I vini del Carso e i suoi protagonisti

Racconti dalle delegazioni
13 dicembre 2018

I vini del Carso e i suoi protagonisti

«Il mio carso è duro e buono. Ogni suo filo d’erba ha spaccato la roccia per spuntare, ogni suo fiore ha bevuto l’arsura per aprirsi». Così scriveva, oltre un secolo fa, lo scrittore irredentista triestino Scipio Slataper. E con queste parole Giulia Gavagnin ci prende per mano, al principio di questo appuntamento di Vinovagando, per portarci a spasso attraverso una «terra di pietra»

Giuseppe Vallone

Siamo in Carso, al limite nord-orientale della Penisola, qualche passo ed è subito Slovenia: terra di confine, di forti influenze mitteleuropee, dove il capoluogo – Trieste – è la summa delle particolarità culturali e storiche dell’intera area. 

Giulia dà la cifra dell’intera serata sorvolando il territorio della Carso DOC: a nord Gorizia e i suoi dintorni, caratterizzati da suoli calcarei con modesta incidenza di terra rossa; al centro l’area del Terrano Classico, una striscia stretta tra il confine sloveno e il mare, contraddistinta da calcari ricchi di ferro, dalla bora e dal marcato irraggiamento solare; infine, a sud, il carso triestino e la Val Rosandra, costituiti da marne arenarie e da un microclima più caldo rispetto alle altre zone, con influssi diretti sull’aromaticità delle uve e degli oli che si ottengono dal parco di ulivi qui coltivati.

Giulia Gavagnin

Tre sono i vitigni autoctoni che, più di altri, vale la pena conoscere e cogliere nelle sfumature proprie dei diversi terroir in cui vengono coltivati.

La malvasia istriana, di origine greca e presente in zona dal Trecento, è il vitigno a bacca bianca più diffuso; esprime vini dai profumi freschi e fruttati, non aromatici e meno mediterranei di quelli evidenziati dalle malvasie del centro Italia.

La vitovska, presente da secoli quasi esclusivamente sulle colline triestine grazie alla sua resistenza alla bora e alla siccità, è stata a lungo utilizzata come uva da taglio e, nella sua versione in purezza, è stata riscoperta e vinificata da Lupinc e da Edi Kante. 

Il terrano, della famiglia del refosco, vanta una storia antica, se si vuole collegare a esso l’antico vino Pùcino più volte citato da Plinio il Vecchio. Se ne ottiene un vino dal colore violaceo scuro e intenso, è fresco, tannico e ruvido e trova forse la sua migliore espressione vinificato in acciaio.

Fra alcuni dei principali attori della viticoltura carsolina, tra Prepotto e Sgonico, troviamo Edi Kante, ”artigiano e inventore”, che ha saputo valorizzare terreni “magri, rudi e diffidenti” e ha fatto conoscere i vini del Carso in tutto il mondo; Paolo e Valter Vodopivec, «i grandi solisti della vitovska», i cui vini sono caratterizzati da macerazioni lunghe e dall’affinamento in anfora; Benjamin Zidarich, che ha un rapporto quasi mistico con la sua terra e che ha voluto celebrarla con una splendida cantina scavata per venti metri nella pietra carsica e con un vino, il Kamen, fermentato e macerato per più di due settimane in grandi tini di pietra; e ancora Sandi Škerk, che ha raggiunto vette qualitative di assoluta eccellenza sostituendo la pergola triestina con l’alberello e vinificando in tini leggermente scolmi per favorire un accenno di ossidazione.

Spostandosi a San Dorligo della Valle, due sono i produttori tanto piccoli quanto degni di nota segnalati da Giulia: Rado Kocjancic, con ascendenze austroungariche, un passato da commercialista e, come definito da Giulia, esponente di una viticoltura «erudita», e Mitja Zahar, produttore dal 2013 in una casa/cantina tanto rustica quanto autentica.

Proprio a partire da questi ultimi due nomi prende il via la degustazione della serata.

Si inizia con la Carso DOC Vitovska 2015 di Rado Kocjancic: paglierino tenue, al naso si percepisce una spiccata mineralità, fieno ed erba di campo, con leggeri accenni di agrume. All’assaggio colpisce la freschezza. È un vino agile, con un bel carattere.

Decisamente diversa la vitovska di Mitja Zahar del 2016; mineralità meno spiccata, profumi dall’ampio ventaglio mediterraneo, agrume candito e dal finale balsamico. All’assaggio zoppica nel finale, ma nella sua imperfezione è perfetto per rappresentare la «vitovska più rustica e autentica». 

Passiamo dunque alla malvasia istriana, di Grgic, (Carso DOC Malvasia) annata 2015, la quale, complice una macerazione di 2-3 giorni, si esprime su note di arancia e miele, mela cotogna e fiori gialli, albicocca e mango. Dalla media acidità, non colpisce per la persistenza.

Con la stessa denominazione abbiamo Zahar con la sua malvasia istriana 2015 tutta giocata su profumi terziari, vitali e pulsanti, di fiori secchi e cipria, the e bergamotto. È un vino “orientaleggiante”, suadente e invitante. In bocca è coerente, con una spalla acida e discreta, di persistenza apprezzabile.

La serata volge al termine, ma l’appassionante viaggio nella terra di Italo Svevo non può però concludersi senza l’assaggio di due esempi di terrano.

Il primo (Carso DOC Terrano 2014 di Castelvecchio) potremmo definirlo “tradizionale”: incontra solo l’acciaio e spazia tra profumi erbacei, di frutti rossi pieni, balsamici e vagamente lacustri. In bocca è dapprima molto fresco e poi sapido; come entra, così velocemente se ne va.

Diverso, non foss’altro per l’affinamento in legno, è l’ultimo vino degustato (Venezia Giulia IGT Terrano 2011 di Sandi Škerk). Sette anni e non sentirli, impenetrabile alla vista, con profumi di grafite e pietra focaia e rimandi ematici. La sua mineralità si esprime tutta nell’assaggio e, nonostante la spiccata sapidità, è rotondo, equilibrato e lungo, con un finale di liquirizia.

Terrano, appunto. Nel congedarmi dalla Venezia Giulia, terra di tutte le terre, bevo alla tua salute, amico lettore, un bicchiere di Terrano (Mario Soldati)