Villa Franciacorta. Dalle basi spumante alle cuvée
Lo scorso 26 novembre il gruppo dei Degustatori di AIS Lombardia si è cimentato nell’analisi delle basi spumante e nel confronto con i prodotti finiti di una delle realtà di riferimento della Franciacorta, Villa Franciacorta.
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L’appuntamento mensile dei Degustatori questa volta li ha portati a visitare una delle cantine storiche della Franciacorta, Villa Franciacorta, sotto la guida esperta di Paolo Pizziol - assieme alla moglie Roberta Bianchi proprietario dell’azienda - e degli enologi Angelo Divitini e Alessandro Gobbetti.
La giornata si è aperta con una visita all’azienda per scoprirne storia e peculiarità: la proprietà sorge a Monticelli Brusati, in un borgo risalente al 1500 acquistato dalla famiglia Bianchi negli anni ’60; la prima bottiglia è stata realizzata nel 1978 (in etichetta riporta la dicitura “Pinot di Franciacorta metodo Champenoise” utilizzata all’epoca per gli spumanti a base chardonnay); oggi l’azienda consta di 42 ettari, per la maggior parte concentrati intorno alla proprietà, di cui 3,5 dedicati ai rossi tradizionali; la produzione complessiva si aggira intorno alle 280.000/300.000 bottiglie di cui circa 250.000 di Franciacorta; i vini sono realizzati solo con uve di proprietà e vengono prodotti soltanto millesimati.
Il contesto pedoclimatico
Dal punto di vista pedoclimatico, i suoli su cui sono piantate le vigne non hanno natura morenica, ma composizione argillo/limosa insieme a un profilo calcareo di origine marina; inoltre, l’inizio della vendemmia avviene sempre in ritardo rispetto al resto della Franciacorta, sia a seguito dei suoli, un po’ più freddi rispetto al classico terreno sciolto franciacortino, sia per la confluenza delle correnti delle due valli bresciane, la Valcamonica e la Valtrompia: ciò consente alle uve di raggiungere il pieno della maturazione in un contesto climatico più moderato e fresco, cosa che costituisce sicuramente un vantaggio per la realizzazione di vini che servono come basi spumante.
La filosofia in cantina
Dal 2012 l’azienda ha avviato, in collaborazione con l’Istituto di microbiologia dell’Università di Firenze, un lavoro di selezione di lieviti autoctoni che ormai vengono utilizzati per tutta la prima fermentazione e si sta iniziando a lavorare per utilizzarli anche per la seconda: il primo prodotto interamente realizzato con tali lieviti verrà messo in commercio il prossimo anno.
L’obiettivo principale in fase di vinificazione è volto a mantenere le caratteristiche dell’uva e di ciò che si è fatto in vigna. «La fisica ha sostituito quasi completamente la chimica» ha spiegato Paolo Pizziol, e a tal fine l’alleato principale è il freddo: la vinificazione avviene a temperatura controllata, a grappolo intero per quanto riguarda le vinificazioni in bianco, mentre, per la base dei rosati, il pinot nero fa diraspatura e macerazione a contatto con le bucce. In questo secondo caso, la macerazione è termocontrollata attraverso azoto e la durata varia in base all’annata. Tutte le uve subiscono non solo pressatura soffice, ma anche frazionamento: mostofiore, mosto di seconda spremitura e, se l’annata lo consente, di terza spremitura; viene inoltre fatta una parcellizzazione quanto più possibile definita sia in base al livello di maturazione che alle fasce climatiche, a seconda che si tratti di vigneti di alta collina, mezza collina, pianura o con caratteristiche specifiche.
Una parte dei mosti completa la fermentazione in barrique e viene utilizzata per i prodotti con affinamento sui lieviti più lungo. La malolattica viene fatta svolgere solo nelle annate che lo richiedono, in modo che rappresenti uno strumento complementare. I livelli di solforosa sono molto bassi (si assestano sotto i 50 mg) e vengono utilizzati solo nelle fasi critiche. Anche la stabilizzazione viene fatta a freddo, durante l’inverno, per avere un impatto enologico basso: essendo già freddi naturalmente, i vini si stabilizzano (a seguito dell’insolubilizzazione del tartrato di potassio) senza difficoltà.
Sostenibilità e attenzione ai dettagli
L’azienda crede molto nella tutela dell’ambiente: è certificata ISO 14001 per la sostenibilità ambientale ed è anche biologica certificata: su questo secondo punto Divitini specifica come il biologico non vada inteso come fine a sé stesso – si tratterebbe di un concetto ormai anacronistico – ma diventi lungimirante nel momento in cui comporta un processo culturale: secondo l’enologo è necessario calarsi all’interno dei cicli naturali che, per anni, sono stati abbandonati a favore della chimica e della tranquillità che da essa derivava, per riappropriarsi della conoscenza tecnica di tutto ciò di cui la vigna ha bisogno; ad esempio, i raspi e le vinacce sono qui utilizzati per concimare i vigneti, in quanto consentono di innalzare i livelli di sostanza organica del terreno.
L’attenzione al prodotto è un concetto importante per l’azienda, anche a costo di fare scelte antieconomiche: il remuage è manuale su tutte le bottiglie, ma ovviamente determina una produzione più limitata; il periodo minimo di permanenza sui lieviti è di tre anni, ma sono presenti in cantina ancora bottiglie sui lieviti dal 2007; fino al formato Mathusalem viene fatta fermentazione diretta con remuage e sboccatura; inoltre tutte le luci in cantina hanno lunghezze d’onda specifiche per evitare difetti di luce nel vino.
I vini fermi
I vini fermi prodotti sono quelli tradizionali del territorio franciacortino; le varietà coltivate sono cabernet franc, cabernet sauvignon, merlot, barbera e pinot nero; la maturazione avviene sia in botti grandi che in barrique, ma sono presenti in cantina anche alcuni contenitori di forma ovoidale da 13,5 hl in cemento non vetrificato, di cui si stanno riscoprendo le qualità: difatti, oltre a non avere le cariche elettrostatiche presenti nei contenitori metallici, il loro spessore, di ben 70 mm, consente al vino di non subire le variazioni di temperatura delle diverse stagioni, creando una sorta di microclima pressoché costante.
La degustazione delle basi spumante
La seconda parte della visita ha avuto ad oggetto la degustazione delle diverse basi spumante, rispettando la parcellizzazione e la frammentazione fatte in fase di vinificazione: le varie parcelle sono infatti considerate come colori in una tavolozza o come pixel che vanno a formare la definizione di un’immagine. I degustatori sono stati quindi invitati a ripercorrere il lavoro che viene fatto alla fine di ogni inverno, quando si procede ad effettuare i vari assaggi per trovare la giusta sinergia tra le basi, fino a comporre le cuvée.
Si è partiti con l’assaggio delle basi chardonnay di pianura, di mezza collina e dei vecchi vigneti aziendali (6 ha di circa 45 anni) fatte fermentare con uno dei due lieviti selezionati, denominato R6; a seguire ancora due chardonnay che vedono la fermentazione della base con un ceppo di un lievito diverso (R3); a chiudere la prima parte, i pinot nero vinificati in bianco. Al termine di ogni batteria, si è fatto un confronto con i prodotti finiti per provare a individuare quali fossero le basi utilizzate, verificarne gli elementi riconoscibili e le modifiche determinate dalla sosta sui lieviti. Una seconda sessione ha visto protagoniste le basi pinot nero vinificate in rosa messe a confronto anch’esse in un secondo momento con i prodotti finiti.
Nella prima delle tre basi della prima batteria si è individuata un’ampiezza aromatica di frutta bianca e gialla, con prevalenza dei sentori tipici dello chardonnay, tra cui frutta tropicale e note vanigliate (date dall’acetato di isoammile), un tocco vivace di zenzero e morbidezza al palato tali da far ipotizzare gli enologi che possa divenire una buona base da Satèn. Il ceppo di lievito utilizzato – hanno spiegato - gioca sicuramente la sua parte in quanto tende a mantenere le caratteristiche aromatiche tipiche del vitigno senza forzarlo verso certe direzioni; al contrario, il ceppo R3 viene utilizzato per il pinot nero poiché esalta gli aspetti tiolici del vitigno, lasciando una mineralità più marcata.
Man mano che si è proceduto con gli assaggi delle basi successive, ci si è trovati davanti a un acuminarsi di intensità e acidità, sia all’olfatto che al gusto, determinata sia da un progressivo abbassamento dei livelli di PH, sia dalla differenza dei terreni e delle piante: la terza base, ad esempio, ha evidenziato anche dei sentori vegetali e un PH più basso dovuti al fatto che le viti, di 45 anni di età, hanno maggior capacità selettiva nell’assorbire il potassio solo nella quantità necessaria alla pianta, capacità non ancora sviluppata dalle piante più giovani.
Quanto alle due basi successive, sono frutto di una seconda spremitura della stessa uva che costituiva la prima base, quindi più ricche a seguito di un maggior contatto tra mosto e bucce; sono inoltre vinificate con il ceppo R3; nella quinta c’è infine anche una parziale fermentazione in legno.
Prima di passare allo step successivo, si è provato un “gioco”: i degustatori sono stati invitati a unire tra loro i primi tre calici per provare a simulare la creazione della cuvée: il risultato è stato un’armonizzazione delle singole caratteristiche e una maggiore intensità.
Si è passati quindi ai due pinot nero vinificati in bianco, con riferimento ai quali si è evidenziata in primis l’attenzione da porre in fase di vendemmia per determinare il momento esatto in cui raccogliere l’uva, al fine di poter rappresentare la spina dorsale del Franciacorta ed evitare deviazioni che, una volta emerse, non si riescono più a eliminare.
Le due basi sono state rispettivamente prodotte in acciaio e in legno ed entrambe, rispetto alle precedenti, hanno evidenziato maggior acidità; tuttavia, la seconda è risultata più pronta, proprio a seguito della microssigenazione fatta a seguito del passaggio in botte. All’olfatto, ciò che accomuna le due basi è certamente la finezza, a prescindere dai singoli profumi.
Il confronto con i Franciacorta “finiti”
Il confronto con i prodotti già in commercio è iniziato con un Satèn 2018 (100% chardonnay) in cui si è potuto riscontrare un denominatore comune alle prime basi, con un’ovvia maggior eleganza e la trasformazione di alcuni sentori primari e terpenici (ad esempio lo zenzero) in altri secondari (che, nello stesso esempio, è divenuta speziatura). Divitini ha precisato che l’attento lavoro in vigna ha consentito al prodotto finito di mostrare una piacevole morbidezza non a seguito di aggiunta di zucchero, ma della perfetta maturazione delle uve.
Sono stati quindi serviti tre millesimati 2016: Cuvette Brut, Extra Blu Extra Brut e Diamant Pas Dosé, accomunati sia dal fatto che 1/3 del vino base ha fatto un passaggio in legno che della presenza di una percentuale di pinot nero: 15-20% per la Cuvette (cru aziendale, frutto dell’assemblaggio di due vigneti), 10% per l’Extra Blu e 15% per il Diamant.
Su invito degli enologi, anche in questo caso, è stato fatto il solito gioco di mischiare il quarto e quinto calice; la Cuvette ha evidenziato una correlazione ancora più schietta dei primi vini con la quarta e quinta base: si è infatti riscontrata un’esaltazione della componente tropicale, di frutta gialla e candita che faceva pensare alla quarta base, mentre le speziatura ha ricordato il passaggio in legno della quinta; in un secondo momento, aggiungendo anche una lacrima di pinot nero vinificato in bianco, si è potuto riscontrare come questo abbia parzialmente cambiato soprattutto l’impatto al palato, aggiungendo ricchezza e sapidità al sorso. Quanto agli altri due Franciacorta, il Diamant è risultato tra i tre quello con una correlazione più vicina alle basi, proprio in quanto prodotto non dosato, mentre l’Extra Blu è volutamente meno corrispondente, in quanto nasce come austero, più verticale e muscoloso, con un’acidità spiccata.
Si è infine passati alle basi rosé, per le quali si è analizzato il processo di produzione: viene fatta pigiadiraspatura ad acino intero, cui seguono circa 12 ore di macerazione; la pressa è inoltre saturata con ghiaccio secco, sia per condizionarne la temperatura, sia per rimuovere la componente di ossigeno che potrebbe alterare intensità e tonalità di colore. I descrittori fruttati sono qui di lampone, melagrana, pompelmo rosa; quindi, tutti frutti caratterizzati da spiccata acidità; presentano inoltre delicati sentori floreali.
Gli enologi hanno specificato che anche la malvidina, normalmente poco presente nel pinot nero, tende nelle ultime annate, con il cambiamento climatico, a manifestarsi in maniera più importante a livello fenotipico.
I Franciacorta messi a confronto sono stati invece il Bokè 2018 Brut e il Bokè Noir 2015 Pas Dosé (selezione prodotta solo in poche annate), entrambi 100% pinot nero.
Divitini ha evidenziato come in questo caso non sia così semplice trovare una corrispondenza olfattiva tra basi e prodotto finito: l’obiettivo dell’azienda è piuttosto quello di ottenere un prodotto che manifesti ancora pulizia, fragranza e franchezza. Dal punto di vista gustativo, invece, la correlazione è netta nella nota lievemente tannica, nella verticalità del sorso e, ovviamente, nel colore.
La conclusione con due grandi eccellenze
A suggellare la splendida giornata di approfondimento, la degustazione di due veri e propri gioielli di Villa Franciacorta, prodotti solo in annate particolari (le ultime sono state la 2005, 2008 e 2011) e provenienti dai vigneti migliori: la Selezione 2011 e la Selezione 2008. In questo caso, il 100% della base fa legno per 7-8 mesi, cui seguono lunghe maturazioni in bottiglia.
Selezione 2011: 78% chardonnay, 22% pinot nero - 100 mesi sui lieviti, degorgement autunno 2020, è stato prodotto in circa 4.000 bottiglie; dosaggio intorno a 4-5 g/l
Selezione 2008: 85% chardonnay, 10% pinot nero e 5% pinot bianco, 2920 bottiglie prodotte, oltre 100 mesi sui lieviti; degorgement 2017, brut.
Due grandi eccellenze, che mostrano chiaramente la capacità di evolvere nel tempo, evidenziando ognuna le proprie peculiarità, come ben sottolineato da Artur Vaso: più fresca e integra la 2011 , considerata una delle annate del secolo in Franciacorta, più saporita e con sentori di umami la 2008.
Crediti foto: Marisa Carelli