Jacques Selosse, il mito

Un viaggio in compagnia di Alberto Lupetti ad Avize, in Côte des Blancs, alla scoperta di una figura iconica della Champagne, Anselme Selosse, del “Selosse-pensiero” e di come questo si traduce nei suoi vini.

Tiziana Girasella

I dati principali della Champagne sono ben noti: situata a 150 km a est di Parigi, ha come capitale politico/amministrativa Châlon-en-Champagne, ormai scalzata da Reims per dimensioni e volume d’affari; la Champagne del vino trova invece la sua capitale a Epernay. È costituita da 34.300 ha vitati suddivisi in 280.000 parcelle, il 90% delle quali, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, in mano ai piccoli vigneron; sono però le grandi maison ad avere il 70% del mercato.

Le vigne sono suddivise in 319 Cru (o villaggi) di cui 17 Grand Cru e 42 Premier Cru. Tale classificazione, basata su una scala gerarchica, risale al 1911 e fa riferimento al valore commerciale delle uve coltivate nel comune di appartenenza rispetto al prezzo stabilito per le uve della Champagne, intrinsecamente legato alla qualità delle stesse. Espresso con un valore percentuale, Grand Cru (100%), Premier Cru (90-99%) e Cru (80-89%), sta a indicare che le uve provenienti da un comune classificato Grand Cru saranno pagate a prezzo pieno, mentre, ad es., quelle provenienti da un Premier Cru classificato 94% saranno pagate solo per il 94% del prezzo stabilito. Ormai obsoleto tale sistema è stato abbandonato da decenni, ma rimane in vigore la classificazione che ogni tanto viene rivista. Interessante precisare che, all’interno di tale classificazione, vi sono due villaggi che sono Grand Cru per un vitigno e Premier Cru per un altro. Così Chouilly è Grand Cru per lo chardonnay e Premier Cru per il pinot noir e viceversa Tours-sur-Marne; ciò fa sì che talvolta si parli di 44 Premier Cru, anche se geograficamente sono 42.

Dei tre vitigni principali, il pinot noir viene coltivato in tutta la Champagne, ma trova le sue zone d’elezione nella Montagne di Reims e nell’Aube, pur dando vini con caratteristiche differenti (più sottile il primo, più vinoso il secondo); il meunier, coltivato nella Vallée de la Marne; lo chardonnay - l’uva più pregiata e maggiormente pagata – si trova principalmente nella Côte des Blancs.

La produzione si assesta intorno alle 350 milioni di bottiglie, a firma di 4.200 produttori divisi in grandi maison, négociant, piccoli récoltant e cooperative.

Alberto LupettiParlando più specificatamente della Côte des Blancs, in cui l’azienda Selosse è ubicata, c’è da precisare che il primo blanc de blancs (da chardonnay e pinot blanc) venne prodotto solo nel 1851 e solo dopo la Seconda guerra mondiale si iniziò a parlare seriamente di chardonnay. Qui la craie ha sempre avuto un ruolo fondamentale, tanto che in passato dava il nome alla zona (Côte Blanche) mentre oggi l’importanza del suolo ha ceduto il passo a quella del vitigno.

Avize è uno dei villaggi più vocati per lo chardonnay e contende a Cramant il ruolo di perla della Côte des Blancs; la differenza tra i due è legata non ai suoli, composti in entrambi i casi da craie, ma al fatto che, mentre Cramant ha i terreni protetti da una collina, Avize, non avendo protezione, risente più dell’andamento delle annate; inoltre, i vini di Avize sono più nervosi e hanno un carattere più agrumato e minerale. La conformazione geologica della Côte des Blancs è un mosaico di colline e avvallamenti, quasi come fossero quattro dita di una mano, all’interno dei quali la conformazione della craie si modifica in base alle diverse esposizioni e ai tipi di suolo.

Anselme Selosse

Nato nel 1954, effettua gli studi in Borgogna, a Beaune; al suo rientro ad Avize, effettua la sua prima vendemmia con il padre Jacques che, già conferitore di Lanson, aveva iniziato la propria produzione. Nel 1976, alla sua terza vendemmia, prende forma la sua idea di champagne e nel 1980 riceve dal padre il testimone del Domaine applicandovi i principi della Borgogna bianca su cui si era formato.

Proprio il 1980 può essere definito come uno spartiacque per la Champagne: si parla infatti di champagne prima e dopo Anselme. È infatti il primo ad affermare che lo champagne è un vino. Rientrato ad Avize, infatti, si accorge che qui, a differenza della Borgogna, i vins clairs erano visti solo come uno strumento, come un liquido moderatamente alcolico che, assemblato con altri e rifermentato, serviva a produrre lo champagne. Questo era anche legato al fatto che, già dagli anni ’70, il mercato in Champagne aveva avuto una crescita tale per cui, per produrre le quantità necessarie, si era arrivati a una sorta di industrializzazione, perdendo di vista la vigna, considerata, anch’essa, uno strumento di produzione.

Si poteva parlare così di champagne de cuvée, influenzati dall’assemblaggio, propri delle maison interessate a sviluppare un proprio stile e dall’altro lato champagne de terroirpropri dei vigneron, oggi due facce della stessa medaglia, una unicità nella diversità. Anselme, invece, produceva i suoi champagne specificando in etichetta che la fermentazione avveniva in legno, riprendendo così il metodo di produzione tradizionale utilizzato fino agli anni ’60, prima che Lanson introducesse per primo l’acciaio.

Diversi produttori lo hanno seguito e imitato, riconoscendogli grandi meriti: il primo a dimostrare che, attraverso il rispetto della natura, si possono raggiungere grandi risultati. Per Selosse, la differenza tra grandi e piccoli produttori sta nella vigna, quasi del tutto abbandonata dalla maggior parte delle grandi maison che, pur possedendo solo il 12% dei vigneti, detengono circa i 2/3 del mercato.

Lupetti racconta che Anselme non beveva i vini di famiglia fino al 1976. Durante quell’anno, caratterizzato da un clima caldissimo e da grande siccità, si rese conto che le uve erano talmente mature da necessitare minore pressione (demi-mousse, come per il Crémant). Decise, quindi, di utilizzare minori quantità di zucchero, modificando in tal modo la ricetta di produzione.

Il suo pensiero è quello di non intervenire in vigna, di non far nulla («Primum non nocere» è il suo motto) confidando nella natura che, da sola, sa ciò che bisogna fare. Per spiegare ciò in cui crede prende ad esempio la foresta, come ecosistema che si autoregola, si sviluppa e si genera senza soluzione di continuità. Considera quindi la vigna alla stregua di una foresta di piante selezionate (di pinot noir e chardonnay) e la lavora avendo capito che il terreno ha bisogno di respirare, di aria. Nonostante ciò, non aderisce ai dettami della biodinamica: ha fatto dei tentativi, dal 1990 al 1996, ma poi l’ha abbandonata rendendosi conto che le etichette e le certificazioni, come la Demeter, non erano ciò di cui necessitava. Il suo obiettivo era, semmai, quello di ottenere i mosti più specifici e originali possibili, in termini di marcata tipicità e unicità. Per lui la biodinamica pone al centro l’uomo piuttosto che la natura ed è fatta di dogmi, mentre questa va lasciata agire senza regole o imposizioni: solo in tal modo diviene qualcosa che cattura l’essenza del suolo e la trasmette al vino.

Inizia a descrivere gli obiettivi della sua filosofia a partire dal 2002, la prima annata calda dopo decenni freddi. Non tutti i produttori sono stati in grado di capirla e gestirla, mentre il Selosse-pensiero è: «nessun adattamento alle circostanze: una semplice osservazione della natura in modo da consentirle di esprimersi».

Già dal 2009 Anselme ha iniziato a cedere l’attività al figlio Guillaume: il giovane si è trovato sulle spalle un’eredità molto pesante, ma sta dando ottime risposte in termini di prodotto. Si dice che grazie a lui i vini realizzati siano diventati meno estremi e scontrosi, più piacevoli e accessibili, pur senza stravolgere lo stile del padre. Egli, inoltre, ha apportato diverse innovazioni tecniche per quanto riguarda il contatto con i lieviti, ad esempio, mentre per la reserve perpetuelle (utilizzata nel Substance e nei lieu dits) ritiene sia migliore la botte in quanto assicura un movimento continuo mentre per i vins de reserve tradizionali preferisce utilizzare i tini troncoconici con il fondo piatto.

La proprietà è oggi costituita da 8,3 ha suddivisi in 54 parcelle di età media di 55 anni (la più vecchia è del 1922), ubicate principalmente in Côte des Blancs, Vallée de la Marne e Montagne de Reims. La produzione totale è di circa 60.000 bottiglie, suddivise tra 13 vini, «treize caractères», come li definisce lui, ognuno con la propria personalità.

Secondo Selosse si può produrre qualcosa di standard, ripetuto tutti gli anni (il brut sans année delle maison) che non delude mai, ma risulta quasi senz’anima. A questo, si contrappone il concetto di Inshallah secondo il quale la natura è tutto e identifica un’espressione territoriale legata all’andamento delle annate. Ed è questo che ama fare. Selosse ha il merito di aver sdoganato anche il concetto di “amaro”, individuandone tre tipi: quello verde, immaturo e certamente da scartare, il bruciato, che lui lega alla tostatura e infine quello dell’acqua di Hepar, caratterizzata dalla netta sensazione asciugante del magnesio, la stessa che ritrova nel cacao prima della torrefazione. Questi ultimi due si ritrovano nei suoi vini e sono, ormai da anni, considerati “positivi” poiché favoriscono l’abbinamento gastronomico e, soprattutto, la bevibilità.

L’agricoltura di Selosse è basilare e semplice: consiste nel lasciare che la singolarità del luogo si esprima, catturando la mineralità, la sapidità del terreno, che va estratta dalla pressa senza pensare di nasconderla o di modificarla. Predilige la maturità delle uve perché, pensa, che nella ricerca eccessiva della finezza, si rischia di vendemmiare troppo presto ritrovandosi poi, solo, con acqua e acidità.

Anselme non parla di un savoir faire, di una vera ricetta da seguire: il suo segreto è piuttosto quello di porsi delle domande, di saper pensare. Secondo lui, quindi, il lavoro del vigneron consiste nel permettere al territorio di esprimersi: il suo obiettivo non è fare vini perfetti, ma identificativi del luogo e dell’annata in cui sono prodotti, anche se talvolta potrebbero essere squilibrati.

La degustazione

Initial
100% chardonnay proveniente da tre villaggi adiacenti, Avize, Cramant e Oger. È il primo champagne fatto da Anselme: equivale al brut sans année delle grandi maison ed è considerato, da lui, come il suo biglietto da visita, compiuto ed equilibrato. 33.000 bottiglie l’anno, oltre il 50% dell’intera produzione. Le uve provengono dai vigneti posti nella parte più bassa del pendio, in cui lo strato del terreno, sotto la craie, è più profondo, fino a raggiungere il metro. La presenza di argilla dona al vino un gusto più rotondo.

Base vendemmia 2014 per il 50%, vins de réserve per il 30% annata 2013 e per il 20% annata 2012. 6 anni sui lieviti con due scuotimenti. Dosage con Mosto Concentrato Rettificato (MCR) (facilita l’integrazione con il vino a cui viene aggiunto: la liqueurtradizionale richiede almeno un anno, l’MCR 3-4 mesi e, inoltre, secondo Selosse non ha impatto sul gusto in quanto composto da zucchero d’uva).

Il naso è tipico: si ritrova la maturità, la tostatura da legno e si avverte una parte minerale. Forte personalità, grande complessità e unicità. In bocca emerge la componente vinosa e la parte fruttata che vira verso il tropicale; il legno crea una certa grassezza, ma tutto si equilibra in un sorso fresco e tonico, con una spiccata sapidità finale.

V.O.
3.000/3.300 bottiglie annue. 100% chardonnay proveniente dagli stessi villaggi, stesse annate e blend del vino precedente. Le uve provengono dai vigneti posti nella parte alta del coteaux, con maggior contatto con la craie, pendenza almeno del 15% e 30-50 cm di profondità del terreno prima della craie. Solitamente non è dosato.

Naso molto più verticale del precedente, con una nota agrumata e calcarea/gessosa. Al palato è molto più netto, deciso, asciutto, preciso, profondo e tagliente. Esprime il concetto di autenticità, fuori da ogni standard.

I viniSubstance
È l’essenza della filosofia di Anselme: frutto di un assemblaggio di annate, cancella le specificità delle singole vendemmie. L’obiettivo è quello di fissare ciò che è permanente: il suolo. Infatti, secondo Anselme, l’unione di una serie di annate (reserve perpetuelle), traduce l’impronta territoriale, isolandone il carattere, tanto che, secondo lui, l’assaggio cambia con il cambiare delle stagioni. 3.000 bottiglie annue.

Le uve provengono da due parcelle di Avize. 6 anni sui lieviti con tre scuotimenti; solitamente molto poco dosato. Un’aggiunta di fecce nobili di vini delle annate precedenti e un tirage tardivo (innovazioni introdotte da Guillaume) fanno sì che, rispetto al passato, il vino risulta più addomesticato, meno scontroso, più piacevole.

È un vino denso, compatto, profondo, materico. La bocca è generosa, quasi floreale all’attacco, poi minerale, con una freschezza in centro-bocca; mineralità meno secca del precedente, più calcarea che gessosa.

Millésime 2008
Molto raro, prodotto solo in alcune vendemmie, al contrario del Substance qui si valorizza l’annata a discapito del territorio. Fino al 2006 Anselme lo produceva da due sole parcelle; il millesimo in degustazione, invece, rappresenta il primo prodotto da Guillaume, che lo ha stravolto, decidendo di scegliere volta per volta i vini più rappresentativi dell’annata. La 2008 è composta dal 12% di pinot noir e l’88% di chardonnay provenienti da Avize, Cramant, Le Mesnil, Oger, Ambonnay, Aÿ e Mareuil. 9 anni sui lieviti con 4 scuotimenti e tiraggio tardivo, eseguito nel 2010. 3.800 bottiglie prodotte annualmente. 20 mesi in bottiglia dopo il dégorgement. Annata fredda, con pH molto basso e nessun’aggiunta di solforosa.

Presenta un carattere molto diverso dai precedenti, è un vino ancora in fieri: il naso è serrato ed emergono soprattutto le tostature. Anche se si percepisce la struttura del pinot noir, fatica ad esprimersi appieno. La bocca è complessa, vinosa, si avverte una leggera sensazione di volatile, ma deve ancora raggiungere l’equilibrio. Ha comunque una sua nettezza e precisione, un’acidità di matrice minerale, ma non fine a sé stessa come capita a molti altri prodotti dello stesso millesimo.

Lieu dits – Les Carelles (Blanc de Blancs)
Il nome del lieu dit significa “mattoni di craie” perché qui è possibile estrarne veri e propri blocchetti. Secondo Anselme, per via della pendenza del vigneto e dell’assenza dell’argilla, il vino risulta secco e strutturato, salato, mentre l’esposizione a sud conferisce una nota amara, brulée.

Siamo nella parte alta di Mesnil-sur-Oger, 100% chardonnay, base vendemmia 2014 e metodo perpetuelle (che Selosse chiama Solera) dal 2003 al 2013. Oltre 6 anni sui lieviti con 3 scuotimenti; dégorgement del 2021, il dosaggio tra 0 e 2 g/L.

Preponderante la delicatezza e l’eleganza dello chardonnay, il legno si avverte poco. Al naso floreale, una parte agrumata e in secondo piano si affaccia la mineralità. La bocca segue la stessa falsariga: ha il sorso più vinoso tra tutti, quello che più strizza l’occhio alla Borgogna, ma in cui la mineralità e la spinta acida ci riportano in Champagne; è forse il vino più verticale, più elegante tra tutte le espressioni di Selosse. Per Lupetti è il vino più classico e meno “selossiano” di tutti.

Lieu dits – Sous le Mont (Blanc de Noirs)
Di questo lieu dit, Anselme asserisce che il suolo è fatto di craie, ma con magnesio e calcio, cioè con una componente che lui definisce dolomitica, che dà quella nota amaricante tipica dell’acqua di Hepar. È prodotto a metà del coteaux con media pendenza ed esposizione a est, base vendemmia 2014 e metodo “Solera” dal 2005 al 2013; oltre 6 anni sui lieviti con 3 scuotimenti; dégorgement del 2021; mai oltre i 2 g/L di zucchero residuo.

Non è un vino di potenza, ma di eleganza (secondo Anselme si abbina bene all’anatra). È inoltre l’unico dei vini di Selosse fermentato in tonneaux da 400 L per rallentare l’ossigenazione e ricercare il profumo e il sapore della buccia del frutto (e non della polpa).

È un pinot noir 100%, atipico: non iper-fruttato o scuro come talvolta capita di incontrare. La leggera tostatura proveniente dal legno è percepibile, ma non fastidiosa. Risulta al tempo stesso ricco e quasi scheletrico per la sua precisione. Al palato attacca con la parte acidula dei piccoli frutti rossi e chiude con una nota amaricante di cacao che invita a un nuovo sorso o a un abbinamento gastronomico.

Un lungo applauso finale e i calici vuoti nella maggior parte delle postazioni dimostrano come la fama conquistata da questo vigneron sia più che meritata.