Cinema, vino, cibo. Incontri tematici e sensoriali. Terza parte

Si conclude il ciclo ideato e condotto da Massimo Zanichelli con una serata incentrata sul cibo nella storia del cinema, in occasione della quale è intervenuto una delle figure di spicco del mondo vitivinicolo oltrepadano: il vignaiolo Andrea Picchioni.

Florence Reydellet

Il cibo è sostanza vitale dell’uomo e non sorprende, pertanto, che sia da sempre stato protagonista anche al cinema: il grande schermo ha raccontato la fame, l’arte di arrangiarsi, i desideri e l’opulenza; ha rappresentato la cucina come luogo degli affetti; ha parlato della globalizzazione che ha snaturato costumi e tradizioni nonché accelerato l’affermarsi dell’agroindustria. Massimo Zanichelli ha ripercorso la tematica del cibo nella storia del cinema, abbinandola a vini rimasti lontani dalle luci della ribalta che però sono la genuina espressione del loro territorio. Alcuni di essi compaiono nel libro Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi (Bietti) che Massimo ha pubblicato nel 2017.

La fame

Temi quali miseria e carestia sono stati parte integrante della storia del cinema fin dai suoi albori. Già nel 1925, La febbre dell’oro di Charlie Chaplin, film simbolo del cinema muto, descrive l’incessante e strenuo bisogno di cibo. Una pellicola che, sebbene permeata di comicità, mostra l’indigenza più nera nell’Alaska della corsa all’oro. I personaggi della scena che abbiamo visionato sono due miseri cercatori, ambedue alla mercé di una fame che li assilla costantemente: li si vede banchettare con una scarpa, rimuovendone i chiodi come fossero le ossa di una gallina e mangiandone le stringhe come spaghetti. In C’era una volta in America (1984), Sergio Leone dipinge, dal canto suo, la povertà nei quartieri bassi della Manhattan degli anni ruggenti. Tenerissima la scena in cui si vede il piccolo Patsy scegliere con grande attenzione una pasta alla panna (pagata con un gruzzoletto di denari) quale futuro pretium sceleris di una prestazione sessuale che il medesimo intende negoziare con la giovane Peggy, una prostituta che vive nel suo casamento. Ma il dolce ha una carica attrattiva superiore al sesso e Patsy, aspettando che Peggy si liberi, cede alla gola e se lo mangia voracemente.

Ad accompagnare il tema della fame, due vini che recuperano la povera e antica tradizione contadina della rifermentazione in bottiglia senza sboccatura.

Col Fondo Giovannin 2017 - Giovanni Frozza
(100% glera)
Sfoggia un paglierino velato (come normalmente ci si aspetta da un vino “col fondo” che contiene lieviti sedimentati non rimossi mediante sfecciatura o sboccatura). Occorre poi aspettare, per rendere merito ai profumi di un vino che Massimo definisce «finto semplice»: dopo la giusta attesa, fiori di campo, lupinella, lievito e scorza di cedro aprono la strada al finocchietto selvatico e alla pesca bianca. L’assaggio restituisce una lama di freschezza e una sapidità calcarea mentre il finale si veste di bianco con fiori di acacia.

Lambrusco di Sorbara DOC Radice 2018 – Paltrinieri
(100% lambrusco di Sorbara)
Splendido rosa tenue, anch’esso leggermente velato. Una successione di marcatori singolari scandisce l’olfatto. Schiude con la fragolina di bosco; in seguito, pervengono il corbezzolo, la rosa canina, il ribes e la violetta. La carbonica come una nuvola, la freschezza viperina e l’impalpabilità del tannino disegnano un palato in perfetto equilibrio. La persistenza gioca sulla scia minerale che conclude il sorso. Un Lambrusco sopraffino.

Il cibo come rappresentazione

I rifermentati in bottiglia erano, come detto, i vini consumati da alcune civiltà contadine, civiltà alle quali l’Italia deve moltissimo: la custodia del paesaggio, la qualità dei cibi, un patrimonio territoriale che ha generato valori culturali ed economici. Tuttavia, dalla metà del Novecento, il tramonto del mondo rurale ha portato a una progressiva omologazione del gusto, nonché all’abbandono (se non al disprezzo) delle tradizioni culinarie più genuine.

Massimo ZanichelliQuesto fenomeno si rinviene puntualmente sullo schermo. Ad esempio, nell’intramontabile Un americano a Roma (Steno, 1954): Nando Moriconi (un istrionico Alberto Sordi) è un giovanotto romano che prova un’infatuazione per gli Stati Uniti e tutto ciò che essi rappresentano a tal punto che la sua ossessione è espatriare oltreoceano. Nel mentre, si esercita negli usi e costumi americani. I minuti più emblematici del film sono quelli in cui Nando, a cavallo su una sedia di paglia, tenta di pasteggiare con cibi da lui definiti statunitensi (un improbabile intruglio di latte, yogurt, marmellata e senape), rifiutando gli italianissimi “maccaroni” e il fiasco di vino servitigli dai genitori. Il pasto - guarda caso - non viene gradito e dopo aver esclamato «Ammazza che zozzeria!», divora i maccheroni: «Maccarone, m’hai provocato e io te distruggo adesso… io me te magno», destinando gli ingredienti dell’intruglio alla disinfestazione dai sorci e dalle cimici.

L’omologazione del gusto va poi di pari passo con la standardizzazione dei prodotti. Emblematica una scena di Casinò, capolavoro di Martin Scorsese del 1995: Sam (Robert de Niro), direttore di un grande casinò di Las Vegas, si accorge che due muffin non contengono la medesima quantità di mirtilli e adirato, va a lagnarsene presso lo chefricordandogli la necessità di avere prodotti identici per tutti i clienti.

Contro le tendenze omologanti sopracitate, si sono dunque erti a difesa delle usanze contadine soggetti che difendono l’unicità del gusto dei prodotti tipici locali contro le produzioni standardizzate. Fra di essi, Lino Maga e Andrea Picchioni, due vignaioli dell’Oltrepò Pavese fedeli al mandato territoriale; due contadini, per l’appunto, impermeabili ai ricatti di un’enologia volta ad annichilire i costumi e l’identità dei luoghi. Andrea Picchioni e il suo enologo Beppe Zatti ci hanno onorato della loro presenza per la degustazione di due rossi oltrepadani briosi.

Da Cima a Fondo 2019 – Picchioni Andrea
(70% croatina, 30% uva rara)
Catturano già l’attenzione luminosi riflessi porpora che intarsiano un saldo colore rubino. Il naso è un vociare fragrante, pervaso di frutto; umori balsamici, spezie nonché un alito etereo che rammenta lo smalto. Bocca splendida per calibro estrattivo. S’indugia nel piacere olfattivo e poi è godimento, con una compiutezza di alcol, tannino, freschezza e sapidità. Finale lunghissimo, scandito da ritorni aromatici di frutta ed erbe officinali. Un liquido magnifico, «in omaggio ai vini briosi della nostra terra».

Barbacarlo 2017 – Lino Maga «o per meglio dire, Maga Lino»
(croatina, uva rara e vespolina miscelati in tradizionale proporzione, come riportato sul cartellino legato al collo della bottiglia)
La recente scomparsa di Lino Maga è stato motivo di forte commozione e di profondo cordoglio. Andrea e Massimo hanno reso omaggio non solo come rappresentanti del mondo enoico ma anche da amici ed estimatori di antica data, a un uomo che ha scritto una pagina indelebile nella storia dell’Oltrepò Pavese.

Rubino smagliante di grande profondità cromatica, espone già alla vista l’esuberanza che contrassegna la sua silhouette organolettica. L’olfatto è inarrestabile, in un crescendo di marcatori sfaccettati: corteccia di china, rosa canina appassita, visciole, liquirizia e anice stellato. Uva, poi, giacché «il vino deve sapere di uva», come rammenta Andrea con le parole di Lino. Al gusto una struttura misurata accompagna una trama tannica perfettamente levigata e procede lungo una persistenza che si dissolve su una scia ammandorlata. Si conferma un fuoriclasse e ci racconta quanto il vino debba anzitutto parlare del suo luogo d’origine e della sua annata.

«Insomma, sui vini pavesi sinceri, si va lisci: e sfido chiunque a dimostrarmi che parlo unicamente per il paìs» come scrisse Gianni Brera (La Pacciada. Mangiarebere in pianura padana, 1973).

Sacro e profano

Nel cinema l’ossessione del cibo è stata anche usata come metafora dell’abbondanza e dell’ingordigia delle nostre società. Notevole esempio è La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri, in cui quattro amici altolocati perdono la voglia di vivere e decidono di salutare questo mondo chiudendosi in una sfarzosa dimora per cibarsi fino alla morte. Profano e nichilista, il film si dispiega come un’interminabile orgia, un baccanale persino sadiano di sesso, banchetti pantagruelici e sfacelo dei corpi. Un’opera sconvenevole - al limite del moralmente accettabile - che però denuncia una borghesia capitalista putrefatta, con la sua opulenza, la sua insaziabilità e la sua vacuità.

I viniProcedendo secondo una logica di contrasti, Massimo Zanichelli ha alternato quelle scene di sesso, cibo e morte con una pellicola che si colloca agli antipodi: Il pranzo di Babette(1987) di Gabriel Axel, tratto dall’omonimo racconto di Karen Blixen. Siamo in un piccolo villaggio della Danimarca di fine Ottocento in una comunità protestante bigotta fino all’inverosimile. Babette Hersand, ex chef francese ammantata di storia leggendaria e sfuggita alla repressione della Comune di Parigi, imbandisce un pasto luculliano: cailles en sarcophage, brodo di tartaruga e blinis Demidoff sono solo alcune delle prelibatezze che essa cucina. Il banchetto preparato da Babette ci insegna che la santificazione della propria anima non avviene tramite la mortificazione del corpo, bensì attraverso il rispetto di esso e le gioie che può procurarci. Chi si nutre di cibo con passione e consapevolezza può riconciliarsi sia fisicamente sia spiritualmente. Nel corso del pasto vengono serviti diversi vini, fra cui un Amontillado bianco ambra e un Clos de Vougeot Grand Cru, presumibilmente del 1845.

Sherry Amontillado VORS 30 years Tradicion – Bodegas Tradición
(100% palomino fino)
Lo Sherry Amontillado è invecchiato sotto flor che viene poi rotta per ottenere una parziale ossidazione. Esibisce un ramato di bella profondità cromatica inciso da screziature mogano. Al corredo olfattivo contribuiscono in baldanzosa successione torba, mandorla tostata, effluvi marini e note di acetaldeidi: pura eleganza che si rincontra anche al sorso. Giunge potente, rafforzato da sapidità e freschezza, però bilanciato dalla morbidezza. Di lodevole persistenza.

Clos de Vougeot Grand Cru 2016 – Domaine de la Vougereaie
(100% pinot nero)
Rubino lucente scarico. Nella variopinta tessitura aromatica si profilano nitidi sentori di rosa, mora di gelso e bastoncini di liquirizia. Assaggio splendidamente rifinito, venato di ragguardevole freschezza, con finale di lunga progressione che lascia emergere chiari ricordi di fieno e mallo di noce. Capolavoro di finezza.

Si conclude così un ciclo che rimarrà impresso nelle nostre memorie visive e gusto-olfattive. Un ciclo che conferma la somma autorevolezza e la grande sensibilità di Massimo Zanichelli a cui va il nostro ringraziamento più sentito.