Bianco, ma non troppo. L'affascinante versatilità dell’Erbaluce

Racconti dalle delegazioni
12 settembre 2022

Bianco, ma non troppo. L'affascinante versatilità dell’Erbaluce

La terza serata della rassegna “Piemonte in bianco” ha visto protagonista l’Erbaluce. Acidità e sapidità sorprendenti per un vino senza età: la degustazione di 8 vini selezionati da Francesco Ferrari ha dato non solo conferme ma sorprese.

Sara Missaglia

Quando sei nato in una terra dove hai iniziato a calpestare le vigne da bambino e a sentire i profumi del vino insieme ai libri delle elementari, è del tutto normale provare un attaccamento profondo all'erbaluce: Francesco Ferrari è di casa in queste terre e la selezione dei vini per la serata, così come le sue parole, trasmettono emozioni e un trasporto non solo tecnico ma affettivo.

In luoghi di grandi vini rossi, l'erbaluce si fa strada, presente solo nelle sue zone di origine: un grappolo piuttosto grande, una buccia spessa che cambia lentamente colore virando verso tonalità rosa ramate. Uva Rustia, così veniva chiamata in dialetto: uva arrostita, matura al punto da cambiare colore, lievemente punteggiata, quasi fosse stata abbrustolita.

Origini leggendarie quelle del vitigno, con un vissuto storico che va molto indietro nel tempo: è del 1224 la prima citazione di un vino bianco prodotto nel canavese. Il cardinale Guala Bicchieri ogni anno riceveva dai Canonici di Sant’Andrea di Vercelli sette botticelle di vino albus di Viverone. Nel 1530 Sante Lancerio, una sorta di sommelier ante litteram, bottigliere di Papa Paolo III Farnese, dichiarava di apprezzare il «vino greco» (passito) di questo territorio, trovandolo «molto perfetto». E ancora: Giovan Battista Croce nel 1606 lo cita nel suo «Della eccellenza e diversità dei vini che dalla montagna di Torino si fanno».

Francesco FerrariFrancesco ci spiega che questa è la prima descrizione del vitigno dove, all'epoca, l'erbaluce viene definito come «albaluce perché biancheggiando risplende: ha li grani rotondi, folti e copiosi, ha il guscio o sia scorza dura: matura diviene rostita e colorita e si mantiene in sui la pianta assai»: da qui il colore ramato degli acini a piena maturazione. La storia è una cosa, ma la leggenda - soprattutto se a sfondo romantico - è un’altra. Un mito del passato racconta di ninfe e degli dèi Alba e Giove Sole, amanti senza possibilità di congiungersi fino a quando la Luna - con un’eclissi - ne consentì l’incontro da cui nacque la ninfa Albaluce. La sua rarissima bellezza spinse le genti devote e ammaliate verso quelle zone per poterla ammirare, privandosi di risorse anche per il proprio sostentamento. Alla ricerca di nuovi terreni fertili si cercò di mutare il corso di un lago, provocando danni all’ambiente e la morte di molti. Le lacrime di Albaluce, affranta per la tragedia, caddero sulla terra e diedero vita a un tralcio di vite dal nome Erbaluce.

Sull’origine del vitigno Francesco formula tre ipotesi, verificate attraverso ricerche sul DNA: il fatto che nel novarese l’erbaluce venga chiamato “greco” potrebbe far pensare a un legame con il greco bianco, giunto nel canavese con l’esercito romano partito dalla Tessaglia e transitato in Magna Grecia. Ma l’analisi del DNA non conferma questa parentela, così come il possibile legame con la clairette blanche francese. È del tutto plausibile, racconta Francesco, che si tratti a pieno titolo di un vero vitigno autoctono canavesano, che si colloca in due zone d’elezione, il Canavese (la porzione compresa tra Valle d’Aosta, Serra d’Ivrea, il bacino del Po e le valli di Lanzo) e l’Alto Piemonte. Una cosa è certa: al di fuori di questi areali l’erbaluce non è presente. E ciò fa pensare che della leggenda qualcosa di vero vi sia. Intorno a Ivrea ci sono infatti le rive del grande lago dove viveva la ninfa Albaluce, un grande anfiteatro morenico di sabbia e roccia, composto da detriti con elementi tra loro molto diversi: gneiss, graniti, micascisti, derivanti dallo scioglimento dei ghiacciai che ricoprivano Piemonte e Valle d’Aosta durante la glaciazione, e una totale assenza di calcare.

DOC nel 1967, DOCG nel 2010, la Denominazione ricomprende oggi 37 comuni al di fuori dei quali non si può parlare di erbaluce e non può apparire l’indicazione di questo vitigno in etichetta. Ecco, quindi, che la Denominazione “Colli Novaresi” ricorre a naming di grande fantasia non senza polemica: ErbaVoglio, Lucino, Fior di Luce, Lucia, fino ad arrivare a “L’Innominato” o a “Vitigno Innominabile”.

Da un’analisi condotta dal CREA (Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’Analisi dell’Economia Agraria) di Asti su un campione di circa cinquanta vini ottenuti da uve erbaluce in purezza, è stato individuato uno spettro olfattivo comprendente i descrittori più caratteristici: fruttato (uva spina, ribes bianco, susina, nespola), agrumato e minerale (termine piuttosto abusato, ma che rimanda al sale della terra, al gesso, selce e pietra focaia), i principali, seguiti da balsamico, caramellato, empireumatico, erbaceo, con note di frutta secca e fiori.

L’erbaluce necessita di un metodo di allevamento espanso in quanto ha una modesta fertilità basale: la pergola soddisfa questa necessità. Localmente tale storico sistema di coltivazione, ancora in uso, è la topia che prevede una struttura a pali robusti piantati nel terreno in cima ai quali, a un’altezza di circa 1,5 metri, sono legati pali più sottili disposti in orizzontale a formare un’intelaiatura in grado di sostenere i lunghi tralci del vitigno.

L’erbaluce è un vitigno di grande versatilità che ben si esprime nelle tipologie ammesse: spumante (metodo classico, minimo 15 mesi sui lieviti), bianco secco e passito. Il suo grappolo di media grandezza, cilindrico alato e compatto ha un raspo molto legnoso e resistente, tant’è vero che in passato i grappoli venivano appesi per l’appassimento proprio da qui. La polpa è succosa e la buccia spessa, grande freschezza e un’ottima sapidità. Consegnate le chiavi interpretative del vitigno, Francesco dà il via a una degustazione molto interessante: otto vini tra loro profondamente diversi, un viaggio che riserverà sorprese e magia.

La degustazione

Caluso Spumante DOCG “1968” 2015 – Orsolani Vini
60 mesi sui lieviti, erbaluce in purezza allevato con topia canavesana. Colore giallo di ottima intensità, una spiccata nota di agrume (bergamotto e cedro) e di erbe aromatiche, camomilla, uva spina. Florealità bianca (zagare, tiglio, gelsomino) su uno sfondo leggermente balsamico. La bollicina è fine, e la nota agrumata ritorna anche al palato. Persistenza sapida su uno sfondo lievemente ammandorlato. Grande piacevolezza di beva.

Caluso DOCG Primavigna 2020 – Cantine Crosio
100% erbaluce da criomacerazione, con 8 giorni in cella frigo a grappolo intero; fermentazione e affinamento in acciaio. Al naso erbe aromatiche, note di macchia mediterranea, camomilla, melissa, timo limonato, lieve sfondo di balsamicità, agrume lievemente candito. Freschezza importante che produce salivazione abbondante, beva dissetante.

Caluso DOCG 13 mesi 2020 - Benito Favaro
Fermentazione “pied de cuve” parte in acciaio e parte in pieces, con affinamento di un anno parte in cemento e parte in pieces. Bella nota di balsamicità con florealità bianca (sambuco e acacia) e spezie dolci vanigliate. Leggera nota micro-ossidativa da agrume evoluto. Vino con una bella struttura al palato, con una nota finale quasi di menta e di arancia bionda. La sapidità di questo vino è evidente. Elevata personalità.

I viniColline Novaresi bianco 2018 - Lucino
Vino al di fuori della DOCG, con allevamento a guyot e fermentazione e affinamento in acciaio per 5 mesi. Il frutto appare al naso e al palato leggermente surmaturo, caratterizzato da una leggera nota ossidativa. Pesca e fiori gialli si fondono su note di mela cotognata. La sapidità è intensa e di elevata persistenza, con una nota amaricante finale e di oli essenziali da buccia di mandarino.

Caluso DOCG Autoctono 2018 – Bruno Giacometto
Criomacerazione a grappolo intero per 4/5 giorni a 3 °C; macerazione pellicolare in pressa stagna per 18-24 ore, quindi sgrondatura (l’uva non viene pressata). Fermentazione spontanea con lieviti indigeni in acciaio, affinamento su fecce fini con batonnage per 6-8 mesi prima dell’imbottigliamento. Si tratta sostanzialmente di mosto fiore. Nel complesso il vino appare più giovane rispetto al precedente nonostante l’annata sia analoga: sentori accesi di erbe aromatiche (artemisia, timo), con una spiccata nota agrumata. Frutto giallo da albicocca e susina con una scia sapida importante.

Caluso DOCG Vino Bianco Ingenuus 2019 - Ciek
È un vino bianco realizzato come un vino rosso, secondo la tradizione contadina del luogo: macera infatti 6 giorni sulle bucce e affina due anni in botti di rovere, senza filtraggio. Le note di macerazione sono importanti, con rimandi a erbe officinali e spezie quasi esotiche (cardamomo e anice) e ricordi di burro zuccherato. Al palato una bellissima acidità, leggero grip tannico perfettamente integrato nel sorso. Molto pulito, agrume candito, nota di liquirizia, nocciola, anice.

Caluso Passito Riserva DOCG 2004 - Podere Macellio
Le uve sono lasciate in appassimento per 5-6 mesi nei sulé (solai), su stuoie: la fermentazione lenta avviene in piccole botti di legno da 3,5 ettolitri; maturazione per 12 anni in legno. Frutta secca disidratata tra albicocche, fichi e datteri, erbe aromatiche e una sapidità sorprendente. Anice sul finale, beva tesa e vibrante.

Caluso Passito Riserva DOCG 1994 - Carlo Gnavi
Appassimento nei sulé con fermentazione in acciaio e maturazione per 15 anni in cemento. 28 anni e non dimostrarli (né sentirli): un vino autunnale dalle tonalità tra oro rosa e rame con una luce straordinaria. Funghi, caldarroste, farina di castagne, caramello, note da vulcanizzazione e di fichi al forno, balsamicità da ago di pino e resina, finale di melata di bosco. Una freschezza infinita, un vino prezioso.

Viaggio terminato, sensazioni e ricordi che restano: luce, eleganza e bellezza. La notte è avanzata ma tinta di bianco. L’erbaluce, di cui Francesco è dichiaratamente innamorato, fa miracoli.