Le alterazioni dei vini: come riconoscerle – Parte seconda

Il riconoscimento dei principali difetti sensoriali dei vini, con l’aiuto di Giuliano Boni, prosegue mettendo a dura prova le narici dei partecipanti.

Giulia Cacopardo

I composti solforati presenti nei vini sono molto numerosi e la gran parte di questi gioca un ruolo importante nel conferire aromi ai vini. «In un vino possono essere presenti oltre 40 molecole contenenti zolfo, ma non tutte hanno valenza negativa. Se pensiamo, ad esempio, ai profumi del sauvignon, alcuni di questi sono appunto riconducibili a molecole di zolfo» dice Boni. Altri composti, invece, causano, anche a basse concentrazioni, odori sgradevoli di uovo marcio, gas, cavolfiore, comunemente associati al cosiddetto “gusto di ridotto”. Si tratta di alterazioni legate ai composti solforati volatili, generate prevalentemente dai lieviti durante la fermentazione alcolica.

Tra i più comuni troviamo: 

Idrogeno solforato
Odore: uovo marcio; dose nel campione: 3 μg/L; soglia di riconoscimento: 0,8 μg/L
Alcuni ceppi di lieviti sono in grado di metabolizzare più idrogeno solforato di altri, influendo sulla sua presenza residua a fine fermentazione. È importante, dunque, la scelta del ceppo di lievito per prevenirne l’accumulo. In seguito, è possibile intervenire con l’ossigenazione in fase di fermentazione o, all’inizio della fase di affinamento, con una micro-ossigenazione o con l’impiego di tannini ellagici in grado di combinarsi con i composti solforati. Anche il solfato di rame, aggiunto in fase di imbottigliamento, si combina con i composti solforati, ma non è indicato per vini di lungo invecchiamento poiché nel tempo si idrolizza andando a liberare di nuovo i composti solforati in bottiglia. Infine, le fecce fresche di lievito assorbono i composti solforati attraverso le proprie pareti cellulari, ma anche questo legame risulta reversibile: se le fecce sono sottoposte a una forte pressione idrostatica, si compattano sul fondo del contenitore e rilasciano nuovamente i composti assorbiti.

Etantiolo
Odore: cipolla, aglio, gas naturale; dose nel campione: 2,5 μg/L; soglia di riconoscimento: 1,1 μg/L
L’etantiolo deriva dalla reazione diretta dell’alcol etilico con l’idrogeno solforato. Le molecole di etantiolo tendono a legarsi fra loro e a formare dietil-disolfuro. In questo caso il difetto è ancor più difficile da eliminare.

Metionolo
Odore: cavolfiore, patata, geranio; dose nel campione: 2 mg/L; soglia di riconoscimento: 1,2 mg/L
Oltre a sentori di “ridotto”, il metionolo conferisce al vino anche un gusto amaro. Esiste una forte correlazione tra la disponibilità di azoto nel mosto e la formazione di sentori di “ridotto” dovuta al complesso metabolismo dei lieviti in fase di fermentazione. «Se nel mosto termina l’azoto di cui il lievito ha bisogno, il lievito, anziché trattenere su di sé lo zolfo (a sua volta trasformato in solfuro), lo rimette nel mosto provocandone un accumulo e conferendo al vino una nota maleodorante» spiega Boni. Se il mosto sta andando in riduzione, si può aggiungere azoto per eliminare la nota di ridotto. Effettuando trattamenti di chiarifica si previene la formazione di metionolo. È necessario, tuttavia, trovare il giusto equilibrio tra livello di torbidità e trattamenti, poiché eccedendo con quest’ultimi, il mosto può risultare povero di azoto e conseguentemente soggetto all’accumulo di idrogeno solforato.


I fenoliI difetti dovuti all’invecchiamentoin cantina sono imputabili al metabolismo dei Brettanomyces spp., lieviti contaminanti in grado di stravolgere le caratteristiche, il fruttato e gli aromi varietali dei vini rossi.
Questi lieviti si sviluppano in presenza di un minimo quantitativo di zucchero residuo nel vino e si annidano nell’ambiente di cantina, in particolare sul fondo di vasche e barrique. Poiché hanno pochissime esigenze nutrizionali, riescono a svilupparsi facilmente e sono, inoltre, resistenti alla solforosa. Per prevenirne la formazione è importante osservare una scrupolosa igiene in cantina ed effettuare controlli microbiologici frequenti.

I fenoli volatili, detti “odori Brett”, sono riconducibili a differenti sostanze:

4-etil-guaiacolo
Odore: nota affumicata, chiodi di garofano; dose nel campione: 300 μg/L; soglia di riconoscimento: 100 μg/L
Non è una sostanza di per sé particolarmente sgradevole, in quanto affumicata e speziata, ma la sua presenza è spesso associata a quella del 4-etil-fenolo.

4-etil-fenolo
Odore: stalla, sudore di cavallo; dose nel campione: 500 μg/L; soglia di riconoscimento: 420 μg/L
Influisce soprattutto sulla nota fruttata e il vino risulta più astringente all’assaggio. In tutti i vini affinati in legno la percezione di 4-etil-fenolo diminuisce, tuttavia è considerata una delle sostanze più temute. Deriva dagli acidi fenolici, costituenti delle uve, che tramite una doppia azione di decarbossilazione e di riduzione vengono trasformati in etil-fenolo. I Brettproducono, inoltre, acido acetico, acetato di etile, acidi grassi come l’acido isovalerico e anche la tetraidropiridina (“gusto di topo”).

Acido isovalerico
Odore: formaggio rancido; dose nel campione: 2 mg/L; soglia di riconoscimento: 1 mg/L


Il contenitoreBenzaldeide
Odore: mandorla amara, colla liquida; dose nel campione: 30 mg/L; soglia di riconoscimento: 2-3 mg/L
La benzaldeide può essere presente nel vino per la concomitanza di due diversi fattori: che il vino sia conservato in vasche di cemento vetrificate in cui la resina non sia stata applicata correttamente e che le uve di provenienza siano state colpite da Botrytis. Le resine utilizzate per i rivestimenti delle vasche in cemento contengono un plastificante, l'alcol benzilico, che può contaminare il vino se la resina non è applicata correttamente e, nel caso di presenza di Botritys, questa produce l’enzima alcol benzilico ossidasi che, combinato con l'alcol benzilico, conferisce al vino una nota dominante di mandorla amara.

Le sostanze responsabili dei difetti connessi all’affinamento in bottiglia possono avere origine da fattori molto diversi fra loro.

Dimetildisolfuro (DMDS)
Odore: cavolo o cipolla (“gusto di luce”); dose nel campione: 120 μg/L; soglia di riconoscimento: 0,40 μg/L
La nota di cavolo non è riconducibile a fenomeni di riduzione del vino, ma a un fenomeno, comunemente conosciuto come “gusto di luce”, che si verifica nei vini bianchi o rosati, soprattutto spumanti, imbottigliati in vetro trasparente. La molecola responsabile, il dimetildisolfuro, è generata dall’esposizione del vino alla frequenza di radiazioni luminose che ricadono nello spettro del blu e dell’ultravioletto. L’utilizzo di bottiglie di colore verde scuro o di film protettori (pellicola di cellophane) previene il fenomeno. È, inoltre, opportuno fare attenzione all’uso di lampade a LED per l’illuminazione della cantina.

2-amino-acetofenone (AAP)
Odore: naftalina, miele; dose nel campione: 15 μg/L; soglia di riconoscimento: 0,7-1 μg/L
Il famoso odore di “cassetto della nonna” descrive un fenomeno conosciuto come “invecchiamento atipico dei vini bianchi”. La presenza di 2-amino-acetofenone nei vini bianchi è stata ricollegata a specifici ambienti pedoclimatici - come le aree geografiche di Germania, Svizzera, Alsazia, Bordeaux e Borgogna - e a particolari situazioni di stress del vigneto, come apporti non corretti d’acqua o d’azoto. Non sono stati, tuttavia, ancora del tutto chiariti i meccanismi biochimici che ne causano la formazione. Ciò che si è rilevato è che, in fase di affinamento in bottiglia, alcuni vini bianchi secchi presentano segnali di invecchiamento prematuro, come il cambiamento del colore verso tonalità aranciate e la perdita degli aromi fruttati tipici dei vini giovani.

I difetti di “tappo” sono considerati fra i più dannosi in quanto ineliminabili. Comunemente si dice che un vino “sa di tappo”, se si percepisce un odore che ricorda la muffa. Questa sensazione è riconducibile a tre distinte molecole, che all’esame olfattivo si esprimono similmente:

Tribromoanisolo (TBA)
Odore: muffa, odore polveroso; dose nel campione: 15 ng/L; soglia di riconoscimento: 0,5-3 ng/L
Nel caso di contaminazione da TBA o da tetracloroanisolo, le cause sono imputabili soprattutto a fattori legati all’ambiente della cantina e non propriamente al tappo. Derivano da residui di prodotti antimuffa utilizzati per il trattamento dei legni.


I tappiTricloroanisolo (TCA)
Odore: muffa; dose nel campione: 10 ng/L; soglia di riconoscimento: 1-3 ng/L
Nella quasi totalità dei casi, la contaminazione proviene dal tappo di sughero, dovuta sia al trattamento delle sugherete con insetticidi a base di cloro sia a trattamenti, nelle fasi di lavorazione del sughero, con acque di lavaggio clorate. In rari casi la contaminazione da TCA è imputabile a prodotti a base cloro con cui sono state lavate le vasche di raccolta del vino.

Tetracloroanisolo (TeCA)
Odore: muffa; dose nel campione: 50 ng/L; soglia di riconoscimento: 20 ng/L
All’esame gustativo, si percepisce una nota amarognola. L’origine del TeCA era legata all’utilizzo di legni trattati con un principio attivo fungicida, il pentaclorofenolo (PCP), in seguito vietato dalla normativa e sostituito dal tribromofenolo (TBP), che può portare comunque alle stesse dannose conseguenze.
La formazione dei difetti di tappo si previene ponendo attenzione all’eliminazione di legni trattati con cloro o bromo, verificando le acque di rete affinché non siano eccessivamente clorate, evitando l’uso di sanificanti a base cloro, effettuando controlli a campione sui tappi di sughero o utilizzando tappi di altro materiale.