Josko Gravner. I vini e la sua storia di scena con AIS Bergamo
"Il vino rappresenta il pensiero di chi lo fa e deve rimanere un prodotto dell’anima”. Nel mondo sinonimo di vini d’anfora, Josko Gravner è molto di più. Incontriamo i suoi vini e il suo pensiero in una serata d’eccezione organizzata da AIS Bergamo al ristorante tre stelle Michelin Da Vittorio.
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"Science sans conscience n'est que ruine de l'âme!". La storia di Josko Gravner fa pensare a questa massima di Rabelais. I ricordi della giovinezza, il lavoro in vigna con il padre. Poi gli studi di enologia, l'illusione del sapere; la tecnologia che soppianta la tradizione, che appiattisce, standardizza.
"Stavo facendo una bibita, non un vino". La folgorazione arriva nel 1987 durante un viaggio in California. Alla presentazione di un sauvignon fatto con aromi sintetici, senz’anima, Josko apre gli occhi. Non è quella la strada, almeno per lui. Non vuole fare una bevanda, vuole fare vino: un prodotto della natura che l'uomo deve portare a compimento e non stravolgere.
L'unica evoluzione è tornare indietro. Non un ritorno acritico, immediato, ma un percorso lungo fatto di prese di coscienza, dove a ogni passo il coraggio supera il timore del fallimento. E così Josko abbandona l'acciaio, colpevole con le sue cariche elettromagnetiche di stressare l'uva, poi le barrique, che invece ne coprono l'identità. Attinge dal biologico e dal biodinamico ma senza legarsi a nulla se non ai propri, solidissimi, princìpi etici e ad una qualità estrema, esasperata, rigorosa, senza artifici.
La vera svolta però è l'anfora. Un primo, sorprendente tentativo nel 1997, poi un viaggio in Georgia, antica culla del vino, per scoprirne le origini. Dal 2001 inizia a vinificare esclusivamente in questi recipienti. Ora ne possiede quarantasei, con dimensioni dagli 800 ai 2400 litri. Tutte fatte a mano e provenienti dal Caucaso, dove la terracotta è priva di residui di cadmio e di piombo. Interrate nella cantina, come facevano i contadini per nasconderle, ma con il progetto di portarle all’aperto, mantenendole comunque sempre interrate.
"Perché la terra è madre", da essa nasce il frutto e poi il vino. Le uve vengono messe nelle anfore, per lo più non diraspate così da mantenere più soffice il cappello del mosto. La fermentazione è spontanea, senza controllo della temperatura, con lunghissima macerazione sulle bucce che per i bianchi può arrivare fino ad aprile. Dopo una gestazione di undici mesi il vino viene trasferito in botti grandi di legno. Nessuna chiarifica o filtrazione, pochi travasi e un lungo affinamento in bottiglia. I vini di Gravner non vedono la luce prima di sette anni, un numero magico: quello che il corpo umano impiega per rinnovare tutte le proprie cellule.
La degustazione
Iniziamo la degustazione con la coppia dei Bianco Breg 2008 e 2006, sotto la guida esperta di Diego Sburlino.
Il primo è un vino d’impatto: bouquet ricchissimo, spiccano miele e cera a rivelare la particolarità di una vendemmia con uve parzialmente botritizzate. E poi note terrose, tabacco biondo, foglie di tè, caramello al sale. Una gioiosa alchimia di contrasti che invade la beva, fresca, sapida, equilibrata, tannica e profonda. Nel 2006 l’impronta olfattiva è simile ma più austera. Assenti le note dolci del precedente, è soprattutto in bocca che dichiara il proprio carattere. Un vino vibrante, con l’acidità che nulla cede all’avvolgenza, il tannino più marcato e un’infinita persistenza sapida da cui emergono lunghe note balsamiche, di iodio e liquirizia.
Lasciamo i Breg con una punta di anticipata nostalgia, sapendo che i vigneti di sauvignon, pinot grigio, chardonnay e riesling sono stati espiantati a favore dell’autoctona ribolla e che l’ultima vendemmia è stata la 2012, in commercio dal 2020. Scelta difficile, ma imprescindibile da quel percorso ormai intrapreso di ritorno alla terra, la propria terra.
I vitigni internazionali conquistarono il Friuli negli anni Cinquanta. La guerra da queste parti non aveva risparmiato nulla, vigne comprese, ultimando la distruzione già inflitta dalla fillossera. I nuovi impianti privilegiarono, comprensibilmente, facilità, resistenza e rese. Pinot grigio, merlot, chardonnay, sauvignon, sono tuttora una presenza preponderante nella regione che ha perso gran parte del patrimonio ampelografico autoctono.
La ribolla. Vitigno povero, originario di questa zona di confine. Con la sua buccia coriacea, quasi croccante, ha ispirato le prime lunghe macerazioni di Josko. Il 2007 è un vino di identità e classe. Foglie di tè, spezie, fieno e fiori di campo essiccati. In bocca struttura, sapidità e bellissima integrità, con finale bianco di fiori e spezie. Il 2008 riporta invece al frutto botritizzato. Sentori di miele, liquirizia, macchia mediterranea, grafite e un sorso pieno, avvolgente, appagante.
Anche il pignolo ha rischiato l’estinzione. Ne furono ritrovati solo pochissimi esemplari nel vigneto ai piedi dell’Abbazia di Rosazzo, che ne hanno permesso la riproduzione. Non è un vitigno previsto dal disciplinare del Collio per cui, attualmente, il vino di Gravner esce semplicemente come Rosso Breg. Il bel colore rubino, il frutto maturo ma croccante, svelano un 2004 ancora molto giovane, nonostante il dialogo già ben intrecciato con aromi più evoluti di spezie, tabacco e cuoio, mentre in bocca si dilata e contrae nella grande forza tannica.
Roberta Agnelli, delegato AIS di Bergamo e artefice di questa degustazione, ha ideato insieme ai fratelli Cerea un menu per stimolare la nostra curiosità negli abbinamenti. Baccalà alla Vittorio con olive taggiasche e polentina di patate, Nocette di capriolo con cavolo rosso e arachidi e, per concludere, Panettone Vittorio. Sapidità, dolcezze, morbidezze, affumicature; noi testiamo ogni piatto con ogni vino.
E ci sorprende come il tempo trascorso nei bicchieri sembri aver spogliato i vini della propria età. Gli aromi terziari sfumano come quinte di un palcoscenico e rivelano il candore del frutto, integro. Non un frutto generico, ma il frutto di quel vitigno, di quell’annata, dono di una terra vocatissima. “La terra è il principio e la fine, e tutto il resto non è che favola.”
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