Gravner: la vera rivoluzione non è nell’aggiungere, ma nel togliere
Una linea curva: l’incontro con Mateja Gravner e i vini di suo padre Josko è una serie infinita di punti che si susseguono senza interruzioni, cambiando di continuo direzione.
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Un’alternanza di emozioni e sentimenti a metà tra la ragione e l’onirico, un percorso tra passato e presente per scoprire vini crudi e sinceri, che hanno fatto la storia e aperto il mondo agli orange wine. O vini macerati, come a Josko piace definirli.
Una linea curva che unisce anfore, bicchieri a coppa e il ventre della terra: perché è da lì che tutto ha origine. Una linea curva che altro non è che un abbraccio, e include tutti i presenti in sala. Un filo con due capi, uno nel cuore di Mateja e l’altro tra le mani di Altai Garin che guida la degustazione: Mateja e Altai si conoscono, o meglio, si riconoscono. L’identità è nel rispetto di ciò che si ha nel bicchiere e nell’amore per raccontarlo.
Tutto ha inizio con la storia di un uomo che ha sognato, studiato, percorso strade nuove ed è tornato indietro. E ogni volta è ripartito, con umiltà, coraggio e immensa forza interiore. Ha ammesso i propri errori e vissuto successi. Ha trasmesso tutto questo ai suoi figli e oggi continua a sognare.
Non è semplice raccontare di Josko, forse anche per quella sua naturale ritrosia a parlare in prima persona e a indossare i panni del protagonista. Lo fa Mateja, la figlia che Josko ha avuto a soli 21 anni, e lo fa con amore, sincerità e schiettezza. Non avrebbe potuto farlo diversamente, e l’adagio popolare che vuole che il frutto cada vicino alla pianta non mente mai. Josko è un uomo che fa vino, valorizzando le uve della sua terra, con spazio, tempi e modi della natura, lasciando che le cose accadano. Franco Arminio, poeta del nostro tempo, ha scritto: «oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare». E allora Josko Gravner è un rivoluzionario.
La storia aziendale è lasciata alle parole di Mateja, ed è un racconto di famiglia intriso di tanta saggezza e responsabilità, e della consapevolezza che ogni singola azione impatta inevitabilmente su ambiente e società. L’azienda è biologica e biodinamica e, poiché il peso di un’impronta nel mondo non si misura con una certificazione, ha scelto di non richiederla. «Siamo contadini, e siamo i primi a tutelare l’ambiente. Prenderci cura della terra è per noi automatico».
Benessere per l’uomo, per le generazioni future, per le specie vegetali e animali. «Nelle vigne abbiamo tantissimi alberi: abbiamo riportato gli uccelli e abbiamo introdotto più di duecento nidi artificiali. Gli uccelli non si nutrono dell’uva, ne fanno ricorso per la sete» prosegue Mateja. «Se riportiamo acqua nel vigneto creiamo un ambiente vivo: zanzare, rane, rospi, uccelli. Non si fa tutto questo per la certificazione: è un dovere verso tutti quanti: dobbiamo lasciare questo ambiente anche a chi non beve vino»”.
Nel concetto di restituzione viene meno il concetto di proprietà, per lasciare spazio a quello più alto e nobile di custodia.
«Se sai che il bambino sta bene, non è così importante sapere che sia maschio o femmina”, sorride Mateja. Per il vino non è prevista la clausola “soddisfatti o rimborsati”, ed è sempre buona la prima: «se è a posto, se è fatto bene, è e sarà sempre in equilibrio».
Il racconto di Mateja inizia a Oslavia nel 1901, anno in cui nasce l’azienda: è il bisnonno che cura i 2,5 ettari di vigneti. Terra di confine dove, dopo la seconda Guerra Mondiale, il 65% delle uve sono allevate in Italia e il 35% in Slovenia. «Eravamo contadini» – racconta Mateja – «intorno a noi uva, ciliegie, albicocche, un po’ di orto, mucche, maiali. Il bisnonno era conosciuto perché aveva la cantina pulita. Siamo stata una delle famiglie più fortunate: alla fine della Guerra (il primo conflitto mondiale, ndr) la casa era ancora in piedi, protetta da una leggera conca, ma i confini sono cambiati. Facciamo parte dell’Italia e il mercato di riferimento e di confronto per i nostri vini non è più l’estero, l’Austria, ma l’Italia. Il nonno prosegue quanto ha fatto il bisnonno, e il vino si vende sfuso nell’osteria di famiglia. Mio padre Josko è il quinto figlio dopo quattro femmine, e la famiglia investe in istruzione e autonomia per tutti i figli: tutti frequentano l’università, e le donne per la prima volta».
Negli anni ’70 prende piede l’imbottigliato e cambia il modo di fare vino: Gravner all’epoca produceva vini che facevano un po’ di macerazione sulle bucce, tra le 24 e le 48 ore, ma che il consumatore sembrava non gradire più: «avevano il colore sbagliato, e non venivano nemmeno assaggiati». È l’epoca dei vini “bianco carta”, molto diversi dal colore carico e caldo dei vini di Gravner. «Il nonno, che aveva fatto quei vini tutta la vita, non capiva perché» – prosegue Mateja – «e Josko, che aveva appena terminato la facoltà di viticoltura ed enologia e che è molto spiccio, dice a suo padre che era ormai vecchio e non capiva nulla».
Josko comincia a fare il vino come gli hanno insegnato a scuola: gli hanno insegnato che si può fare tanto e bene.
È una storia vecchia come il mondo, giovani e meno giovani su fronti opposti, con i ragazzi convinti di saper fare tutto e meglio. Il nonno gli aveva insegnato che le due cose insieme non si potevano fare: o tanto o bene, ma Josko non ne voleva sapere.
Mateja racconta della caparbietà del padre, dell’introduzione spinta della tecnologia, della rincorsa al moderno: una smania futurista, un demone meccanico che lo domina e che lo porta a fare tanto. Tutto serve, anche solo per capire e trovare la strada. Nel 1982 Josko si accorge che tecnologia, quantità e produzione su scala industriale non pagano e non funzionano. E allora si ferma.
Papà si rende conto che è un gioco in perdita e comincia a limitare la quantità. Nel giro di pochissimo arriva una qualità diversa.
Un cambiamento di rotta che è una grande lezione di vita. Nello stesso anno Josko introduce anche le barrique, a modo suo, usandole per fermentare e far riposare i vini bianchi per 12 mesi, proseguendo l’affinamento in acciaio per un altro anno. Il mercato li gradisce, e i ristoranti acquistano bottiglie in quantità quasi industriale. Negli anni ‘80 Josko viaggia tantissimo: è del 1987 il mitico viaggio in California con un gruppo di viticoltori dell’Alto Adige. La Napa Valley è una sorta di eldorado, l’avamposto mondiale della modernità. Assaggia per la prima volta il sauvignon con aromi aggiunti: ed è in quel momento che Josko capisce quello che non vuole fare.
«Josko non vuole un vino che di fatto è un drink; quella non era la strada di mio padre». Sperimenta le prime macerazioni, ribolla fermentata sulle bucce senza lieviti selezionati e senza controllo della temperatura, e solo così ritrova il sapore dell’uva ribolla.
«Noi mangiamo le nostre uve, ne conosciamo il profumo e il gusto, la ribolla è croccante: se spremuta leggermente dà un vino senza carattere, se invece la spremitura è eccessiva si rischia un vino amarognolo». Josko cambia, vende tutte le vasche in acciaio e inizia le macerazioni in botti di legno. Nel 1997 arriva in cantina un’anfora di poco più di duecento litri, un qvevri georgiano, e sperimenta la macerazione dell’uva in questo contenitore interrato. E se ne innamora: la macerazione è più omogenea, quella che tutte le uve vorrebbero avere.
Nel 2000 Josko va in Georgia con una domanda che cerca risposte: «c’è ancora qualcuno in grado di fare anfore dal momento che c’è ancora qualcuno che le sa usare?» Cerca anfore quasi disperatamente: le trova e le acquista, e dal 2001 le prime fermentazioni in anfora. Sono parole di Mateja, ma chiudendo gli occhi potremmo sentire Josko:
L’anfora non cambia il sapore del vino e permette macerazioni più lente e più graduali. È un ventre materno che permette, durante le fermentazioni, l’estrazione di tutte le sostanze migliori dalla buccia.