Château d’Yquem, il libro che ne ripercorre la leggenda

Ha scelto AIS Milano, la giornalista e scrittrice Cinzia Benzi, per presentare il suo libro dedicato a uno dei più grandi monumenti della viticoltura d’Oltralpe. Ad accompagnarla, Lorenzo Pasquini, direttore operativo di Château d’Yquem e il sommelier Davide Garofalo.

Giuseppe Vallone

Scrivere di Château d’Yquem è difficile, in tanti lo hanno già fatto e senz’altro lo stanno facendo proprio ora, mentre leggete queste righe. Ripetersi, dunque, è quasi inevitabile, se non adottando un escamotage tanto semplice quanto non proprio alla mano: bevendolo, degustandolo, lasciando che questo totem del vino francese segni indelebilmente le papille gustative ed entri, con graziosa possenza, in un armadio dei ricordi gusto-olfattivo che, dal giorno dopo, invocherà un trasloco per assenza di spazio.

Cinzia Benzi e Lorenzo PasquiniQuesto ha fatto Cinzia Benzi nel suo libro dal titolo “Château d’Yquem”, arricchito dalle belle fotografie di Francesca Brambilla e Serena Serrani (Seipersei, 2023). Una lettura scorrevole, ricca di preziose testimonianze raccolte durante innumerevoli viaggi in Francia, e altrettanto abbiamo fatto noi, abbandonandoci alla degustazione guidati dai sensi amplificati di Davide Garofalo.

«Yquem nasce da sémillon e sauvignon, in rapporto di ⅔ e ⅓» ci spiega Lorenzo Pasquini, direttore operativo dell’azienda francese. «La nostra vinificazione è probabilmente la più semplice che si possa immaginare nel mondo dei grandi vini. Il reale agente di trasformazione dell'uva, il “vero enologo”, è la muffa nobile. A noi è richiesto di selezionare il grappolo in base allo sviluppo della muffa e, se lo facciamo correttamente, dopo ci possiamo permettere il lusso di avere una vinificazione molto semplice». «L’uva», continua Pasquini, «viene portata in cantina e pressata, quindi lasciata per 12 ore in un piccolo tino a chiarificarsi staticamente. Successivamente, la fermentazione alcolica e l’affinamento di 24 mesi avverranno in barrique di rovere francese nuove».

Quanto ai lieviti, Lorenzo Pasquini afferma che la scelta di quelli indigeni è legata a ragioni puramente tecniche, in quanto «è indispensabile che la fermentazione cominci e finisca naturalmente in modo da non dover intervenire al momento del mutage», vale a dire il momento in cui si stabilizza il vino dolce, con la definizione del suo residuo zuccherino e della quantità di alcol svolta. «Cerchiamo di raggiungerlo senza dover interrompere il processo fermentativo, tendendo ad arrivare al momento in cui i lieviti smettono da soli di fermentare». Per questo motivo, «i lieviti spontanei sono molto interessanti» e intorno ai 13-14 °C fermano il loro processo fermentativo e ci permettono di non dover mutare permettendoci di stabilizzare con molta meno solforosa» (250 mg/L contro un limite legale di 400 mg/L), preservando così la nitidezza aromatica.

Oggi Château d’Yquem conta 100 ha vitati tutti intorno alla proprietà, dai quali ricava una produzione annua compresa tra le 60.000 e le 100.000 bottiglie.

La degustazione

Sauternes AOC Premier Cru Supérieur 2021

La 2021, che Lorenzo Pasquini ha voluto presentare, in anteprima, alla platea di AIS Milano, «è un’annata per noi molto importante perché particolarmente rappresentativa di eccessi climatici come gelo primaverile, grandine e peronospora, fortunatamente mitigati da un’estate secca con temperature basse e da una seconda metà di settembre senza piogge né eccessiva umidità, condizioni che hanno favorito la corretta formazione della muffa nobile».

La botrite, infatti, «ha bisogno di due condizioni quasi opposte: di un’immancabile umidità, per permettere al fungo di contaminare l'uva e, al contempo, del tempestivo arresto dell’azione fungina quando questa è al suo massimo sviluppo, attraverso l'azione del vento e del sole». Durante la tarda estate e l’inizio dell’autunno del 2021, in Château d’Yquem si è avuta la fortuna, così la definisce Lorenzo, di poter contare su 17 giorni di tempo ideale, che ha consentito di poter selezionare, a scalare, ogni parcella al momento giusto. «È un'annata nata, in un certo senso, sotto una buona stella» chiosa Pasquini «ed esprime l'idea che noi abbiamo dell'equilibrio e del gusto di Yquem».

Avvicinando il calice al naso, guidati dall’esperienza dei nostri ospiti e di Davide Garofalo, è immediata la percezione di profumi freschi di mango e ananas non maturi, cardamomo e pepe bianco, menta bianca, felce e mughetto, ai quali seguono mandarino e pompelmo (la cui nota amara, già percepibile al naso, «è un timbro specifico di questa annata», osserva Lorenzo). L’assaggio è persistente ed equilibrato, dove per equilibrio deve intendersi, ci dice Pasquini, «la capacità delle varie dimensioni gustative di poter giocare tutte insieme senza che una sovrasti l'altra», dunque «trovando leggerezza nelle annate potenti e intensità in quelle delicate». Quanto alla lunghezza del sorso, «a noi piace dire che il vuoto dopo il sorso di Yquem è ancora parte di Yquem».

Perfetto esempio di gioventù, questo primo vino in degustazione è particolarmente didattico perché, come annota Davide Garofalo, «permette di cogliere aspetti, come la dimensione fresca e tropicale, che probabilmente in un momento di media età o di età più avanzata evolvono in modo assoluto e, ciò nonostante, o grazie proprio a questo, il vino risulta già assolutamente godibile e dall’interpretazione elastica e versatile».

Equilibrio e persistenza, dunque, i due punti nodali per la degustazione di questo vino, basati sulle dimensioni della dolcezza (in questo caso di 148 g/L  anche se «non è la quantità di zucchero a definirlo, ma la sua qualità e il modo in cui è integrato complessivamente nel gusto del vino») resa invisibile e dinamica dal connubio di acidità e sapidità, e della dimensione amara («molto più bitter-sweet, amaro-dolce, che acido-dolce») che definisce la bevibilità del vino.

«Il nostro obiettivo», conclude Lorenzo Pasquini, «è rendere lo zucchero, per così dire, etereo, e la dimensione amara ci aiuta moltissimo in questo. Non un amaro vegetale, di genziana, ma quell’amaro di agrume che riporta all’idea del pompelmo percepito al naso».

Volendo immaginare un abbinamento, incalzati da Cinzia Benzi che spinge affinché si esca dal solito cliché del vino dolce condannato ad abbinarsi per concordanza con un dolce, Davide Garofalo immagina questo Yquem 2021 come aperitivo con le olive, mentre Lorenzo Pasquini evoca le poulet du dimanche, il pollo arrosto con le patate di tipica tradizione francese.

Sauternes AOC Premier Cru Supérieur 2006

La 2006, annota Lorenzo Pasquini, «è stata un’annata un po’ dolorosa, segnata da una fortissima presenza di marciume acido, che è il principale nemico per la produzione di vini da muffa nobile. Abbiamo lasciato tantissima uva in vigna (circa ⅔ dei 100 ha aziendali), selezionando soltanto quella sana e perfettamente integra, quasi tutta dalle nostre parcelle su terreni argillosi». La rigorosa scelta delle uve, che ha portato in quest’annata a un rapporto di un bicchiere per pianta, è da sempre uno dei caposaldi di Château d’Yquem, «perché se apriamo la porta alla semplificazione, corriamo il rischio di portare impurità in cantina e quindi rendere meno nitido il quadro aromatico-gustativo del vino».

Davide Garofalo osserva che questo Yquem 2006 ha una «grande, assordante, luce gustativa che domina i primi sentori agrumati», che spaziano dalla marmellata di arance al mace d’olio d’agrume, fino ancora all’arancia sale e olio. Note che si sommano ai profumi di pistilli di zafferano, di miele d’acacia, di pepe verde e alloro, questi ultimi a denotare una piccantezza e un lato amaro che sono propri tanto della botrite quanto dell’affinamento in legno. In bocca il vino ha una «merlettatura sapido-amara sulla quale si innerva l’intera impalcatura gustativa» caratterizzata da una leggera affumicatura in chiusura di assaggio.

Abbandonata la dimensione di frutta fresca del vino precedente, i sentori olfattivi e gustativi di questo 2006 hanno insomma segnato ineludibilmente l’inizio del nostro viaggio nel tempo.

Sauternes AOC Premier Cru Supérieur 1990

La 1990, con la sua opulenza, fa parte di un triennio magico per Yquem, con la freschezza della 1988 e il perfetto equilibrio della ’89. L’annata fu caratterizzata da 17 giorni di vendemmia ininterrotta, durante i quali vi fu sole e grande maturità di frutto. La produzione che, come detto, si attesta mediamente tra le 60 e le 100 mila bottiglie sui 100 ha di vigneti, quell’anno superò il tetto massimo.

Davide Garofalo, avvicinando il calice alla bocca e prendendone un sorso, esordisce definendo l’Yquem 1990 come «puro velluto tattile, un calice sinestetico legato alla cifra stilistica del caramello e del toffee, che si concede, però, anche alla meta cotogna e ad ammiccanti accenni di Calvados». Sublime la sapidità e la tensione tattile del sorso che si sviluppa e si chiude attorno al mou, alla noce e alla frutta disidratata. Letteralmente infinito nella sua persistenza, sventaglia un’ampia scelta di abbinamenti gastronomici: dal sushi e sashimi indicati da Cinzia Benzi, alla ventresca di tonno, al filetto di kobe, al caviale, alla bottarga e financo al fois gras per Lorenzo Pasquini, senza dimenticare lo sterminato mondo sensoriale di formaggi come Roquefort, Stilton e Gorgonzola, ci ricorda Davide.

Bordeaux AOC Supérieur Ygrec 2021

«In Château d’Yquem», spiega Pasquini, «non abbiamo un secondo vino, abbiamo un “altro” vino, che non è il frutto di una viticoltura specifica, di un terroir particolare o di una zona dell'azienda, ma è un'altra interpretazione delle stesse piante e degli stessi suoli da cui nasce Yquem». In sostanza, prima della vendemmia delle uve destinate all’Yquem, al picco della loro maturità tecnologica e comunque all’inizio dello sviluppo della botrite, «diradiamo le piante di uno o due grappoli al massimo, come se fosse una vendemmia verde». E se per l’Yquem l’uvaggio prevede ⅔ di sémillon e ⅓ di sauvignon, in questo caso la proporzione è invertita.

L’obiettivo di questo vino, nato nel 1959 ma soltanto dal 2004 prodotto con cadenza annuale è, come detto, quello «interpretare diversamente lo stesso spartito, come se stessimo suonando la stessa composizione con un altro strumento»: l'idea, quindi, non è di fare un vino bianco tout court, ma di farne uno che «porti con sé una forte firma stilistica legata viticoltura da vino liquoroso». Dunque, un bianco che nasce da uve con rese bassissime, esposte al sole, molto concentrate, e dove il sémillon leggermente botritizzato accompagna un sauvignon fresco; un vino che vuole richiamarsi alla voluttuosità e all’opulenza, e perciò esce sul mercato con un residuo zuccherino di 7 g/L che, lungi dall’apportare dolcezza alla beva, deve anzi dotarla di una componente «grassa, gustosa in mezzo al palato».

La descrizione, Lorenzo Pasquini la fa mentre noi ci lasciamo sorprendere dal calice: mandarino cinese, pesca bianca, kiwi acerbo, seltz, una «freschezza elettrica» per voler stare nelle parole di Davide Garofalo, anzi addirittura «”fotovoltaico”, perché quella luce che ha catturato la ritrasmette e la ripropone in energia, in un cortocircuito corroborante che irrora le mucose gengivali». Abbinamenti perfetti, per i nostri ospiti, sono l’anatra, una bella e semplice sogliola alla mugnaia, il risotto con le capesante.

Una degustazione stellare, un vero e proprio viaggio nel tempo. Le parole scritte vogliono dire tanto, e per questo ringraziamo il contributo sostanziale dato al mondo di Yquem da Cinzia Benzi con il suo libro, ma la degustazione in verticale di tre annate di questo splendido vino, e della diversa interpretazione che è l’Ygrec, è davvero insuperabile per chi voglia avere un punto di riferimento nel mondo dei vini da muffa nobile.