Crisi e convegni. Un connubio oramai inscindibile.
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04 aprile 2010

No! Il convegno, no!”. Questo è l’inconfessabile pensiero, di morettiana memoria, che attraversa le menti di molti di coloro che partecipano, per lavoro o passione, a kermesse, manifestazioni, anteprime...
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Tratto da L'Arcante N° 12
“No! Il convegno, no!”. Questo è l’inconfessabile pensiero, di morettiana memoria, che attraversa le menti di molti di coloro che partecipano, per lavoro o passione, a kermesse, manifestazioni, anteprime e quanto di altro il variegato panorama vitivinicolo offre, ogni anno, praticamente senza pause, in giro per lo stivale. Che siano chiamati workshop o conferenze stampa o ancora tavole rotonde, che l’invito arrivi via email o su cartoncino serigrafato intestato, di fatto, la sostanza non cambia: un moderatore, operatori di settore, produttori, nel caso il saluto delle autorità e poi via al dibattito finale, prontamente caldeggiato.
In realtà, questo rituale che spesso assume forme paludate e senza alcun valore aggiunto, altre volte riserva spunti di approfondimento tali da meritare il viaggio. Questo è sicuramente un periodo caldo perché il tema, la più parte delle volte, non può che essere uno, sempre, immancabilmente lo stesso: la crisi.
Il mercato, in tutte le sue forme e salse, è oggi più che mai al centro dei dibattiti tra produttori e buyers, giornalisti e sommeliers, ristoratori e enotecari. Se un tempo si discettava per ore circa concetti come zonazione, tradizione, barrique, microssigenazione o ancora trucioli, terroir e ricerca del varietale, oggi, lo sguardo è rivolto, in quasi tutti i distretti vincoli italiani, all’andamento delle vendite. Non che prima non meritasse attenzione, ma si glissava velocemente. Le vacche erano grasse e non pareva elegante parlare sempre di guadagni e successi. Oggi le cose sono alquanto cambiate. E non di poco. Si cerca di misurare soprattutto la temperatura del termometro dell’export. Si, perché, è bene ricordarlo, ma quelli che da critica e pubblico sono considerati i vini più rappresentativi ed importanti d’Italia, i fiori all’occhiello della produzione nostrana, ciò di cui vantarsi e lustrarsi gli occhi, da sempre, e non solo ora che la crisi colpisce sempre più, non sono acquistati e bevuti che in minima parte dagli italiani. Amarone, Brunello, Chianti Classico, Vino Nobile di Montepulciano, Barolo e Barbaresco, giusto per citarne alcuni, ma l’elenco potrebbe essere lungo, volano all’estero in percentuali che variano in media tra il 60% ed il 75% rispetto alla produzione totale. Se poi consideriamo che, spesso, i luoghi da cui provengono questi magici vini sono anche ambite mete per il turismo estero, avido di portarsi il ricordo vinicolo tra le proprie mura o consum
arlo copiosamente in loco, viene da chiedersi se non sia oramai una riserva di pochi ultimi moicani, in Italia, a bere qualche goccia di sangiovese di Montalcino o di nebbiolo di Langa. Angelo Gaja, qualche mese fa, durante una giornata organizzata da Ais Milano per festeggiare i 150 anni della sua azienda, tuonava: “L’esportazione deve diventare un’ossessione. Qui non c’è più spazio. I vostri figli devono cantare l’inglese. La nostra patria non è più l’Italia, ma l’Europa”. Ma gli stessi confini del vecchio continente sono da tempo oramai non più sufficienti. In realtà il vero punto di riferimento sono gli Stati Uniti. La Russia è un gigante che non sembra ancora né stabile né affidabile quanto a consumi, la Cina è un enorme opportunità per ora solo sulla carta, invalicabile per molti produttori a causa di dazi doganali e restrizioni difficili da affrontare. Sicché, città come New York e Los Angeles, nonché la ricca Florida, meta vacanziera dell’alta borghesia americana disposta a spendere, rimangono mercati che se conquistati, ti proiettano direttamente nell’olimpo. Purtroppo, la crisi, è iniziata proprio da quelle parti: esplosa a ottobre del 2008, non sembra aver fatto sentire tutta la sua dirompente forza solo nel 2009. Avanza lentamente, ma inesorabilmente, proprio quest’anno e per molti non è detto che nel 2011 si vedrà finalmente la luce. Secondo alcuni è come essere caduti in delle sabbie mobili: affoghi lentamente. I produttori se ne sono accorti? Alcuni, a dire il vero pochi, si. Altri hanno fatto finta di niente. Si è creduto, come spesso accade, che la crisi non potesse intaccare in modo così irrimediabile anche noi, anche il mondo del vino italiano, così amato e ricercato oltreoceano. I convegni dell’anno scorso, tipicamente, avevano questo titolo: “Dopo un 2008 difficile, il 2009 inizia all’insegna dell’ottimismo” o con la variante “all’insegna di un’inversione di tendenza”. Quest’anno, sono stati aggiornati i numeri agli anni, ma il tema è rimasto lo stesso, affiancando alla parola “ottimismo” almeno un “cauto”, giusto per non esporsi più di tanto.
Il realismo della Valpolicella
Luca Sartori, direttore del Consorzio Vini Valpolicella, a fine gennaio, nella conferenza stampa che ha aperto gli assaggi dell’anteprima dell’Amarone 2006, non si è certo nascosto dietro un “cauto ottimismo”. “L’impatto di una crisi internazionale senza precedenti, un anno fa, era solo percepita parzialmente tanto da far ritenere a buona parte della produzione la necessità di aumentare le scorte di amarone per fare fronte ad un mercato in presunta grande crescita. Purtroppo, i primi mesi dell’anno, hanno evidenziato implacabilmente quanto nessuno abbia potuto chiamarsi fuori da una situazione talmente complessa a cui nemmeno i più grandi analisti economici hanno saputo dare una risposta esauriente”. La soluzione è stata quella di diminuire la quantità di uve messe a dimora per l’appassimento. In questo modo si è calmierato un settore che avrebbe portato in un lampo al deprezzamento della terra ed al crollo dei prezzi. Un comparto, come quello della Valpolicella dell’Amarone, che ha avuto una crescita a doppia cifra di produzione e vendite ininterrotta per più di dieci anni, ha avuto il coraggio di fermarsi, constatando realisticamente che questa impetuosa cavalcata non poteva proseguire senza intoppi all’infinito. Il 2009, in controtendenza rispetto ad altri distretti vitivinicoli italiani, ha visto poco meno di 10 milioni di bottiglie di amarone prendere la via degli scaffali delle enoteche o l’inserimento nella carta dei vini di molti ristoranti. Tradotto in percentuale, quasi un 10% di crescita rispetto al 2008. Un successo, quindi, per molti versi inaspettato, ma che, alla luce delle decisioni prese in zona, condivise quasi all’unanimità da tutti i produttori, oggi sembra coerente anche se non così scontato. Finalmente l’individualismo ha lasciato il campo al gioco di squadra. E questa, probabilmente, è la notizia più importante.
Il Chianti Classico tra prezzi in discesa e riscoperta delle differenze.
Il 75% del Chianti Classico vola all’estero: all’interno di questa percentuale, gli Stati Uniti pesano il 27%. Tradotto: gli americani bevono più Chianti degli italiani. Ergo, non è stato un caso che durante i lavori di degustazione delle nuove annate ospitati, come di consueto, presso la Stazione Leopolda di Firenze il 16 e 17 febbraio, la tavola rotonda dal titolo: “Il Chianti Classico e i mercati internazionali”, giunta alla sua terza edizione e dedicata al paese a stelle e strisce abbia riscosso un successo di pubblico, tra produttori e giornalisti. I dati delle vendite qui non sono positivi come in Valpolicella: “Il bilancio del 2009 si chiude per il Consorzio con una contrazione nelle vendite di vino del 15%”. Per contrastare la crisi anche da queste parti si è deciso di immettere meno vino sul mercato. Si parla di “blocage”, cioè di un blocco del 20% della produzione di Chianti Classico del 2009, che non potrà essere commercializzata per un periodo di 24 mesi. Un divieto che però il Consorzio potrà decidere, in qualsiasi momento, anche prima della sua scadenza, di interrompere se il mercato dovesse improvvisamente dare segnali di ripresa. Il dibattito, moderato dal giornalista Ian D’Agata, non ha offerto sussulti o particolari spunti innovativi, se non nella parte finale, e per merito di Antonio Ceccarelli, Direttore Commerciale della Marc de Grazia, storico selezionatore di etichette italiane per il mercato americano. La sua analisi è stata, a tratti, tanto schietta quanto impietosa: “Ad un certo punto in Chianti c’è stata la rincorsa al gusto internazionale. Una scelta che ora paghiamo, perché i vini hanno perso la loro connotazione territoriale”. In realtà, secondo Ceccarelli, è ben presente, invece, una nicchia di mercato statunitense che cerca vini di territorio, che riescano a mettere in evidenza il terroir di provenienza. Piccoli importatori stanno tornando in auge attraverso un lavoro che predilige la selezione di aziende di piccole o medie dimensioni che sposano in cantina una filosofia di stampo prettamente tradizionale. Vale a dire: aderenza al varietale di partenza e al terroir di provenienza. Ed i prezzi? Qui la nota dolente. La fotografia di Ceccarelli mostra un quadro, se non impazzito, comunque in forte confusione e panico. E’ guerra al ribasso, non solo da parte degli imbottigliatori, ma anche dei produttori: “Ci sono produttori, e non solo imbottigliatori, anche del Chianti Classico, che stanno vendendo all’export a 3 euro a bottiglia, quando il prezzo dovrebbe essere almeno il doppio”. Sembra essere scomparsa la storica distinzione tra imbottigliatori e produttori. E se la competizione si sposta solo ed esclusivamente sul piano della guerra al ribasso dei prezzi, è giusto ipotizzare che il deprezzamento del valore della terra e dello storico marchio del Chianti Classico sia un incubo che possa spavantare. Una via d’uscita meno deprimente, è sembrata arrivare da un produttore storico come Giuseppe Mazzacolin, Direttore dell’azienda Felsina: “Gli Stati Uniti danno spazio anche a vini che puntano alla tipicità. Bisogna, però, andare direttamente lì. Visitare direttamente i clienti, organizzare degustazioni e costruire il prezzo solo dopo aver sperimentato sul campo la percezione del tuo vino”. Valigie sempre pronte, quindi, e voglia di macinare chilometri per mettersi in discussione. Il tempo dei facili ordini e delle vendite in continua ascesa sembra definitivamente terminato.
Il Sangiovese di Romagna: un mercato ancora tutto da costruire.
Se il sangiovese, in terra toscana, ha nell’export la sua principale e fondamentale valvola di sfogo per le vendite, dalla parte opposta degli Appennini, in Romagna, tra le province di Bologna, Forlì, Cesena, Ravenna e Rimini, la situazione cambia radicalmente. Se dal punto di vista organolettico terreni diversi danno origine a vini meno austeri e maggiormente unidimensionali, con la componente fruttata a farla da padrona incontrastata, dal punto di vista delle vendite la situazione è alquanto disomogenea. È interessante notare come in questo distretto il mercato estero, al quale si guarda con grande attenzione e desiderio, non faccia ancora parte delle corde dei produttori. Sicché, il 22 febbraio l’Enoteca Regionale Emilia Romagna ha organizzato il convegno dal titolo. “Sangiovese di Romagna, parlano i mercati”. Se il consumo locale rappresenta la voce più importante per la maggior parte delle cantine del territorio, in Italia ed all’estero spicca l’assenza da parte di questo vino: “Nella metà delle enoteche italiane il sangiovese di Romagna non è presente. Perché?”. Secondo Giovanni Longo, titolare di Longo Speciality in quel di Legnano in Lombardia ed ex presidente dell’associazione Vinarius, la risposta non è semplice da dare. Da una sua analisi su 45 enoteche sparse in tutta Italia sembra che un po’ tutti ne possano farne a meno. I pochi che decidono di tenerlo in assortimento sono mossi più da motivazioni personali che non da una reale richiesta del mercato. “D’altronde oggi non è più possibile per un’enoteca avere un magazzino che ha un’immobilizzazione di bottiglie pari alla metà del fatturato. Bisogna tenere solo il vino che gira, ed il Sangiovese di Romagna non è tra questi”. Le cose non cambiano molto all’estero. Paul Medder della società inglese Wine Intelligence, incaricato di svolgere un’attenta analisi del mercato del vino italiano all’estero, ed in particolare del vitigno principe della viticoltura romagnola, ha mostrato una fotografia che lascia poco spazio a dubbi interpretativi: “Il Sangiovese di Romagna è ancora una nicchia e molti consumatori bevono vini da sangiovese senza conoscere il vitigno. Determinante nella scelta del vino è nel 60% dei casi il paese di provenienza o la regione (Toscana, Veneto etc), mentre solo nel 30% dei casi è determinante la denominazione di origine”. Non è per altro possibile parlare di mercato estero in modo generalista ed uniforme. Ogni paese ha le sue peculiarità: se in UK e USA le persone scelgono il vino condizionati soprattutto dalla varietà, in Germania ed in Svizzera, invece, è più importante l’origine e la regione di provenienza. Se in Danimarca, Usa e Canada ci sono consumatori ben disposti a testare vini che non conoscono, accade esattamente l’opposto in Germania dove domina un atteggiamento più conservatore. Emerge un quadro con molte sfaccettature, che sembrerebbe indicare una strategia che porta a presentare il vino in modo diverso a seconda dei distinti mercati. Vitigno o territorio? Dipende da dove vogliamo andare. Ed è una decisione fondamentale per un comprensorio come quello romagnolo se, come ha affermato in apertura di convegno il Direttore del Consorzio, Giordano Zinzani, l’obiettivo futuro sarà quello di raddoppiare la produzione!
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