Orvieto DOC, il sole d'Italia in bottiglia

Un banco di degustazione e una masterclass hanno permesso di approfondire non solo la produzione vitivinicola della città umbra, ma anche i suoi legami tra storia e arte, con il vino al centro di tutto

Alberto Gober

La masterclass dedicata all'Orvieto DOC si è trasformata, fin da subito, in una vera e propria indagine multidisciplinare che ha dato modo di apprezzare la storia di un vino rinnovato, nel rispetto delle tradizioni e un occhio doveroso alle tecniche attuali, vera espressione della passione di un popolo, come ha ben introdotto il presidente di Assoenologi, Riccardo Cotarella. Vincenzo Cecci, presidente del Consorzio Vino Orvieto ha invece fornito le prime indicazioni sull'importanza di un vino che, a sottolineare il legame con il suo territorio, è uno dei pochi a portare il nome del capoluogo di produzione.

Le origini dell'Orvieto risalgono agli etruschi, i quali ci hanno lasciato testimonianze di contenitori vinari e processi di vinificazione a tre piani fin dal X secolo a.C.. Un sistema di produzione che ricorda da vicino quanto si faceva fino a pochi decenni fa, in tempi “pre-tecnologici”. Venendo ai giorni nostri, l'Orvieto consta di una produzione di circa 12 milioni di bottiglie, con 137.000 quintali di uva raccolta nei 2.100 ettari vitati: un capitale enorme, se si pensa che equivale ai 2/3 della produzione dei vini DOC in Umbria. Una vitivinicoltura che unisce la tradizione all'innovazione, partendo dai fasti di un tempo, quando era il vino preferito di papi e nobili, per arrivare alla tecnologia di oggi puntando a diventare uno dei vini bianchi italiani più apprezzati al mondo.

Con l'intervento del giornalista e storico dell’arte Guido Barlozzetti, abbiamo scoperto che Orvieto è probabilmente la città più ricca di arte dell'Umbria e il suo simbolo è sicuramente la Cattedrale, dedicata all'Assunta, che si caratterizza per l'equilibrio dei suoi elementi verticali con le cuspidi tipiche dello stile gotico. Al suo interno, ma non solo, si trovano decorazioni in cui sono rappresentati vari elementi riconducibili al mondo del vino, come gli splendidi bassorilievi della facciata, dove tralci di vite incorniciano e supportano le storie narrate. La storia di Orvieto passa anche dal famoso pozzo di San Patrizio, costruzione unica nel suo genere, dove due eliche di scale indipendenti - che ricordano la forma del DNA -, permettevano di scendere a prelevare l'acqua e risalire in superficie senza doversi incontrare/scontrare. E non dimentichiamoci, infine, la necropoli etrusca, una vera città dei morti dove le tombe sono incasellate in una vera e propria struttura urbana fatta di strade e di piazze.

Ad Attilio Scienza, professore ordinario di Viticoltura presso l’Università degli Studi di Milano, il compito di portarci per mano nella produzione vitivinicola della DOC Orvieto i cui vini definisce «figli del fuoco e del mare». La zona di Orvieto è un'area continentale con suolo in parte vulcanico e in parte di origine marina, dove la componente calcarea si unisce a numerosi sedimenti fossili. Siamo così difronte a tre aree distinte dove i terreni danno origine a risultati enologici molto differenti: a est suoli di origine sedimentaria marina, a ovest quelli di origine vulcanica, separati al centro da quelli alluvionali.

Tra i vitigni caratteristici della produzione orvietana, si nota la predilezione per quelli autoctoni, espressione peculiare del territorio. Il disciplinare della DOC Orvieto con sottozona Orvieto Classico (zona di più antica tradizione intorno alla città), vale solo per i vini bianchi che prevedono l’impiego di un 60% minimo di grechetto di Orvieto (parente genetico, ma differente dal grechetto di Todi diffuso in altre zone umbre) e trebbiano toscano (qui chiamato procanico), mentre per un massimo del 40% si possono impiegare uve a bacca bianca come drupeggio, verdello, malvasia toscana, ma anche altri vitigni internazionali, come ad es. sauvignon blanc e chardonnay.

Quattro sono le denominazioni di Orvieto in base al residuo zuccherino: secco, abboccato, amabile e dolce. E se oggi sono più comuni le versioni secche, quella amabile, se non addirittura quella dolce, ricordano da vicino il gusto del passato, quando nel fresco delle grotte di tufo la fermentazione si completava solo dopo molti mesi, lasciando un alto residuo zuccherino. Ed è questa la caratteristica che ne decretò in buona parte il successo tra i numerosi viaggiatori nord-europei che decidevano di passare dalla rocca di Orvieto.

Sono presenti inoltre vini dolci da vendemmia tardiva e muffa nobile e non mancano recenti esperimenti di spumantizzazione metodo classico o charmat.

Per i vini rossi si è dovuto aspettare fino al 1998, quando è stata riconosciuta la DOC Rosso Orvietano (o Orvietano Rosso) che però affonda le sue radici in un passato fatto di numerosi esempi di vini rossi di buona qualità. Qui i vitigni previsti dal disciplinare sono molteplici, autoctoni e internazionali, tanto da far considerare il Rosso Orvietano l'espressione di un territorio più che quella legata a qualcuno dei vitigni autoctoni, pur presenti.

La degustazione guidata da Davide Garofalo, tenuta rigorosamente alla cieca (tanto che le bottiglie servite riportavano solo il logo del consorzio), non poteva che riproporre le tre principali tipologie di vino della DOC Orvieto.

Il primo vino, un Orvieto Classico secco, grazie alla criomacerazione a bassa temperatura e alla totale assenza di legno, mantiene le fragranze aromatiche legate alla buccia di grechetto e trebbiano. Il profumo è fresco e leggero, quasi soave, dove l'anima floreale emerge con sentori di gelsomino, fiori di sambuco, magnolia insieme a distinte note fruttate quali mela golden e melone bianco. L’ingresso in bocca è morbido e fresco, ricco di sfumature, con leggere note vegetali percepite anche all’olfatto. Il finale è un crescendo di calore ed energia, in un raro equilibrio tra sapidità e gentilezza.

Il Rosso Orvietano seguente conferma la sua anima elegante e meno corposa rispetto ai vini toscani vicini di casa, nonostante sia un blend di sangiovese, canaiolo e ciliegiolo. Il naso è vellutato, senza spigoli, dove l'anima floreale è ben definita, ma allo stesso tempo delicata, ricordando bulbi di fresia, ciclamino, glicine. Le principali evidenze di frutta richiamano la polpa, ma anche il succo di prugna, affiancate da qualche sentore speziato come cannella, caffè, sandalo e cioccolato bianco. Quanto percepito al naso si riconferma al gusto, con l’aggiunta di una piccola nota amaricante, degno preludio a un finale asciutto.

A concludere l'assaggio una vendemmia tardiva, vino ben differente dal vin santo o da un passito. Il naso è complesso e colpisce per il suo sentore di miele, zafferano, fiori essiccati. In bocca è morbido, come si poteva intuire. Un consiglio per l'abbinamento: usciamo dal cliché del dessert e proviamolo con un risotto alla milanese o una zuppa di cipolle.

La sperimentazione, insieme alla tradizione, si sono potute apprezzare anche al banco di degustazione. Nella folta rappresentanza di produttori abbiamo trovato chi affianca all'Orvieto DOC prodotto esclusivamente con uve autoctone, versioni che includono vitigni internazionali, per poter ampliare la scelta del consumatore. Allo stesso modo non mancano interessanti blend che includono uve muffate in piccola percentuale. Infine c’è chi ha sposato la causa biologica e anche quella vegana. In quest’ultimo caso la filiera è totalmente assente da contatti animali, dai concimi in vigna fino all'eliminazione della colla di pesce per le etichette in bottiglia.

E allora non ci resta che fare come i numerosi personaggi storici che, nel corso dei secoli, hanno eletto Orvieto a meta delle loro vacanze e dei periodi di svago, apprezzandone storia, arte e vino, da Freud a Gabriele D'annunzio che trovò le parole ideali per definire l'Orvieto: «il sole d'Italia in bottiglia».