L’Etna, la sua millenaria viticoltura e i vini di Federico Graziani

La vita è fatta di incontri, persone, luoghi, passioni, casualità e opportunità. C’erano una volta “a Muntagna”, un romagnolo di Ravenna e un’appassionata sommelier lombarda in esplorazione.

Alessandra Marras

È stato un fortunato incontro estivo, frutto di felici coincidenze e di passione autentica, quello da cui ha avuto origine l’indimenticabile serata che il 19 gennaio 2023 ha letteralmente trascinato i fortunati presenti dalla delegazione di AIS Monza alle pendici del vulcano attivo più alto d’Europa.
Complici, il tocco di garbo e di sostanza di Federico Graziani e Fanny Quaggio, e lo sguardo onnipresente, vigile e concreto di Lei, “a Muntagna”, l’Etna.

Federico GrazianiViticoltura di millenaria origine

Il racconto di Fanny, che in ogni fase si arricchisce della viva e spontanea emozione di chi ha realmente vissuto, calpestato e amato la terra così speciale che sta narrando, parte dalle antichissime origini.  

Sebbene le popolazioni locali avessero già da lungo tempo avviato la domesticazione della vite, è intorno all’VIII sec. a.C. che, nella Sicilia orientale, grazie alla colonizzazione greca, si assiste all’introduzione delle tecniche di vinificazione e della cultura dell’allevamento della vite, come ampiamente dimostrano le numerose e significative testimonianze di decorazioni con motivi viticoli, riproduzioni su moneta, recipienti e vasi vinari etc. L’Etna e i suoi vini vengono spesso citati nella mitologia greca e persino nel celebre episodio di Polifemo dell’Odissea, il nettare inebriante, che Ulisse utilizza per stordire il Ciclope, sembra ricondurre al vino etneo.

Con i Romani (264 a.C. – 533 d.C.) la viticoltura etnea si espande ulteriormente e i vini siciliani riscuotono grande successo tanto da essere esportati ovunque. I tipici torchi a leva della tradizione enologica etnea, fedele rievocazione della minuziosa descrizione di quelli narrati da Catone nel “De re rustica” (160 a.C.), rappresentano solo una delle tante vive tracce di indelebile memoria che è possibile scorgere. 

In seguito alla caduta dell’Impero Romano, dopo una serie di alterne fortune, è con gli Aragonesi che la viticoltura etnea inizia a rifiorire. Nel 1435 nasce “La Maestranza dei Vigneri” un’importante corporazione di viticoltori che crea le basi per una professionalità vitivinicola di cui protagonisti sono gli stessi viticoltori. 

Nell’Ottocento la viticoltura della provincia catanese raggiunge il suo apice. Prima in Sicilia per superficie vitata, vede un’estensione che arriva a occupare più della metà dei terreni disponibili, con vigneti che si innalzano fino a quote superiori ai 1000 metri. Desiderio e necessità spingono l’uomo a diffondere la vite in zone sempre più scoscese; l’austero profilo di muretti in pietra lavica ridisegna il paesaggio sotto il proliferare di sempre più arditi terrazzamenti. Per facilitare il trasporto dei vini di tutte le contrade etnee che, per essere imbarcati ed esportati, confluivano allo stato sfuso verso i magazzini del porto di Riposto, viene realizzata la ferrovia Circumetnea. Nel 1881, a siglare il ruolo focale della viticoltura locale, nasce la Scuola Enologica su regio decreto e nel 1886, a tutela e controllo dei vini dell’Etna, viene istituito l’Ufficio Enologico.

Nei primi del Novecento la potenza distruttiva della fillossera, l’inasprimento delle imposte governative a carico del vino e, non ultime, le difficoltà intrinseche di coltivazione che, anche in epoca moderna, il territorio necessariamente continua a implicare, danno l’avvio a un inesorabile declino. I vigneti vengono estirpati e le zone più impervie abbandonate.

Nella seconda metà del ‘900 la viticoltura etnea lascia intravvedere i primi segni di ripresa. L’11 agosto 1968 viene ufficialmente riconosciuta l’Etna DOC, prima denominazione di origine controllata della Sicilia. Ma è soltanto a partire dalla fine degli anni Novanta che il momento di svolta prende realmente le mosse. Nel 1999 Salvo Foti, citato dal New York Times come la più importante figura di riferimento del mondo vitivinicolo siciliano (e come vedremo figura fondamentale anche nel percorso di Federico Graziani) ispirandosi, per comunità di intenti e disposizione d’animo, proprio a La Maestranza de I Vigneri del 1435, fonda il Consorzio I Vigneri. La Maestranza de I Vigneri, con impressionante lungimiranza, aveva compreso quanto fosse cruciale la formazione dei viticoltori come professionisti del vigneto e quanto fosse indispensabile il tramandare le conoscenze e l’esperienza contadina viticola etnea alle generazioni future; il consorzio, di grata memoria, riparte dagli stessi principi. Nasce così un’associazione di aziende che, nella volontà comune di esprimere con massimo rispetto l’imprescindibile e fondamentale legame ambiente e uomo, condividono: l’uso esclusivo del sistema di allevamento ad alberello, la valorizzazione dei vitigni autoctoni, il rispetto dell’ambiente e, non ultima, la preziosa manodopera della Maestranza dei Vigneri, “uomini autoctoni siciliani”, custodi dell’antico sapere e interpreti concreti di un vero amore mirato a preservare la propria terra con un trasporto che solo un reale e non replicabile senso di appartenenza al luogo può concepire.

Oggi l’Etna ha una superficie vitata di circa 1200 ettari che rappresenta circa un decimo dei fasti del passato, dato dalla lettura ancora più eclatante se si considera che negli ultimi 10 anni la superficie vitata etnea è di fatto raddoppiata.  

A Muntagna, un’isola nell’isola

Il dialogo complice tra Fanny e Federico, dai toni pacati e di accurata precisione, subisce a un tratto una lieve trasformazione, un cambio di passo che, con una disposizione di ossequioso rispetto,  crea la giusta atmosfera per introdurre la terza importante presenza della serata: il vulcano, o meglio, “a Muntagna”, perché l’Etna è “fimmina”, un’isola nell’isola.

Ovunque volgi lo sguardo Lei è lì. Da 570.000 anni una presenza da cui è impossibile sottrarsi, che assieme avvolge, seduce, protegge e intimorisce; con i suoi 3357 m di altitudine, ad oggi, bisogna aggiungere, perché nel suo fluire lavico, ad amplificarne il fascino e avvalorarne la personificazione di cui è protagonista, continuamente muta e cresce (è salita di 30 m nel solo 2021). Sbuffa, fuma, borbotta, ruggisce, scuote e persino esplode di luce, energia, scintille e carezze polverose. Ammaliante e ipnotica risoluzione di contrasti, sa essere fuoco e ghiaccio, calura e brivido, arsura e abbeveratoio, arida terra madre e cornucopia. 

Largo il suo abbraccio che, proprio per la peculiarità del suo magma, a basso contenuto di silice e di fluida consistenza, si estende per ben 45 km di diametro. Una terra dalle grandi variabili: accentuate escursioni termiche che in estate possono raggiungere i 20/25 gradi di forbice, esposizioni che ruotano e si differenziano assecondando il profilo dei rilievi, variazioni altimetriche che raggiungono apici inconsueti per la viticoltura. E poi i suoli che rivelano di volta in volta ciò che il vulcano ha donato; stratificazioni composite che generano un mosaico di rara e mirabile diversità. Una fertilità tutta speciale, che ha del prodigioso nella sua esplosione di biodiversità e nel suo vigore non di rado tangibilmente visibile in estate, quando i rilievi dei monti Nebrodi, le “normali” montagne circostanti, si tingono di giallo e Lei, a Muntagna, rimane vivida di verdi e rigogliose scintille (anche se nel 2021 anche l’Etna ha sofferto la carenza idrica).

I suoi terreni derivano da pietra lavica, quanto di più inerte esista in natura, basti pensare che sono necessari almeno 100 anni perché i licheni, primi interpreti di colonizzazione, inizino ad affacciarsi, seguiti poi nel tempo dal fruscio delle ginestre; 400 sono invece gli anni necessari perché una colata torni a essere utilizzabile per produrre vino. 

Terra che è sabbia, pietra e cenere, un substrato di inconsistenza che non consente ai mezzi pesanti di andare nel terreno. Suoli sciolti, drenanti, per i quali i terrazzamenti divengono strumento indispensabile a contenere le sabbie che tendono a scivolare verso il basso. Una complessità intrinseca e impervia in cui la vite, amante di lotta e sofferenza, con tenacia millenaria, si aggrappa e dona, lotta e sopravvive.

«Etica, bellezza, eccellenza». L'alberello etneo secondo Salvo Foti 

«Tutti i miei vigneti seguono il modello tradizionale della viticoltura ad alberello, tipica del territorio etneo. Qui le piante non sono disposte in file: ognuna è un singolo individuo, posizionato a una distanza dagli altri uguale su tutti i lati e sostenuto da un palo di castagno» ci racconta Federico Graziani.

L’alberello etneo, introdotto dai Greci, ha qui trovato terra di elezione e, come vera entità, rappresenta l’anima stessa della viticoltura etnea più autentica e antica. Un metodo di allevamento che, grazie a un ottimale assetto vegeto-produttivo, consente alla vite uno sviluppo armonico e di perfetto equilibrio. Un’armonia che i Romani, nella loro assodata linearità di pensiero, riescono ulteriormente ad amplificare utilizzando in questi luoghi il quincunx, lo schema a quinconce, il sistema prediletto dagli agronomi latini per disporre le piante arboree, che prevede una disposizione geometrica di cinque punti come il cinque sui dadi; in questo caso, quattro alberelli ai quattro angoli e uno al centro così che ogni pianta venga a trovarsi ai vertici di un triangolo equilatero determinando una regolare e perfetta equidistanza tra vite e vite. Una cristallina simmetria, sintesi di ordine e bellezza, che da un lato sfrutta in maniera ottimale le superfici consentendo una elevata densità d’impianto (8000-10000 ceppi per ha), essenziale per compensare le ridotte quantità di uva prodotta al fine di raggiungere la maturazione polifenolica ideale, dall’altro salvaguarda l’area vitale della pianta. La vite sviluppa un’autonomia che ne accresce la resistenza, le radici hanno più spazio, si distendono circolarmente in tutte le direzioni e si spingono nei meandri del suolo sfruttando a pieno la ricchezza degli strati più profondi; l’apparato fogliare, grazie all’equidistanza tra le viti e alla loro altezza, che quasi completamente scongiura l’ombreggiamento tra pianta e pianta, gode di migliore irraggiamento e maggiore ventilazione, le operazioni di lavorazione e raccolta divengono più agevoli.

L'Etna del vino: 4 versanti e 133 contrade 

L’Etna DOC nasce nel 1968, ma è solo negli ultimi venti anni che, in maniera continua ed esponenziale, le reali potenzialità insite al territorio hanno trovato piena espressione. L’areale etneo si caratterizza per una evidente e sostanziale variabilità climatico/ambientale, una realtà dall’incredibile mutevolezza che, nell’arco della breve distanza, riesce a offrire scenari che passano dal sub tropicale al montano. La vicinanza del mare, la peculiare forma troncoconica del vulcano, l’altitudine e l’esposizione sono solo alcune delle componenti all’origine di tale multiformità. Come anticipato infatti, le colate laviche stesse, nel loro poliedrico apporto, hanno dato luce a un mosaico di terreni che molto spesso rivelano la propria eterogeneità con maggiore frequenza in direzione della verticalità più che dell’orizzontalità. 

L’area di produzione, a forma di “c” rovesciata, si estende a Nord, Est e Sud del vulcano ed è localizzata nei territori di 20 comuni della provincia di Catania. Prendendo come riferimento l’altitudine, è possibile individuare tre fasce principali per la coltivazione della vite, la prima nel versante Est che si esprime tra i 400 e i 900 m s.l.m., la seconda nel versante nord tra i 500 e gli 800 m s.l.m. e la terza, nel versante sud, che si estende dai 600 ai 1000 m s.l.m. Inoltre, proprio in virtù di una inequivocabile variabilità, a partire dal 2011, il disciplinare di produzione riconosce all’interno dell’areale di produzione la presenza di 133 contrade, legalmente equiparate alle “Unità Geografiche Aggiuntive” (Uga). Di recente, un moderno e accurato studio di ricognizione del territorio, oltre a sancire una nuova demarcazione dei confini, ha consentito l’individuazione di nove nuove contrade che entreranno in vigore una volta inserite ufficialmente nel prossimo aggiornamento del disciplinare di produzione.

Il Versante Nord, grazie a una appena maggiore “docilità” del paesaggio e alla conclamata fama di alta vocazione, è la zona con il maggior numero di produttori. Si distingue per un clima relativamente più rigido (ha infatti, con 800 m s.l.m., il limite di altitudine più basso, tra tutti i versanti, per la coltivazione della vite), grandi escursioni termiche e una discreta piovosità. Il vitigno prevalente è il nerello mascalese, da cui derivano, con piccoli saldi di altre varietà autoctone, vini rossi di grande finezza e austerità.

Il Versante Est rivela un territorio dai profili decisamente più scoscesi che declinano verso il mar Ionio. La vicinanza del mare si manifesta con una rilevante piovosità, che può giungere fino a 1800mm di media annua, e una non secondaria spiccata ventilazione. La conformazione aspra del territorio vede il prevalere di terrazzamenti di limitata estensione con impianti ad alberello che arrivano fino ai 900 m s.l.m. L’ambiente poco favorevole alla maturazione ottimale del nerello mascalese, ha determinato il dominio del carricante che qui si esprime regalando vini dalle doti di eleganza, freschezza, sapidità e longevità.

Il Versante Sud-Est gode di un’ottima luminosità e del benevolo potere mitigante del mare. Rappresenta una zona di perfetto equilibrio in cui nerello mascalese e carricante riescono entrambi a esprimersi al pieno delle proprie potenzialità.

Il Versante Sud-Ovest, con i vigneti che si inerpicano fino a raggiungere e persino superare la quota dei 1000 m s.l.m., è il meno piovoso e il più esposto al soffio dei venti caldi. L’intensità della luce è notevole così come l’esposizione ai raggi solari. Nerello cappuccio, carricante e nerello mascalese convivono serenamente, con quest’ultimo che, al momento sembra qui originare vini il cui profilo rivela dei contorni più decisi e marcati rispetto a quelli del versante nord.  

Federico Graziani: «un vino non deve essere perfetto. Deve essere vero»

Federico Graziani arriva sull’Etna nel 2008, la sua azienda è la numero 36/37, ora ce ne sono circa 170! Ma come ci è finito un romagnolo di Ravenna sull’Etna? La risposta è molto articolata perché, come precisa Federico, che di amarcord se ne intende, «le esperienze fatte in passato tornano tutte e insegnano. Se oggi i miei vini hanno queste caratteristiche è perché nascono da una raccolta di informazioni e di incontri».

È grazie a Giancarlo Mondini che, all’età di 15 anni, in un’epoca in cui ancora poco si parlava di cultura del vino, intraprende (con deroga speciale) il corso per diventare sommelier. Nel 1994 muove i primi passi come sommelier professionista nel ristorante Gigiolè di Brisighella. Ma è nel 1996 che avviene la svolta fondamentale, l’incontro con Gualtiero Marchesi, la persona che più in assoluto gli ha aperto la mente, una figura di «sensibilità e visione senza eguali». Il suo primo tre stelle con una carta dei vini da 1200/1300 referenze!

Nel 1998 un altro importante traguardo, spinto dalla volontà di doversi sempre confrontare e comprendere punti di vista diversi, si mette in gioco e vince il titolo di miglior sommelier d’Italia. Il cammino prosegue in un’ottica di continuo arricchimento e nel 2000, dopo tre anni in Inghilterra torna in Italia e intraprende un’altra incredibile avventura nel ristorante di Cracco. Un’esperienza al limite dello stordimento per qualunque sommelier di così giovane età, una carta dei vini seconda solo a quella dell’enoteca Pinchiorri; 2000 referenze e la libertà di spaziare in ogni direzione, senza praticamente limiti, nel gotha dell’enologia mondiale, quando ancora era possibile prendere «12 annate di Petrus, anziché 6». Un’ubriacatura sensoriale che si interrompe dopo due anni per una non semplice convivenza caratteriale tra le due teste di serie coinvolte.

Ecco il tempo di Aimo Moroni e la moglie Nadia, una situazione completamente diversa, un lavoro in un due stelle con persone che di fatto divengono la sua famiglia di Milano, dove rimane per ben dieci anni. Un grande insegnamento di umanità e soprattutto umiltà, a partire dal dover definire una carta non più onnivora, ma molto più ristretta, dettata da scelte mirate frutto di conoscenza e consapevolezza sempre più approfondite. È in questi anni che Federico idea una carta inconsueta, che nell’approcciarsi al cliente vuole suggerire sensazioni oltre che etichette; una carta suddivisa per temi: l’Etna, il riesling come varietà, la freschezza dei vini delle Alpi, la biodinamica, i vitigni autoctoni, la poesia, ma anche Romanée-Conti, e poi ancora, nuove tecniche di antichi saperi, il percorso del cabernet, nebbiolo e sangiovese, classici e moderni, barolo boys e supertuscan.

Federico, mai pago, mentre lavora da Aimo e Nadia, si iscrive all’università dove ha il privilegio di incontrare Attilio Scienza, agronomo, personaggio di fama mondiale nel settore viticolo/enologico, uomo appassionato, semplice e dal bagaglio culturale di ineguagliabile ricchezza. Federico si laurea in enologia, ma è consapevole di preferire la viticoltura. In questo periodo si dedica inoltre a pubblicazioni tematiche di notevole spessore, una per tutte, l’Atlante Geologico dei Vini d’Italia, in collaborazione proprio con il grande Attilio Scienza.

E poi arriva Lei, a Muntagna e con Lei l’imprescindibile Salvo Foti, riferimento assoluto della viticoltura etnea, ineguagliabile maestro di accoglienza, conoscitore incomparabile di ogni singolo anfratto di quella terra di fuoco e di ghiaccio, generosa fonte di apprendimento, sacro custode di un atavico, radicato, prezioso e antico sapere.  Nel 2008, in occasione del suo secondo viaggio in Sicilia (il primo viaggio risaliva al 2006) Federico si ritrova, in quel di Passopisciaro, a mangiare una granita proprio con Salvo; uno dei titolari delle tre macellerie del paese si avvicina per chiedere lumi al vate etneo su quale fosse il momento più opportuno per espiantare una vecchia vigna di viti centenarie di sua proprietà. Come noto, il richiamo tra sommelier e vecchie vigne è di norma già irresistibile quando si parla di bottiglie, figuriamoci quando Federico sente parlare di espianto di tale prezioso tesoro. Non rimane infatti insensibile e, senza nemmeno prendersi il tempo di analizzare razionalmente la situazione, va a vedere la vigna e, con l’aiuto di Salvo, riesce ad acquistare il «piccolo campo di calcio vitato». Nel 2010 arriva la prima annata di Profumo di Vulcano. «Grazie alla collaborazione con I Vigneri, ho iniziato la produzione del mio primo vino, Profumo di Vulcano, con il prezioso supporto di Salvo Foti e Maurizio Pagano. Un vino che esprime la mia volontà di condividere il valore di un’esperienza speciale. Il frutto di un incontro con le tradizioni e i sapori di una terra unica.» Federico sogna un’etichetta su cui svetti discreto il profilo di una casetta, stile Borgogna, ma Giuseppe Moroni, famoso parrucchiere di un rinomato atelier, nonché parente di Aimo e Nadia e amico di Federico, è di un altro avviso. Facendo leva sulla passione da entrambi condivisa per il Pergole Torte, mostra al novello viticoltore un catalogo che raccoglie alcune sue opere realizzate in smalto, catrame e colori acrilici. Ed eccola lì l’etichetta di Profumo di Vulcano, pronta e perfetta, con il suo fuoco e la sua lava; a dispetto del sogno, la scelta diventa inevitabile. 

La rievocazione dei molteplici tasselli che, passo dopo passo, hanno contribuito a disegnare il mosaico di esperienze di cui il Federico attuale e i suoi vini sono fedele espressione, non può prescindere dal citare, con grande riconoscenza, Antonio Capaldo e gli otto anni di fondamentale collaborazione presso i Feudi di San Gregorio.

La famiglia dell’Etna, un progetto a tutto campo

«Salvo Foti è l’Etna, il riferimento assoluto da cui partire. È da lui che ho appreso che sull’Etna non si può arrivare con presunzione è necessario il confronto. Fondamentale non è tanto la lavorazione della terra, ma la gestione degli uomini. Un progetto che ha come fulcro il condividere tutto quello che si sta facendo. È necessario incentivare, dare la giusta motivazione a tutte quelle persone che realmente qui si spaccano la schiena, perché sull’Etna lavorare la terra non è per tutti; è fatica vera alla ricerca di una cura assoluta, in tutto quello che si fa, una abnegazione totale che può nascere solo da un atto d’amore. Per i primi dieci anni, nel periodo della potatura, non mi hanno nemmeno consentito di prendere le forbici in mano, ci tengono talmente tanto a portare a compimento il frutto, che non volevano farmi rovinare le mie vigne; una reazione spontanea per chi con quelle piante e con quei luoghi condivide un legame imprescindibile, profondo, intoccabile. Non si tratta solo di vino, è un disegno più ampio che mira a far lavorare le persone tutto l’anno, preservando il paesaggio, ristrutturando case e muretti; creare una continuità che consenta di poter preservare queste maestranze di grandi competenza e affezione. Memoria storica della vera e concreta cultura della viticoltura che ha consentito, proprio per la capacità di tramandare il come si lavora in vigna, di far resistere un vigneto per 130 anni! Non potrei mai rinunciare a nessuno di loro, non potrei mai togliergli la gioia del raccogliere il frutto di così tanto impegno e fatica. Per ringraziarli, ogni anno, durante la vendemmia, il minimo che posso fare è cucinare per tutti una sorta di pranzo di Babette».

La degustazione

Terre Siciliane Bianco IGT Mareneve 2020

«Mareneve ha solo un problema, è un vino non replicabile per la combinazione unica dei suoi vitigni e per la collocazione geografica del suo vigneto»

Il vigneto di Mareneve, versante Nord-Ovest, Contrada Nave (Bronte), nasce dall’idea di voler sperimentare sul campo la risposta di vitigni da climi freddi in un contesto di altitudine estrema (1200m s.l.m.) e suolo vulcanico. Accanto ai preesistenti riesling renano, grecanico e gewürztraminer (impiantati ad alberello nei primi anni Duemila), nel 2013 Federico affianca lo chenin blanc. La prima vinificazione, ottenuta da questo singolo vigneto promiscuo, rivela toni spiccatamente aromatici che non incontrano pienamente i favori di Federico. L’anno successivo, proprio nell’intento di definire un profilo più affine al suo gusto, Federico inserisce l’anima siciliana di un 30% di carricante proveniente da un vigneto di un altro versante.

Il vino prende il nome da una via, che poi diventa strada e tortuosamente collega il Versante Est con il versante Nord. Luminosissimo al calice con lievi riflessi verdolini. Il naso seduce con una dinamica che alterna un delicato tocco di sentori, pesca bianca, ananas, rosa, ginestra con un profilo sfacciatamente fresco e intenso, pompelmo, bergamotto, pietra lavica e perché no, salsedine. Anche al palato due anime distinte felicemente convivono, la sferzata fresca e vibrante dell’altitudine e il gusto intenso del sale. La neve e il mare.   

Etna Rosso

L’Etna Rosso nasce da vigne situate nel Versante Nord nelle zone di Passopisciaro, Solicchiata e Montelaguardia ad un’altitudine compresa tra i 650e gli 800 m s.l.m.; i suoli sono sabbiosi e ricchi di scheletro. Montelaguardia «è un clos, o meglio una vigna- giardino. Tre ettari di vigneto delimitati da un muro di cinta. Su tre lati il bosco, poi ulivi e alberi da frutta, un microcosmo alla fine della denominazione»

Etna Rosso DOC 2016

Rosso rubino, trasparente e luminoso. Raffinato il bouquet floreale di iris, poi il lampone e la freschezza agrumata del mandarino. Sullo sfondo un soffio fumé e un accenno di goudron. Perfettamente integro al palato, vitale, fresco, gustoso, con un tannino sottile, non aggressivo, che invita alla beva. Lunga la persistenza dove torna l’agrume nelle vesti di una succosa arancia rossa.

Etna Rosso DOC 2018

Splendente rosso rubino con una trasparenza ancora più accentuata dell’annata precedente. Timido l’esordio con una lievissima sensazione sulfurea che, come spiega Federico «è dovuta a un minimo di riduzione per mancanza di ossigeno. La 2018 è stata un’annata difficile, ha piovuto ogni singolo giorno in settembre. I vini sono usciti molto sottili e non è stato possibile ricorrere a quel 5/12% di legno che normalmente utilizzo per dare ossigeno».
Quando si apre si svelano sentori floreali cui seguono piccoli frutti rossi, la corniola, la ciliegia selvatica leggermente asprigna. In bocca la vibrante acidità enfatizza la sensazione tannica, anche se, precisa ancora Federico: «la macerazione è stata molto corta proprio per fare sì che i tannini provenissero solo dalla buccia e non dai vinaccioli, la cui cera di fatto inizia a essere intaccata dall’alcol solo dopo otto giorni macerazione, con conseguente cessione tannica». La chiusura è lunga e pulita sulla scia di una golosa e stuzzicante vena salina. 

Etna Rosso DOC 2019

Rosso rubino brillante dalla trasparenza di maggiore fittezza colorante rispetto alla 2018. Subito generoso e suadente il bouquet olfattivo, frutta rossa, ciliegia, arancia e una raffinatissima nuvola di cipria, un cosmetico. L’equilibrio dell’annata si rivela nel disegno preciso, sfaccettato, nitido e ricco dei profumi che regalano una bellissima complessità delle componenti aromatiche. «Più si allunga il tempo più c’è il tempo di maturare. Qui il circa 10% di legno non invade ma dona eleganza perché fornisce quel minimo di ossigeno. Il frutto è ancora pieno». Al gusto la freschezza è di irresistibile godibilità, i tannini sono perfettamente maturi. La persistenza è lunghissima e di elegantissima fattura. Un vino di classe che promette longevità. «Emerge il vino fatto da un sommelier, fatto per la tavola. Dinamico, un po’ nervoso, stimolante che irresistibilmente chiama per il secondo bicchiere».

Etna Rosso DOC Rosso di mezzo 2018

Interessante il confronto con la stessa annata del Rosso dell’Etna, anche qui solo acciaio, per due anni, ma cambia la vigna. Rosso di Mezzo, infatti, nasce dalla difficile annata 2018, dal declassamento di Profumo di Vulcano e dalle sue meravigliose vigne centenarie.

Un vino di sorprendente purezza, sin dal colore rubino brillante. La schiettezza dell’acciaio e la complessità del vigneto centenario restituiscono un profilo di straordinaria ricchezza. Pasta di olive, erbe aromatiche, maggiorana, macchia mediterranea, origano, mandarino. Un sorso di assoluta bevibilità. Immediato, fremente di acidità, con tannini grintosi, di gusto e perfettamente compiuti. Finisce troppo in fretta nel bicchiere, ma la scia di piacere permane senza compromessi e pretende il rabbocco.

Non a caso questo vino è il protagonista di quello che Federico considera il più grande complimento mai ricevuto per una sua bottiglia: il video di un amico dove due signori di Digione (la località di provenienza non fa che amplificare la gioia) a cena in un prestigioso resort nei pressi di Sciacca, non ancora paghi, né desiderosi di assaporare altro, si accingono ad aprire la terza bottiglia consecutiva dello stesso vino: il Rosso di Mezzo. 

Il problema è come replicarlo! Nel tentativo, Federico ha piantato un vigneto a piede franco per integrare le uve attualmente provenienti dai vigneti di Passopisciaro, dai quattro appezzamenti della contrada di Feudo di Mezzo, per poi vinificarlo esclusivamente in acciaio. Nel 2023 la vinificazione sarà a grappolo intero «perché il piede franco consente a raspo e chicco di maturare contemporaneamente». Che vino sarà? Impossibile saperlo a priori.

Etna Rosso DOC Profumo di Vulcano 2020

Profumo di Vulcano nasce da una vigna-giardino risalente alla fine dell’Ottocento. Siamo nel versante Nord, nella Contrada Feudo di Mezzo, frazione di Passopisciaro a 600m s.l.m. Età media delle piante 100 anni.

«Non ha senso parlare di nerello mascalese in purezza, una parola che oltretutto a me crea l’orticaria perché non appartiene alla natura. La natura istintivamente va a cercare gli equilibri, e qui è quello che è successo. Varietà diverse che convivono e che nel tempo hanno trovato la giusta proporzione. Ad esempio, più si sale di quota, più aumenta la presenza di alicante, il vitigno che garantiva maturità anche in annate più difficili. Le piante, alcune prefillossera, sono vivi testimoni delle migliori specie autoctone etnee – nerello mascalese e cappuccio, alicante e francisi – unite a una quarantina di piante a bacca bianca che generalmente vengono raccolte e vinificate insieme».

Rosso rubino intenso, profondo e di luminosa trasparenza. Il naso, intenso e ricco, restituisce un profilo complesso che fedelmente rimanda al caos varietale del vigneto di provenienza.  La matrice di macchia mediterranea dilata il respiro con fresche note di piccoli frutti rossi fragranti, il mirtillo e il lampone selvatici, e cenni di erbe aromatiche; poi l’arancia sanguinella da cui emergono intriganti sentori di spezie dolci, legno di sandalo, e tabacco. Il sorso è dinamico, tenuto in tensione da una sferzante acidità e da una trama tannica vivace ma perfettamente integrata. Splendido il richiamo balsamico ad esaltarne l’ariosa freschezza. È un vino che si aggrappa al palato, rimane lì con quella sua golosissima e infinita scia di gusto che è insieme dolce e salata.

Non resta che ringraziare Fanny, attenta, accurata e rispettosa, il cui curioso girovagare per terre di vino ha condotto sulle tracce di Federico; il destino, che tirando i fili di favorevoli e fortuite casualità li ha fatti incontrare lassù, tra le vigne secolari della montagna di fuoco e ghiaccio, dove la terra più che mai mostra il suo essere viva e pulsante, e Federico, che generoso ha narrato i suoi vini, espressione sincera e coerente della sua anima e della storia che fino a qui lo ha condotto e plasmato.