. Ti fa proprio arrabbiare.
Il trebbiano non è stato nemmeno identificato con un territorio. Pare nato dal nulla, come un fungo nella notte nel bosco di ciascuna cantina, e di volta in volta è un’invenzione di Edoardo e Francesco Valentini, un’eccellente esecuzione di Gianni Masciarelli, un serio manufatto di Zaccagnini, frutto di un compromesso tra le necessità del titolare (Marcello Zaccagnini) e le virtù dell’enologo (Concezio Marulli), e un’elegante improvvisazione da parte di Alessandro Nicodemi, che ogni anno recita a soggetto e, nonostante i risultati, guarda il suo vino come la volpe l’uva, sapendo che è buono ma che non è il più buono. Poco altro all’orizzonte.
A differenza di Giacomo Bologna nell’astigiano, Valentini con la sua “ricetta segreta” non ha fatto da apripista perché dietro di lui non c’era nessuno, tranne Masciarelli forse, che però ha intrapreso un percorso suo completamente diverso. E se non c’era nessuno è perché bisogna essere disposti a fare scelte estreme per seguire le sue orme, e non tutti (per non dire nessuno) è disposto a non produrre e a non vendere pur di essere coerenti con se stessi.
LA DEGUSTAZIONE.
NOTARI 2006 (Nicodemi)
Gr. 13%. Vitigno: Trebbiano d’Abruzzo 100%. Superficie vigneto: 3 ettari. Età delle viti: 40. Densità: 2500 ceppi/ha. Pergola abruzzese e guyot. Rese: 70 q/ha. Inoculo con lieviti selezionati. Fermentazione: 90% in acciaio e 10% in barrique di secondo passaggio per 6 mesi. Affinamento in bottiglia: 4 mesi. Produzione: 10.000 bottiglie.
Colore giallo paglierino, con una leggera effervescenza iniziale che poi svanisce, lasciando in bocca un velluto piacevolissimo. Al naso è fine, dolce, non ampissimo ma rotondo, con note di frutta matura che sfumano sul finale nel croccante di mandorla. In bocca è morbido, caldo, avvolgente, con una punta di sapidità molto gradevole. E’ un vino equilibrato, elegantissimo, di una pulizia davvero encomiabile, che riemerge ad ogni sorso richiamando il successivo.
SAN CLEMENTE 2005 (Az. Agr. Ciccio Zaccagnini)
Gr. 13,5%. Vitigno: Trebbiano d’Abruzzo 100%. Età delle viti: 35. Densità: 4000 ceppi/ha. Guyot bilaterale. Rese: 60 q/ha. Lieviti indigeni. Fermentazione e malolattica in barriques nuove non tostate piegate a vapore. Affinamento: 8 mesi in barrique e 6 mesi in bottiglia. Produzione: 8.000 bottiglie.
Bella tonalità dorata che rivela la sua natura preziosa. Al naso è concentrato, molto fitto, ricco di profumi di frutta matura, quasi sciroppata, con pera e ananas in primo piano, e di toni di cannella e vaniglia che spingono e sostengono il frutto. In bocca è caldo, morbido, di grande struttura, con un finale di mandorla amara molto persistente. E’ un vino potente, imponente, quasi muscolare, in cui il legno non è una presenza relegata sullo sfondo ma si gioca da protagonista, fino in fondo, senza snaturare né prevaricare la natura degli aromi.
MARINA CVETIC TREBBIANO D’ABRUZZO 2005 (Masciarelli)
Gr. 14,5%. Vitigno: Trebbiano d’Abruzzo 100%. Superficie vigneto: 5 ettari. Età delle viti: 50. Densità: 1600 ceppi/ha. Pergola abruzzese. Rese: 80 q/ha. Lieviti indigeni. Fermentazione: barrique di primo passaggio. Affinamento: 22 mesi in barrique. Produzione: 20.000 bottiglie e 300 magnum.
Colore strepitoso, con una sciabolata di luce preziosa che ricorda l’oro intinto nel miele. Al naso è intenso e accattivante, con note agrumate molto importanti, l’albicocca secca, la mandorla, ma soprattutto la nocciola tostata, e le spezie dolci e piccanti a sostenere la struttura. In bocca lo zenzero si fa evidente, fondendosi col legno in un matrimonio d’amore suggellato dalla mineralità della polvere pirica. E’ un vino sontuoso, opulento, molto avvolgente, con una freschezza agrumata che ne smussa la complessità e ne nasconde l’imponenza, rendendolo accostabile e di “facile” lettura ad ogni sorso nonostante la struttura capace di reggere un filetto. Un vino buono, buonissimo, oserei dire perfetto, un cesello di filigrana d’oro con un uso sapientissimo del legno. Un’unica pecca: un’insolita nota dolce sul finale, quasi impercettibile a temperatura di servizio, ma a fine serata, con qualche grado in più, sorprendentemente stucchevole.
TREBBIANO D’ABRUZZO 2004 (Valentini)
Gr. 12,5%. Vitigno: Trebbiano d’Abruzzo 100%. Superficie vigneto: 40 ettari. Età delle viti: 45. Densità: 1400-1600 ceppi/ha. Pergola abruzzese. Rese: 120 q/ha. Lieviti indigeni. Fermentazione: tini di quercia da 60-65 ettolitri per 9-12 mesi. Affinamento in bottiglia: 4 anni.
Colore giallo paglierino, meravigliosamente velato come ogni vino non filtrato. Al naso emergono note floreali di campo, con frutta dolce e matura sullo sfondo, la pesca in particolare, e nuances speziate molto discrete. Ma i due caratteri che lo rendono unico sono la mineralità e la nota salmastra, straordinaria, scioccante, al limite dello sgradevole, che ti colpisce come una scarica elettrica e ti sconvolge per poi catturarti e farti suo. In bocca è emozionante, grasso, elegante e primordiale al tempo stesso, destabilizzante con la sua sapidità che ricorda la fragranza dell’oliva matura, la salamoia, l’acqua marina raccolta nella conchiglia dell’ostrica. E’ un’opera d’arte, che può piacere o non piacere, ma davanti al quale non puoi che inchinarti e riconoscere il genio.
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