Bordeaux, un viaggio tra storia, appellation e grandi vini

Racconti dalle delegazioni
02 novembre 2023

Bordeaux, un viaggio tra storia, appellation e grandi vini

Armando Castagno, ospite di AIS Bergamo, ha parlato di vino, storia, geologia, filosofia e poesia, componendo un affresco che ha illustrato uno dei territori più blasonati, ma non per questo sufficientemente trattati, della viticoltura mondiale.

Giuseppe Vallone

Sala ariosa e ben illuminata, due grandi schermi accesi e connessi: così AIS Bergamo si è organizzata per ospitare una serata speciale; così Armando Castagno, l’ospite atteso, si è a sua volta preparato per intavolare un racconto lungo, fitto, articolato eppure sempre leggero. Una narrazione che, attraverso la degustazione di 8 vini, ha restituito un abbraccio di ampio respiro di altrettante Appellation d'origine contrôlée, la disamina dei principali caratteri dei vini della Rive Gauche e della Rive Droite, e un esaltante epilogo nel Sauternais.

1. Pessac-Léognan AOC – La Chapelle de La Mission Haut-Brion 2019

L’Appellation

Pessac-Léognan si sviluppa a sud di Bordeaux e, in parte, entro il suo tessuto urbano, in quell’areale vocatissimo che sono le Graves, costituito da uno spesso strato di pietre e ciottoli (di qui il termine) poggiato su un’antica placca calcarea. Nonostante comprenda alcuni dei vigneti più antichi di Francia, è stata istituita soltanto nel settembre 1987.

Estesa su 1.580 ettari vitati in 10 Comuni, vede operare al suo interno 70 viticoltori, con una produzione annua di 8,2 milioni di bottiglie.

Dal punto di vista geologico, terreni magri e particolarmente drenanti, uniti all’effetto di regolatore termico svolto dalla Garonne, favoriscono vitigni come merlot e cabernet sauvignon. Ne nasce un vino che ha una fisionomia classicamente identificabile in «potenza, calore e avvolgenza, con tipiche note di tabacco, acidità calibrate e un certo vigore tannico».

Lo Château

Risalente alla seconda metà del XVI secolo, La Mission Haut-Brion deve la prima parte del suo nome alla “Congregazione della Missione” dei Padri Lazzaristi, che fu proprietaria della tenuta – oggi estesa su 25,5 ettari vitati – dal 1664 sino alla Rivoluzione. Nel 1983 è stata acquistata dalla famiglia Dillon, già proprietaria di Haut-Brion, che si stende dall’altro lato della strada: due tenute che, da allora, viaggiano in parallelo.

Con una superficie vitata oggi pari a 25,5 ettari, La Mission Haut-Brion è Cru Classé de Graves per il suo rosso dalla creazione della classificazione dei vini della regione nel 1953.

Il vino

50,1% merlot, 45,5% cabernet sauvignon, 4,4% cabernet franc. Maturazione per 20 mesi in barrique nuove per il 28%. è il Second Vin dell’azienda.

Il naso si presenta con un frutto scuro ancora croccante, seguito da spezie dolci perfettamente fuse con quelle più puntute; seguono poi accenni floreali e vegetali, un ricordo di cioccolato al latte e, sullo sfondo, crema pasticcera con gocce di distillato e un’innegabile grafite, che tornerà anche in retrolfazione. Il legno è impercettibile e, come vedremo, sarà una costante di tutti i vini in degustazione, perché – con parole di Armando che non possiamo che sottoscrivere - «il legno è un contenitore, e il contenitore non si deve sentire».

L’assaggio approccia con fare morbido e si sviluppa nel segno dell’eleganza e della sobrietà, «senza la profondità del Grand Vin aziendale» ma con un tannino di grande qualità e una «sapidità debordante» a cui fa da contrappunto lo sviluppo con un registro caldo. 

Vino di grande finezza, che rende evidente il «perfetto grado di maturità delle uve».

2. Margaux AOC – Château Cantenac Brown 2017

L’Appellation

Margaux deve il suo nome all’omonimo Château, caso piuttosto raro nel bordolese, ed è la più meridionale, calda e precoce delle Appellation del Médoc.

Distante una trentina di chilometri da Bordeaux, sviluppa in poco meno di 6 km, sul territorio amministrativo di 5 Comuni, 1.355 ettari vitati, sui quali si rinvengono 67 viticoltori produttori in proprio. Sono 9 milioni le bottiglie che rivendicano l’appellazione comunale ogni anno.

Volendo tratteggiare la fisionomia classica del vino di Margaux, Armando premette la corretta definizione di terroir, che va inteso come «uno spazio geografico delimitato nel quale una comunità umana ha costruito nel corso della sua storia un sapere collettivo fondato su un sistema di interazioni tra un mezzo fisico e biologico e un insieme di fattori umani e sociali. Gli itinerari così messi in gioco rivelano una originalità, delineano una tipicità e sfociano in una reputazione per un qualsiasi bene originario di quello spazio geografico». 

La definizione è capitale per comprendere i caratteri di «estrema finezza, raffinata eleganza ai profumi e morbido e misurato sviluppo gustativo» che rendono il vino di Margaux una sorta di Chambolle-Musigny del bordolese, così lontano dalla pur confinante Saint-Estéphe. Si tratta infatti di due comunità umane diverse, che hanno voluto nel tempo declinare sé stesse nei caratteri del vino da loro prodotto: tanto il Saint-Estéphe si presenta dunque come un vino «vigoroso, gagliardo, serrato e compresso», quanto il Margaux fa sfoggio di sé in modo «sinuoso, sensuale, delicato, graduale e sobrio». 

Lo Château

Fondato nel 1820 circa dallo scozzese John Lewis Brown, Château Cantenac Brown si sviluppa su 61 ettari vitati, dominati dal castello in stile Tudor che la famiglia rivendica oggi come la «proprietà più emblematica della regione che sigilla la tenuta con il timbro scozzese del Clan Brown». 

È Troisième Cru Classé secondo la famosa classificazione del 1855.

Il vino 

67% cabernet sauvignon, 33% merlot. Maturazione per 17 mesi in barrique nuove per il 60%

Il quadro olfattivo pare colto direttamente sull’estuario, tanto è immediata la nota fluviale di alghe e terracotta, a cui seguitano affreschi fruttati e di un vegetale rassicurante. 

L’assaggio chiama la tavola autunnale, con un tannino non timido ma di grande qualità, uno sviluppo intensamente lineare e una lunga e complessa persistenza.

3. Saint-Julien AOC - Château Léoville-Barton 2017

L’Appellation

Distante poco meno di 50 km da Bordeaux, questa Appellation si sviluppa attorno all’eponimo centro di Saint-Julien Beychevelle, area particolarmente vocata per il cabernet sauvignon nonostante qui il vino si faccia soltanto da epoche piuttosto recenti rispetto ad altre zone del bordolese e di Francia (lo sviluppo vitivinicolo risale infatti al 1670).

Sono 908 gli ettari vitati da 22 viticoltori, per una produzione annua di 6 milioni di bottiglie.

Armando inquadra il vino di Saint-Julien come «armonioso e disteso, con note “marine” in bouquet eleganti e sfaccettati e una grande freschezza di sapore».

Lo Château

Fondato da Thomas Barton nel 1722, Château Léoville-Barton ha attraversato tre secoli ininterrotti di storia senza particolari eventi traumatici, potendo godere dell’impagabile stabilità data dall’appartenere alla medesima proprietà da almeno 200 anni.

Per Armando, dati i caratteri del vino di Saint-Julien di cui si è appena scritto, quello proposto da Léoville-Barton ne è espressione fedele e archetipica.

È Deuxième Cru Classé.

Il vino 

93% cabernet sauvignon, 7% merlot. Maturazione per 18-20 mesi in barrique nuove per il 66%. 

«Naso interlocutorio e bocca che va da tutte le parti, è uno dei grandi vini di Bordeaux»: così esordisce Armando nella degustazione di questo vino. In effetti, la complessa massa odorosa restituisce una fotografia che è «un pozzo nero» di profumi compressi, che vanno dalla nota cuoiosa a quella lacustre dell’alga, alla salicornia e al tabacco. 

«è talmente giovane che va valutato in bocca» e dunque lo assaggiamo, trovandolo scintillante, senz’altro in divenire ma con un tannino che già ora dona un’astringenza nobile e per nulla disseccante, che chiama selvaggina in casseruola. Seppur aromaticamente avaro, ha una grande tattilità che culmina in una chiusura mentolata e rinfrescante, propria dei vini di Saint-Julien.

4. Pauillac AOC – Château Pontet-Canet 2020

L’Appellation

Sono 54 – di cui 33 imbottigliano in proprio – i viticoltori che si occupano del giardino vitato di Pauillac, esteso su circa 1.213 ettari. Una denominazione, questa, che a partire dal Settecento è divenuta vero e proprio faro del Médoc, e che oggi immette sul mercato ogni anno 8 milioni di bottiglie di vino.

I suoli sono costituiti da una distesa di sabbie fini e ghiaia, particolarmente drenanti, mentre sono esclusi dall’AOC i terreni di formazione alluvionale più recente. 

I Crus Classés, secondo la classificazione del 1855, a Pauillac sono 18, compresi tre dei cinque Premiers Grands Crus Classés (Lafite-Rothschild, Latour e Mouton-Rothschild): testimonianza, se mai ve ne fosse bisogno, dell’intramontabile blasone di pura nobiltà che accompagna l’Appellation.

Come di consueto, volendo tratteggiare una fisionomia classica del vino di Pauillac, Armando lo definisce «archetipo mondiale di classe e complessità, ma anche di energia, pur in strutture monumentali».

Lo Château

La tenuta risale al 1725 e venne eretta da Jean François de Pontet, Grand Scudiere di re Luigi XV e all’epoca Governatore Generale del Médoc. 

Nella classificazione del 1855 venne qualificato come Cinquième Cru Classé, una collocazione che – sin da allora – è apparsa stretta per uno Château che si è sempre mostrato di stoffa differente rispetto ai pari categoria (e non solo). A ulteriore conferma stanno, in tempi recenti, la conversione completa al biodinamico – completata nel 2008 – e un’innovazione stilistica fatta di cura del dettaglio e continua «sottrazione di peso nella salvaguardia della struttura».

Il vino

65% cabernet sauvignon, 30% merlot, 4% cabernet franc, 1% petit verdot. Maturazione di 18 mesi per 2/3 in barrique nuove al 70% e per 1/3 in anfora.

Cornice olfattiva densa, nient’affatto pesante, di frutto scuro, fiori recisi, tè e una rinfrescante e complessa nota vegetale. Armando lo definisce il Pauillac con «il frutto più nitido di tutti» grazie all’affinamento in anfora.

L’assaggio ha «un tono sanguigno, denso, eppure mai pesante», ha acidità e corroborante freschezza, ancora grazie all’uso della terracotta. È un vino che «si sente, con una persistenza propria del Pauillac». Molto giovane, è un vino che oggi mostra in filigrana un potenziale evolutivo «sulla finezza, sulla tisana, sul tè, sul floreale e nel caso sul goudron, ma non sull’ossidazione o sulle dolcezze».

5. Saint-Estéphe AOC – Château Cos D’Estournel 2017

L’Appellation

Caposaldo della viticoltura bordolese e con proprietà fondiarie che risalgono al XIV secolo, Sant-Estéphe ha beneficiato dell’importante attività promozionale svolta dai négociants bordolesi nel corso dell’Ottocento. L’Appellation insiste su un sottosuolo calcareo specifico dell’areale, sopra il quale si trovano sabbie di diversa granulometria con inserti di ciottoli, silici e quarzi di origine fluviale.

Posta a circa 60 km da Bordeaux, l’AOC si svolge oggi su 1.229 ettari vitati e sono 76 i viticoltori che producono in proprio. 8 milioni di bottiglie annue.

Il vino di Saint-Estéphe, ci dice Armando, è riconoscibile dalla «grande nobilità e dalla sua austerità, con un profilo floreale e intensamente minerale, sapido, profondo, persistente e longevo».

Lo Château

«Anima e caposaldo» dell’Appellation, ha un nome che riassume l’eccezionalità di un terroir «decrittato dall’uomo». Armando ci spiega infatti che “Cos” sta per “mucchio di sassi” ed è il toponimo di un luogo vocato in quanto asciutto; “Estournel”, invece, evoca Louis-Gaspard d’Estournel, colui che sviluppò la viticoltura e la splendida architettura della tenuta nel nome del gusto dell’epoca, soltanto successivamente storicizzato come “orientalismo”. Passato di mano varie volte dalla metà dell’Ottocento, Cos D’Estournel è oggi di proprietà di un magnate del settore alberghiero.

Il vino

75% cabernet sauvignon, 23,5% merlot, 1,5% cabernet franc. Maturazione di 18 mesi in barrique nuove per il 70-75%.

Profondo, intenso, emerge nitida la seducente nota floreale di rosa rossa: per Armando, «uno dei nasi più belli di Bordeaux, più profumato e meno compatto dei precedenti». Il cabernet sauvignon qui trova una particolare messa a fuoco.

In bocca la materia è dipanata, meno compressa, tale da echeggiare un pinot noir di Borgogna. Il tannino è ottimo accompagnatore, senza astringere. 

6. Pomerol AOC – Château Clinet 2018

L’Appellation

Appellation che è vera e propria leggenda del vino mondiale, rischia di passare sottotraccia una volta che vi troviate in loco: «qualche casa in un mare di vigne», nessuna opulenza costruttiva come invece se ne trovano sulla sponda opposta della Gironde. Anche questo aspetto, non certo l’unico né il prioritario, denota una diversa essenza tra la Rive Gauche vista finora e ora abbandonata, e la Rive Droite, sulla quale siamo giunti.

785 ettari vitati, 137 viticoltori che producono in proprio, 4,3 milioni di bottiglie l’anno: numeri che raccontano solo in frazione l’eco mondiale che promanano i vini di Pomerol. Elemento dirimente è il terroir che, nelle aree più vocate costituite da dolci rilievi, si declina in argille azzurre ferruginose e suoli sassosi, e restituisce «merlot eroici, di classe, densità, espressività e potenza».

Lo Château

Armando ci racconta dello Château Clinet come di uno dei pochi possedimenti della Rive Droite, che, al tempo della classificazione del Médoc, aveva già storia e fama. Fondato nel 1785, quando vennero impiantati i vigneti, entrato nell’Ottocento nel patrimonio dei Constant – che già possedevano il vicino Petrus - Château Clinet avrebbe probabilmente meritato un blasone come quello riconosciuto nel 1855 ai dirimpettai di riva sinistra, ma all’epoca era troppo esiguo il peso dei possedimenti del Libournais per poterne includere qualche sporadica realtà.

Ciò detto, lo Château, dopo alcuni passaggi di proprietà, fu per circa 90 anni della famiglia Audy, che contribuì a renderne celebri i vini. Lo fecero con uno stile che, però, è oggi profondamente diverso da quello abbracciato da una ventina d’anni a questa parte dall’attuale proprietà (la famiglia Laborde), che ha apportato alcuni cambiamenti non irrilevanti, primo tra tutti il sensibile aumento del merlot vitato, in accordo a un terroir che sembra essere il suo vestito ideale.

Il vino

90% merlot, 9% cabernet sauvignon, 1% cabernet franc. Maturazione di 18 mesi in barrique nuove per il 60%.

Profumi accomodanti, sul frutto e con un’espressiva pennellatura balsamico-vegetale. 

In bocca è tanto glicerico da far sorgere il dubbio che sia amabile, ciò nonostante è intenso, lungo e – soprattutto - «tende a divertire». 

7. Saint-Émilion AOC – Château Troplong-Mondot 2018

L’Appellation

Patrimonio UNESCO dal 1999, Saint-Émilion è un paese di circa 2.000 abitanti consacrato interamente alla viticoltura (e al turismo). A farla da padrone è il merlot, come a Pomerol; qui, però, v’è da segnalare l’importanza del cabernet franc (localmente chiamato “bouchet”), che trova caratteri tali da esprimere alcuni degli «esiti più straordinari al mondo».

Dal punto di vista geologico, si possono individuare nell’areale un plateau e delle coteaux: il primo caratterizzato da argille compatte, le seconde da un’imponente placca calcarea che spiega il perché delle numerose cave che sono state aperte nel tempo.

Per Armando, i vini di Saint-Émilion sono «estroversi, aromatici, di estrema finezza al sorso, con acidità rinfrescante e uscita “minerale”».

Lo Château

Risalente al 1850, il fondo è a lungo appartenuto all’Abate di Sèze, anche se furono i Troplong i primi a impiantare vigna. Sulla collina di Mondot (106 m s.l.m.), l’area più elevata dell’intera Appellation e una delle più solatie dell’intero bordolese, si squadernano i 26 ettari della tenuta, oggi di proprietà di un gruppo assicurativo.

È Premier Grand Cru Classé.

Il vino

85% merlot, 13% cabernet sauvignon, 2% cabernet franc. Maturazione di 15 mesi in barrique nuove per il 75%.

Il calice evoca reminiscenze di bacche di mirto e di un tocco flambée, nonostante l’impercettibilità di un legno usato magistralmente. 

All’assaggio ha estratto, potenza pseudo calorica e un’acidità sostenuta, che guida la beva dal principio alla fine.

 8. Sauternes AOC – Château La Tour Blanche 2016

L’Appellation

Congedati i vini rossi, ci apprestiamo a salutarci anche noi degustando un totem della viticoltura d’Oltralpe. Istituita nel 1936, l’AOC Sauternes comprende cinque Comuni – oltre all’eponimo, abbiamo Barsac, Bommes, Fargues e Preignac – per una superficie vitata complessiva di 2.760 ettari. Sono 132 i viticoltori che producono in proprio, 3,9 milioni le bottiglie.

Geologicamente, si trovano suoli sabbiosi e ciottolosi sopra un banco di calcare fessurato e permeabile. Legislativamente, invece, il disciplinare – piuttosto rigido – impone rese di massimo 25 hl/ha e considera a maturità sufficiente per l’ottenimento di un Sauternes un mosto che misuri almeno 221 g/l.

La magia di questo vino, per Armando, sta nella non spiccata dolcezza («il Sauternes deve essere amabile») affiancata da «freschezza a volte dilagante e dal nobile contribuito della botrytis» che, in tempi di riscaldamento climatico, non è così scontato riuscire a ottenere neanche in un terroir storicamente ad essa legato.

Lo Château

Storia curiosa, quella di Château La Tour Blanche, legata a personaggi istrionici, a partire da un non meglio precisato Monsieur de Saint-Marc (che a metà Seicento acquistò il fondo e vi fece costruire la torre bianca oggi nel nome aziendale), per arrivare a Daniel “Osiris” Iffla, ebreo marocchino che con la dote della moglie – ereditiera cattolica francese – rilevò la proprietà e, in punto di morte, la donò allo Stato, a condizione che ne venisse fatta una scuola agraria, quale oggi ancora è.

Premier Cru Classé.

Il vino

80% semillon, 10% sauvignon blanc, 10% muscadelle. Resa di 11 q/ha (dato 2018), vendemmia scalare in quattro passate fino al 5 novembre. Maturazione di 17 mesi in barrique nuove.

Oro brillante al calice, naso estroverso e articolato, di frutta disidratata e ananas sciroppata, di mantecatura al formaggio e zafferano, con una vaga e stuzzicante pungenza eterea. 

L’assaggio conferma l’anima «sorvegliata e micrometrica» di questo Sauternes (anche complice la genesi nel contesto di una scuola agraria): in effetti è amabile, nient’affatto eccessivamente zuccherino, e di una freschezza sottile ma elastica, che segue la beva sorreggendola perfettamente e contribuendo a lasciare pulita la bocca. Persistenza fuori scala.

Oltre tre ore di seminario sono letteralmente volate, e non ce ne stupiamo. Armando ci ha coinvolto in un frastagliato racconto di Appellation, terroir, storia, aneddoti ed etichette che ci ha arricchito quanto – se non più – degli straordinari vini degustati. Otto attori di pregevole fattura, fedeli interpreti delle diverse facce di Bordeaux.