Le nostre eccellenze destinate all’export?

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19 novembre 2008

Le nostre eccellenze destinate all’export?

Un illustre intervento di Angelo Gaja pone l’accento sulla necessità di aumentare e qualificare le esportazioni del vino italiano.

Alberto Schieppati

Ha perfettamente ragione Angelo Gaja quando, in una sua recentissima nota sull’andamento di mercato, mette in guardia sugli effetti negativi della recessione in atto. “Le conseguenze, dice il re del Barbaresco e di Bolgheri, saranno enormi anche per il vino, destinato a un ulteriore calo dei consumi: mentre, invece, cresceranno le eccedenze a causa della maggiore produzione vinicola 2008 rispetto al 2007 e di un paventato calo delle esportazioni”. Gaja aggiunge, fra l’altro: “la valvola dell’esportazione è salvifica per il vino italiano. L’Italia ha il dovere, oltre che la possibilità, di produrre vini di migliore qualità. Le eccedenze devono essere considerate una fortuna e non una disgrazia. I mercati esteri offrono grandi opportunità agli esportatori capaci e intraprendenti: l’Italia possiede più di 35mila imbottigliatori, un patrimonio umano ricco ed articolato, ma solo meno di 4mila sono esportatori abituali od occasionali, troppo pochi. Solo l’export può salvare il vino italiano, e su questo aspetto bisogna concentrare gli sforzi ed i progetti”.

Come non essere d’accordo con un grande produttore che, da sempre, costituisce un grande valore aggiunto per il vino italiano e la sua immagine nel mondo!? Ma, al tempo stesso, sorge spontanea una riflessione, che si esprime in un quesito molto chiaro: dobbiamo ritenere ormai “perso” il mercato interno? Dobbiamo dare per scontato che, dentro ai nostri confini, il vino è e rimarrà “roba da ubriachi”? Facendo dell’export il principale obiettivo su cui concentrarsi, non si corre il rischio di dimenticarsi dei già vacillanti consumi nel nostro Paese? Già si devono fronteggiare campagne mediatiche anti-alcol generalizzanti e approssimative, che pongono il vino sullo stesso piano di superalcolici e cocktail “da discoteca”, senza che istituzionalmente vi sia una risposta dura e decisa. Già le giovani generazioni crescono (a parte le solite eccezioni) con l’idea che il vino sia un veleno, simile più a una droga sintetica che a un prodotto della natura. Già i consumi crollano e la polverizzazione produttiva parcellizza i fatturati spingendo il comparto verso logiche “micro” che, alla fine, penalizzano le attività delle singole aziende. E, in un contesto del genere, pensiamo a valorizzare l’export? Certo, l’immagine di qualità del nostro vino deve essere supportata e sostenuta da soddisfazioni economiche in grado

di confermarne il valore (in questa ottica l’intervento di Gaja è lucido e illuminante) E, se in Italia l’eccellenza è valorizzata solo in parte (dai consumatori gourmet, dagli enoappassionati e da certo turismo internazionale) bisognerà pur prenderne atto, e rivolgersi anche altrove (leggi valorizzare l’export). Ma mi piacerebbe che qualcuno aprisse la discussione su un argomento che (ormai) sembra essere quasi diventato perdente. Ovvero: raccogliere, possibilmente senza scottarsi, la patata bollente del “caso Italia”, ribadendo il concetto che il vino è una voce fondamentale della nostra economia (o, quanto meno, che deve tornare ad esserlo), oltre che della nostra storia e delle nostre migliori tradizioni. Non sarebbe il caso –e lo ripeto per l’ennesima voltache a livello governativo qualcuno avesse il coraggio di sostenere il mondo produttivo (anche con interventi ad hoc) in modo concreto, piuttosto che dare finanziamenti a pioggia alle regioni per le loro attività folkloristiche che, certamente, fanno colore ma, di certo, non aumentano il consumo?

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