Il sake: sempre così diverso
Una degustazione preziosa, con sake giunti direttamente dal Giappone grazie all’importatore Shibataya Italy, condotta dai sommelier Yukari Sato e Gabriele Merlo.
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Prima di tutto sgombriamo il campo da due equivoci: il sake è un fermentato e non un distillato. Questo è il primo aspetto su cui insiste Gabriele: il secondo è che esistono tipi diversi di sake. Da quattro ingredienti (riso, koji, acqua e lievito) nascono tante tipologie della bevanda: la diversità viene amplificata anche dalle temperature di servizio. È possibile aggiungere anche un altro ingrediente facoltativo, l’acido lattico, ma l’essenza è data dalla sapienza e dalla tradizione: il sake è una bevanda alcolica giapponese con una lunghissima storia, a cominciare dalla sua origine.
La storia
Le prime tracce risalgono al periodo Yayoi (300 a.C. - 300 d.C.), quando il riso, giunto dalla Cina, iniziò a essere coltivato e utilizzato per produrre bevande alcoliche. La scoperta del sake e della sua fermentazione hanno origine dalla masticazione del riso che avveniva durante le cerimonie religiose. L’amilasi presente nella saliva trasforma l'amido del riso in zucchero e i lieviti presenti nell'aria danno il via al processo di fermentazione. Nei secoli la saliva è stata sostituita con il koji, un fungo che descriveremo meglio in seguito e che svolge un ruolo fondamentale nel processo. Il periodo più importante per il sake è il cosiddetto Edo (1603 - 1868 d.C.): «è in questo periodo che è nato il sake moderno, quello durante il quale la sua produzione ha visto la comparsa di nuove varietà e stili regionali. Sono state ad esempio definite le figure del Toji e delle scuole di formazione per diventare un vero e proprio esperto di sake con competenze precise sulla fermentazione del riso, sulla preparazione del koji e sui diversi elementi che influenzano il gusto e la qualità», racconta Gabriele. È stata inoltre scoperta la pastorizzazione e la fonte Miyamizu, un’acqua nota per la sua purezza e mineralità, utilizzata nelle produzioni di alta qualità. Le sue caratteristiche conferiscono sentori particolarmente distintivi al sake. Gokusoi e Fukuryusui sono le altre due fonti storiche giapponesi, le cui acque sono povere di ferro e manganese mentre sono ricche di potassio, fosforo e magnesio. In Giappone non c’è un’acqua dura e il residuo fisso è basso: si tratta di un fattore importante in quanto più l’acqua è leggera più i lieviti riescono a lavorare meglio. Dove il residuo fisso è basso il sake è più elegante e morbido: in questo caso prende il nome di Onnazake, letteralmente "sake da donna" o "sake femminile". Otokazake è invece il "sake da uomo" o "sake maschile" e sta a indicare un sake dal profilo più ricco, saporito, robusto, secco e con una gradazione alcolica più elevata.
Il processo produttivo
Per il riso viene utilizzata la varietà Japonica (come il nostro Carnaroli): il Sakamai è il riso da sake che presenta un chicco più grande, dispone di un maggiore assorbimento dell’acqua ed è poco colloso. È inoltre più duro e resistente, con un quantitativo limitato di proteine e grassi e un alto contenuto di amidi. Se tuttavia desideriamo avere un sake di grande eleganza devono essere eliminate le parti esterne: per questa ragione si pratica la sbiancatura del chicco.
Con il termine Seimaibuai si indica il grado di raffinazione del chicco ovvero il rapporto tra il peso del riso molato e lucidato a cui è stato rimosso lo strato esterno e quello del riso iniziale, espresso in percentuale. Questo va a definire le categorie del sake: più alto è il grado di polimento (cioè più il riso viene pulito), più il sake sarà puro e di alta qualità. Il riso sbiancato viene lasciato riposare per circa 30 giorni, al termine dei quali verrà lavato e poi lasciato in ammollo. Durante l’ammollo l’acqua penetra all’interno del chicco e lo umidifica: il chicco aumenta il suo volume del 23-25% favorendo l’azione del koji e la cottura. Questa prima fase termina con la sbollentatura del riso a secco con vapore acqueo. Ed è a questo punto che entra in gioco il koji, un fungo del genere Aspergillus che produce enzimi (amilasi e carbossipeptidasi) in grado di saccarificare gli amidi trasformandoli in glucosio e di scindere le proteine. Dopo la sbollentatura il 20% del riso viene utilizzato per il koji (kojimai) mentre l’80% viene impiegato per la produzione (Kakemai). Polvere di koji viene cosparsa sul riso sbollentato e la propagazione del fungo avviene attraverso spore e miceti. L’azione del koji è fondamentale in quanto rompe l’amido del chicco, consentendo l’attacco da parte del lievito. Quest’ultimo è il Saccharomyces cerevisiae che è in grado di fermentare a basse temperature producendo alcol inferiore al 20% in volume.
La fase iniziale della fermentazione prende il nome di Shubo, la “madre del sake”, il composto che funge da starter, una sorta di pied de cuve a cui vanno aggiunti gradualmente acqua, riso sbollentato e riso attaccato dal koji. La fermentazione è multipla e parallela, unica nel sake. Dura dai 20 ai 35 giorni, è più lunga di quella del vino e avviene a temperature inferiori, tra i 6 e i 18 °C. Il koji saccarifica durante tutta la fermentazione mentre i lieviti trasformano continuamente gli zuccheri in alcol. In questa fase avviene anche la produzione di esteri aromatici, glicerolo e acidi organici. In alcuni sake viene aggiunto alcol Jozo per un massimo del 10% del riso sbiancato, ad eccezione dei sake Junmai in cui non è prevista alcuna aggiunta. Le fasi produttive successive prevedono la filtrazione per estrarre il sake e separarlo dai residui del riso. Questa è una fase obbligatoria per legge e avviene in tre modi diversi: il metodo Fukurotsuri (metodo più antico), realizzato per gravità, con il sake in sacchi da dieci litri che cola in bottiglioni; il metodo Fune che prevede una torchiatura manuale o meccanica; e il metodo Yabuta di tipo meccanico che prevede una pressatura idraulica.
Le finiture possono essere molteplici: dal Nama, sake non pastorizzato, al Nigorizake, sake torbido che presenta residui, dal Koshu, sake invecchiato, al Taruzake, sake affinato in botte, piuttosto che il Genshu, sake non diluito, la versione Muroka (sake non filtrato) o Sparkling (sake frizzante).
La degustazione
La degustazione di sake, spiega Gabriele, è legata alla cultura e alle cerimonie del Giappone: il 1° ottobre è la Giornata Nazionale del Sake, mentre il 30 giugno, ultimo giorno del primo semestre, si beve sake (Natsugoshi-no-sake) per lavare le impurità accumulate nella prima metà dell’anno. È inoltre legato al rito nunziale shintoista San-San-Kudo, in cui gli sposi bevono sake in tre sakazuki (coppa piatta e poco profonda) per celebrare l’unione. La cosa più importante è che non si beve mai sake da soli: è infatti una bevanda destinata alla condivisione.
Nel servizio del sake le temperature variano dai 10 °C sino ai 40-45: la temperatura di servizio cambia la percezione del gusto. I sake freddi accompagnano cibi freddi, mentre i sake caldi si abbinano a pietanze calde: ogni temperatura ha un proprio nome.
La serata è al termine e la regola della condivisione, guidati da Gabriele e Yukari, è stata rispettata: la scelta del tipo di sake, delle temperature e degli abbinamenti (sempre di elevatissima versatilità) sono in funzione del gusto personale e dell’occasione legata alla degustazione. Questa sera abbiamo avuto la possibilità di conoscere un panorama ampio, affascinante e decisamente piacevole.