“Il vino è una cosa seria”: Lino Maga e il suo Montebuono

Il produttore più iconico e leggendario dell’Oltrepò Pavese, padre del Barbacarlo, col suo Montebuono, è protagonista di un meraviglioso viaggio, guidato da Simone Bevilacqua, presso la delegazione di AIS Pavia.

Mauro Garolfi

Lino Maga, o meglio: Maga Lino

Descrivere, raccontare, circoscrivere in spazi limitati, come le poche ore di una serata o le poche righe di un testo, Lino Maga, o Maga Lino, come amava lo si chiamasse, non è impresa da poco. 

Quantomeno accostarsi a tanta grandezza induce un rispetto, una deferenza, una devozione nei confronti di chi ha fatto della caparbietà, della “testardaggine del contadino”, custode della terra, il tratto più marcante del proprio modo d’essere, che può risultare arduo renderla con parole.

Lino Maga, il suo vigneto, il suo vino, la sua azienda sono stati e sono ancora oggi un tutt’uno e ciò che ha rappresentato e rappresenta non solo per il territorio dell’Oltrepò Pavese, ma per un modo di “fare vino”, un modo di essere e di intendere il mondo, non solo enologico, agricolo, contadino, si esprime in qualcosa di straordinario.

Parliamo di un produttore solo dimensionalmente minuscolo: l’azienda Barbacarlo - dal nome della sua vigna più antica e più nota - produce una quantità inferiore alle 10000 bottiglie annue e copre soli 8 ettari di terreno, ma è conosciuta ormai da decenni a livello globale. Nata nel 1886, tra il 1920 e il 1930 il nonno di Lino si spinge verso la novità dell’esportazione, all’epoca in botti.

Annata 1931, Lino Maga nasce ed è subito in vigna: la prima vendemmia è a 6 anni. Dal 1958 Pietro, padre di Lino, inizia ad imbottigliare tutto il proprio vino e dal 1961 il figlio prende il comando dell’attività. E comincia a pensare che Barbacarlo, la vigna più storica, dal nome di un lontano zio Carlo – dialettale “barba Carlo”, che l’aveva lasciata in eredità e che dà il nome all’azienda, debba essere un cru: l’intento è la valorizzazione di una specificità, alla maniera degli indiscussi maestri borgognoni. 

Il nome della vigna viene però iscritto nei registri come “tipologia” all’interno di una denominazione, col risultato che è proprio l’opposto di quanto desiderato da Lino: Barbacarlo diventa così, incredibilmente, un vino che si può produrre in ben quarantacinque comuni. Inizia così una battaglia legale che si protrae per ben ventidue anni e che vede alla fine la vittoria di Lino e della sua tenacia, nel vedere giustamente riconosciuto il nome di Barbacarlo solo per il suo vino, ottenuto da quella specifica vigna, di sua proprietà.

L’azienda è oggi gestita dal figlio Giuseppe, dopo che Lino si è spento all’età di 90 anni: non ha cambiato nulla del pensiero del padre e lo porta avanti fedelmente. Nella filosofia di Lino - di poche parole, lunghi silenzi, nessun inseguimento a pose o mode - che si è sempre considerato contadino, l’aspetto enologico è il meno importante: il vino si fa in vigna e sempre alla stessa maniera, secondo natura. Forte, indissolubile è il legame a doppio filo con vigneto e annata, dove questa rappresenta l’unica differenza nel calice: è cambiato l’anno, sono cambiate le condizioni climatiche, avrò ovviamente vini diversi.

Il vigneto, per retaggio storico, è misto, con la presenza di varietà diverse all’interno, per cui l’uvaggio rappresenta l’identità stessa del vigneto; la complementarietà produttiva è fondamentale e mette al riparo dalle bizze dell’annata, che naturalmente influisce sulla sua identità. Siamo allo “stile del non stile”, a vini polimorfi, modi diversi di esplicitarsi a seconda delle circostanze variabili – nel nostro caso, appunto, la sola annata.

Alcuni di noi, solamente i più fortunati, hanno avuto in passato l’opportunità di entrare, avvolti tra le volute azzurrognole del fumo delle sigarette accese senza interruzione da Lino, in quello scrigno ricco di piccoli oggetti, biglietti, fogli con appunti, fogli con poesie, bottiglie chiuse e bottiglie aperte in ogni dove: la sala degustazioni della sede storica in centro a Broni, nonché rustico museo del sapere contadino di straordinario e meraviglioso disordine ragionato. E l’ascoltare dalla sua voce viva, calma e ferma il suo pensiero sulla vigna, sul vino, sulla vita permane ora come indelebile ricordo.

Montebuono

La produzione di Montebuono, dal nome della vigna posta di fronte alla vigna Barbacarlo, inizia tra il 1965 e il 1970. A Broni ci troviamo in prima fascia collinare, tra 150 e 250 metri slm, tra valle Versa e valle Scuropasso, in territorio indubitabilmente vocato per la croatina. I terreni sono tessiture franche o fini, di profondità medie - molto basse per la vigna Montebuono, dove la prima fascia di terreno è di poche decine di centimetri, e dove poi troviamo tufo e ghiaie nel sottosuolo; le pendenze sono elevate e la piovosità è media.

Le uve del Montebuono sono croatina, che dona tannino, struttura, concentrazioni al naso di frutto nero, amarena, susina, e che non ama l’eccesso di legno -, ughetta di Canneto, dai gradi zuccherini importanti e poco corpo, morbidezza, profumi speziati e floreali e uva rara, che non ha un carattere particolarmente definito, stempera, presenta una verve sapida e un lieve finale ammandorlato.

Nei Montebuono in produzione oggi la barbera non c’è più, ma potrebbe essere presente in piccole percentuali – non oltre il 10% - in vini di anni addietro. L’esposizione della vigna Montebuono, di circa 4 ettari e situata a circa 300 m slm, è sostanzialmente completa, essendo una sorta di cappello, di cuffia sopra la collina; le pendenze, notevoli, superano il 60%.

L’impianto, degli anni Settanta del Novecento, è a guyot; la vendemmia è manuale e l’epoca vendemmiale è comandata dalla croatina – la più tardiva e più tannica delle varietà d’uva presenti.

La resa è in media di circa 35 quintali/ettaro, con resa in vino di circa il 50%; si vinifica direttamente in legno, s’impiegano botti da 10-20 hl, la macerazione è di circa una decina di giorni, non avviene alcun controllo della temperatura e nessun lievito è selezionato. L’imbottigliamento avviene tra aprile e maggio.

La degustazione 

2020

Annata mediamente calda, precipitazioni abbastanza ben distribuite, annata più “di quantità”, simile alla 2018. Temperatura minima del periodo vicino alla vendemmia di 5°C, massime di 31°C - con massima annua 36°C - e 10 giorni di pioggia nel periodo appena prima della vendemmia. 

Pieno, compatto, saturo, pesante nei movimenti; etereo di smalto, vernice, poi frutto sotto spirito, visciola, amarena. Speziato di pepe nero, resina. Il naso incede cupo, scuro di radice di liquirizia, carruba, bosco e corteccia. Emerge rimarchevole balsamicità. Il tannino è intatto e vigoroso e gli aromi di cacao, cioccolato e caramella alla liquirizia impreziosiscono la beva. Vino di struttura, stoffa e potenziale di evoluzione; integro, senza cenni di maturità, con ancora lungo tempo davanti a sé.

2018

Nei trenta giorni precedenti la vendemmia temperatura minima di 7°C e massima di 30°C - massima annua 35°C – 9 giorni di pioggia: annata simile, sotto vendemmia, alla 2020. Annata di “abbondanza”.

Veste fitta, impenetrabile, compattissima. Note fruttate non particolarmente marcate, ma in cui emergono il frutto lavorato, disidratato, la prugna secca. Meno evidente l’impatto alcolico rispetto al precedente, evolve su note tostate e torrefatte.
Il sorso offre un tannino più verde, non così denso e cesellato come nella 2020. Dalla freschezza differente rispetto al precedente, emergono una nota un po’ rustica, animale e un aroma di cera.

2016

Annata completamente diversa dalle precedenti, in cui le maturazioni tecnologica, fenolica e aromatica coincidono; riconosciuta come una “grande annata”: equilibrata e di eleganza. Nei trenta giorni precedenti la vendemmia temperatura minima di 9°C e massima di 31°C - massima annua 32°C – 4 giorni di pioggia.

Colore compatto e sano, luminoso. Naso in cui la purezza del frutto ricorda l’annata 2020 e alcune note legate a torrefazioni e tostature rimandano alla 2018. La spinta balsamica si spinge a note mediterranee, di eucalipto. Dall’acidità perfettamente integrata, di grande equilibrio. Materico, lungo, masticabile, dal tannino rotondo, grasso, che ricorda il cacao.

2005

Annata piovosa, mediamente mite, dalla bassa escursione termica. Nei trenta giorni precedenti la vendemmia temperatura minima di 14°C e massima di 31°C - massima annua 34°C – 15 giorni di pioggia.

Granato scarico, omogeneo, dal corpo leggero. Naso dall’impatto tenue, elegante, poco irruento; pulito di spezia dolce, quasi cannella, noce moscata, cipria, incenso, infuso d’erbe, buccia d’arancia sanguinella e cotognata, con sottili ricordi di balsamicità dolce. Il sorso è di freschezza smorzata, quasi ruvido, di buona persistenza, con rimandi di infusi d’erbe e frutta.

1997

Annata calda e siccitosa, stress idrico in prossimità della vendemmia. Nei trenta giorni precedenti la vendemmia escursione termica simile alla 2005 ma con 0 giorni di pioggia.

Colore un poco spento ma ancora vivo. L’impatto olfattivo, più potente rispetto alla 2005, si rivela in modo più criptico esprimendosi a poco a poco su sentori di scorza d’arancia, frutta essiccata di dattero e fico secco, accenni di peperoncino, note di affumicatura e terrosità di fungo. Evolve poi su piacevoli richiami di cioccolato e caramello. La bocca, molto espressiva, si espande su infuso, carruba, foglia secca e tabacco. 

1986

Annata fresca, germogliamento tardivo, buon equilibrio idrico, “l’annata che cerchiamo e che vorremmo oggi” per le maturazioni lente che “lasciano tempo all’uva”. Nei trenta giorni precedenti la vendemmia temperatura minima di 9°C e massima di 27°C - massima annua 32°C – 4 giorni di pioggia.

Colore simile alla 1997 ma più vivace, più pieno, più ricco di massa colorante. Intenso di bosco, fungo, corteccia, legno morto, terra, tartufo, ricordi balsamici, potpourri di fiori essiccati, accenni di canfora e cuoio. Perfettamente in forma, coerente, dalla lunghissima nota mentolata. Incisivo, rivela poi aromi medicinali, di canfora, torbati e di chiodi di garofano.