Conversazioni libere sul mondo del vino: la versione di Manlio

Pensate a una serata tra amici. Si può parlare di vino, di cosa s’intende per tale e confrontarsi su come deve essere prodotto e proposto. Poi le parole lasciamo lo spazio alle degustazioni, il liquido odoroso si esprime e non ci sono più dubbi...

Gabriella Grassullo e Ezio Gallesi

Tutto questo è accaduto all’Infernot Enoteca Degustazione di Pavia, perfetto padrone di casa e cicerone, Manlio Manganaro che oltre a essere un esperto degustatore ha intrapreso da poco la difficile professione di produttore di vino; conduce un vigneto in zona Marsala. Ospite della serata la Delegazione di AIS Pavia, Manlio inizia la conversazione introducendo la distinzione tra due categorie di vini ormai note, almeno per nome, al grande pubblico, i biologici e i biodinamici. 

I vini biologici, dal 2012 certificati, presuppongono un intervento in vigna poco invasivo, uso solo di rame e zolfo, in cantina però si può continuare a utilizzare additivi chimici e molta tecnica enologica. La certificazione, secondo Manlio, non è stata del tutto positiva, perché ha permesso al settore agroalimentare di utilizzare il marchio per puro marketing e non per migliorare la qualità del vino.

La biodinamica invece nasce da un’idea antroposofica del filosofo Rudolf Steiner. In realtà Steiner non parlava di vini ma di agricoltura biodinamica, dove forze tangibili e non tangibili dovevano essere messe in perfetto equilibrio. Dal punto di vista enologico molta attenzione è stata posta alla cura della vigna con l’utilizzo di preparati che portano a escludere anche l’utilizzo di rame e zolfo, sostituendoli con delle tisane omeopatiche o con dei trattamenti dinamizzati. In cantina si possono fare ancora degli aggiustamenti ma c’è molto meno tolleranza all’uso di additivi. Studi hanno certificato proprietà organolettiche superiori dei vini biodinamici rispetto ai convenzionali e biologici. 

Da ormai diversi anni però si sta facendo luce un nuovo modo di fare e interpretare la vitivinicoltura, è nato un movimento di contro cultura verso l’industria agroalimentare e la standardizzazione, un ritorno dell’uomo verso la natura, coltivando e trasformando l’uva in vino, con minimi interventi, in modo semplicissimo, il segreto: avere l’uva più sana e buona possibile.

Diversamente dall’industria, che è solo interessata alle alte rese per ettaro e sfrutta i terreni portando l’ecosistema ad ammalarsi, i vignaioli artigianali liberi, cercando di portare avanti una tradizione, partono da cultivar già presenti in loco e non da cloni selezionati, il non utilizzo di pesticidi, diserbanti, concimi di sintesi e le basse rese per ettaro evitano alla pianta ad andare in stress e ne diminuiscono la possibilità di malattie. Il rispetto del territorio e della pianta si traduce in un minor intervento lavorativo ed economico da parte del vignaiolo. 

Vengono ammessi l’utilizzo in piccolissime quantità di rame e zolfo, preparati, tisane omeopatiche come in biodinamica con lo scopo di portare la pianta in equilibrio per ottenere dell’uva buona, la vendemmia è esclusivamente manuale. 

In cantina il vignaiolo artigiano contrariamente all’industria non usa additivi chimici e lieviti selezionati, è poco interventista, consapevole di avere una buona uva deve solo stare attento a non rovinarla, una fermentazione con lieviti indigeni e una vinificazione attenta porteranno ad avere un prodotto straordinario che leggerà il territorio e l’annata di appartenenza. La sensibilità e la bravura del vignaiolo sono fondamentali per interpretare l’uva e affrontare i problemi delle singole vendemmie. Non esiste un protocollo di vinificazione, tutto è affidato alla conoscenza e al rispetto che il produttore ha verso i frutti della natura e suoi derivati.  

Si potrebbe paragonare il vignaiolo artigiano libero a un equilibrista senza rete, guardando il cielo avanza su un precario filo, che passo dopo passo lo porterà, aiutato dalla sola bravura, alla fine della vendemmia senza poter commettere errori, pena la perdita dell’annata.  

Un buon vino prodotto in assenza di additivi chimici risulta più salubre e in maggior equilibrio rispetto a un vino convenzionale, è come mangiare un frutto appena colto maturo e profumato. 

Si avrà un vino nudo, non mascherato da sostanze che ne modificano l’autenticità, a volte sarà ritroso e inizialmente difficile da interpretare, avrà bisogno di più tempo per aprirsi ma non sarà mai noioso e standardizzato.  

A seguire una sorprendente degustazione alla cieca che ha apportato, alle persone presenti, un’esperienza conoscitiva unica e una nuova consapevolezza sul mondo del vino.        

         

I due vini convenzionali ci hanno dato una bella bevibilità, entrambi di buona fattura; Il Vermentino di Sardegna DOC Cala Reale 2017 Sella & Mosca di paglierino carico, aromi di fiori freschi bianchi e frutta gialla, pesca, buona freschezza e sapidità. Abbinamento: pasta al pesce in bianco. Il Trentino marzemino DOC Mas’Est 2017 Conti Bossi Fedrigotti Masi dalla livrea granata, naso di frutti rossi di bosco, speziato di pepe, asciutto in chiusura, abbinamento: canederli di speck al burro fuso. 

Mentre… è sul pensiero di Eliot “ho pigiato da solo nella pressa, e so che è arduo essere realmente utili”, che nasce la libera degustazione fatta di quelle sensazioni che solo una certa integrità e purezza di frutto ti sanno regalare. Il pensiero comune di questi vignaioli è quello di esprimere e custodire i segreti più intimi del vitigno e del terroir, quindi l’orgoglio di appartenere ad esso e di sapere come interpretarlo nel rispetto della natura. Luce e calore, il Sicilia DOC grillo 2017 di Nino Barraco, un’annata calda che si riversa in un cromatismo luminoso sfumando nei toni dell’ambra, una breve attesa di ossigenazione, poi diventa intrigante in apertura con note di frutta esotica, albicocca, cedro, fieno, macchia mediterranea, cereali; il setoso tannino e la lunghezza in bocca rilassa mente e corpo, suggerito con tonno alla piastra con cipolle. La Venezia Giulia Igp malvasia 2016 di Matej Skerlj sembra fatta in filigrana di un oro velato, austero ed elegante, si apre speziato di anice stellato, sandalo, di accattivante freschezza e sapidità, ti fa sentire in armonia con la natura, da provare con la pastiera napoletana. A seguire il Calabria Igp Cirò rosato gaglioppo 2017 di ‘A Vita, di bella trama, anima espressiva di un territorio, entra al naso salmastro e macchia, lo iodio si fa elegante, sfuma in fiori gentili ma al gusto si fa serio e fermo, la freschezza in finale ti invoglia alla beva. Godibile a tutto pasto.

E finiamo con un vino di incanto esotico Faro Doc 2015 Bonavita dal tono granato, evidenti note sulfuree, gelso e spezie, fumé, seducente al palato, agrumi e note torbate, va atteso con profonda empatia. Abbinamento: piccola selvaggina.