Alla (ri)scoperta del Timorasso

Se il Piemonte è terra di grandi vini rossi, c’è spazio anche per bianchi sorprendenti. Con Francesco Ferrari, Luigi Boveri e Mattia Ricci una serata per innamorarsi del timorasso dei colli tortonesi.

Gabriele Merlo

Nella storia del vino è spesso accaduto che alcuni vitigni siano caduti nell’oblio, dimenticati per anni o addirittura per secoli perché diversi, non comuni, sacrificati in nome della produttività o più semplicemente perché difficili, da coltivare o da vinificare. Vitigni capaci di regalare vini unici, straordinari, che condensano nel calice le peculiarità che li distinguono dagli altri.

Il timorasso è l’emblema dei grandi vitigni abbandonati del nostro paese, non conosciuto abbastanza come meriterebbe; a Francesco Ferrari, relatore letteralmente innamorato del Piemonte, il compito di riportarlo alle luci della ribalta e degustarlo assieme alla platea meneghina in una piacevole serata d’inizio febbraio.

Un vitigno dimenticato perché bianco in terra di rossi, per la sua sensibilità a muffe e marciumi e, più semplicemente, per la sua bassa resa e produttività in confronto al cortese, altro vitigno a bacca bianca coltivato nello stesso territorio. Dalle parole di Luigi Boveri, esperto vignaiolo che ha voluto partecipare alla serata assieme al suo giovane collega e amico Mattia Ricci, la testimonianza diretta: «Ai tempi di mio nonno e mio padre c’erano gli osti che vendevano il vino alla gente, ai lavoratori, e siccome si beveva maggiormente vino rosso, con botti e damigiane di barbera o freisa, l’agricoltore riusciva a guadagnare qualcosa di più. Era l’agricoltura post-bellica del Piano Marshall in cui la produzione doveva essere alta per sfamare la gente e permettere la sopravvivenza. Altri tempi, e il timorasso era stato abbandonato perché non consentiva di produrre tanto vino», e aggiunge: «Ma quando ero piccolo udivamo le parole del “matto” del paese che urlava per le vie di Costa Vescovato: il timorasso un giorno ritornerà».


Il relatoreParole che appaiono oggi come una profezia, forse risuonate nella mente di un piccolo manipolo di viticoltori “folli” che sul finire degli anni ottanta decisero di tornare a vinificare il timorasso, di cui ormai erano rimasti pochissimi ettari coltivati: il 1987 la prima vendemmia di Walter Massa, il vignaiolo simbolo del territorio, l’anno della rinascita. Dieci anni fa gli ettari vitati erano solo 25 mentre oggi siamo a più di 175 ettari coltivati a timorasso in tutto il territorio tortonese.

Ma quali furono le ragioni che spinsero Massa e gli altri vignaioli come Mariotto, Boveri a scommettere su questo vitigno nonostante la sua difficile “addomesticabilità”? Innanzitutto la volontà d’identificare il proprio territorio con un grande vino portabandiera, un vino bianco che potesse reggere il confronto con i blasonati rossi delle Langhe, una sorta di “Barolo Bianco”. Bene, nel corredo genetico di quest’uva vi sono geni comuni a vitigni a bacca nera, nonché di grandi bianchi come riesling e viognier. L’intento di questi pionieri è stato anche il voler riscoprire qualcosa di puro, ancestrale, sul quale non c’è mai stata manipolazione genetica e di cui non esistono cloni e che si sapesse adattare vincendo la sfida del cambiamento climatico. Se in passato il timorasso ha spesso sofferto il clima freddo e piovoso del tortonese, oggi può far fronte e adattarsi al riscaldamento globale.

Tuttavia, un grande vino può essere prodotto solo dove territorio e suolo lo consentono e non si può parlare di timorasso senza citare Derthona, il nome latino dell’antica Tortona. I colli tortonesi, la sua terra natia, si trovano nell’estremo lembo orientale del Piemonte, al confine con Lombardia e Liguria. Una zona di confine, crocevia di scambi commerciali: l’antica Derthona era infatti attraversata dalla Postumia, la via romana che collegava Genova alla Pianura Padana. Una terra in cui viene coltivata l’uva e prodotto vino da secoli, come testimoniato da Pier de’ Crescenzi, agronomo e giudice al seguito podestà di Asti che, nel XII secolo, racconta del Gragnolato, superbo vitigno bianco tipico del tortonese (forse timorasso?).

Il segreto del territorio sta soprattutto nel sottosuolo. Passeggiando tra le quattro valli fluviali che suddividono il tortonese, Scrivia, Grue, Ossona e Curone capita sovente d’imbattersi in fenomeni erosivi con enormi calanchi che testimoniano la componente argilloso-calcarea del sottosuolo, costituito prevalentemente dalle celebri Marne di Sant’Agata Fossili, decisamente abbondanti non solo nelle Langhe ma anche in questo angolo di Piemonte anche perché Sant’Agata Fossili è un comune abbarbicato su queste colline.


I viniPer valorizzare e difendere tutte queste peculiarità, a fine gennaio 2020 è nata la sottozona Derthona che identificherà i vini dei colli tortonesi prodotti da uva timorasso, nell’ottica di voler dare maggior importanza al territorio piuttosto che al vitigno, perché se quest’ultimo è coltivabile in tutto il mondo, il terroir è unico in Italia.

Il binomio che unisce vitigno e ambiente pedoclimatico è emerso prepotentemente nei sei vini degustati, tutti fermentati e affinati solamente in acciaio e bottiglia. Se le note floreali e fruttate di acacia, ginestra, cedro, susina gialla e pesca bianca sono evidenti nel Colli Tortonesi Timorasso Grue 2017 di Pomodolce, i sentori erbacei di timo, maggiorana, rosmarino e genziana si esprimono prepotentemente nel Colli Tortonesi Filari di Timorasso 2017 di Luigi Boveri e nel Colli Tortonesi Timorasso Fausto 2016 di Vigne Marina Coppi.

Profumi ben caratterizzati anche nel Derthona Timorasso Pitasso 2017 di Claudio Mariotto e nel Derthona Timorasso Sterpi 2017 di Vigneti Massa, in cui si fondono sensazioni minerali di selce, iodio e pietra focaia facendo percepire l’interessante attitudine all’invecchiamento che possiedono tutti questi vini.

Discorso a parte per il Colli Tortonesi San Leto 2013 di Daniele Ricci nel quale la macerazione di tre giorni sulle bucce dona al vino un naso profondo - permettendo comunque di distinguere le caratteristiche del vitigno di partenza e il territorio da cui proviene - che si riflettono nel calice con note di camomilla, artemisia, genziana e vermouth, tè verde, orzo, crema pasticcera e pietra focaia.

Un vitigno che non è più una semplice scommessa, ma una solida certezza sul quale imprenditori e aziende - non solo del territorio - stanno investendo, a dimostrazione che il timorasso è in grado di regalare ora, e sicuramente nel futuro, alcuni tra i più interessanti vini italiani destinati a durare nel tempo.