Marsala – Prima parte
Marsala rappresenta oggi un territorio complesso che sta provando a emanciparsi e a farsi conoscere nella sua interezza, senza rinnegare il vino che l’ha resa celebre. Con Giorgio Fogliani, autore di un libro che ne indaga tutte le complesse sfumature, abbiamo approfondito questa doppia anima, le sue caratteristiche e le sue peculiarità.
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Marsala si trova nel punto più occidentale della Sicilia, di fronte all’arcipelago delle Egadi. Il vino prodotto in questa zona si fregia della Denominazione di Origine Controllata ma, così come è individuata dal legislatore, risulta essere molto estesa. Per raccontarne il territorio, Giorgio Fogliani, il Virgilio di questo viaggio, ha cercato di circoscriverlo ricercando una coerenza interna.
La zona in cui ci si concentrerà in questo mini-master in due serate, ricomprende il comune di Marsala, una parte di Trapani, Petrosino, una parte di Campobello di Mazara e una parte di Castelvetrano. Questa è una fascia di territorio che si estende in prossimità del mare, da nord a sud e per una trentina di km, dall’aeroporto di Birgi fino a Mazara, e da est a ovest per circa 20 km, coincidendo con il bacino del fiumiciattolo Sossio.
Al suo interno possiamo trovare una laguna, detta dello Stagnone, quasi protetta da un’isola, l’Isola Lunga. Qui vi si trovano altre isolette a completare questo territorio, affascinante e particolare, che ospita delle saline, riserve naturali, con caratteristiche uniche di flora e fauna.
L’altitudine è molto limitata (circa 150-160 m s.l.m.) mentre dal punto di vista geologico è un territorio abbastanza recente, risalente al Quaternario, con terreni molto poveri, composti da sabbia e calcare e, come tali, perfetti per la coltivazione della vite. Gode di una insolazione ideale con una media di 10 h giornaliere, fa molto caldo, piove molto poco (circa 450 mm all’anno) ed è una terra battuta dallo Scirocco che, quando non soffia forte, accelera la maturazione delle uve.
Ampelografia
I vitigni coltivati sono perlopiù bianchi: grillo, catarratto e, in minima parte, inzolia e damaschino. I vitigni a bacca nera, soprattutto perricone (o pignatello) e nero d’avola; seguono nerello mascalese, frappato, syrah e i bordolesi.
Il grillo è l’uva più importante del territorio: sembrerebbe esser nata da un incrocio tra moscato e catarratto, creata forse da un barone, Mendola, che l’avrebbe chiamata moscato Cerletti (dedicandola a un amico), ma rimangono dubbi che si tratti effettivamente della stessa cultivar. Infatti, il vino prodotto con il vitigno creato dal barone veniva descritto come molto influenzato dal moscato. Il grillo, invece, è un’uva pressoché neutra. Ma che i genitori siano moscato e catarratto è quasi certo: l’ipotesi più accreditata è che, parallelamente agli esperimenti del Mendola, esistesse un incrocio naturale delle due uve, il che spiegherebbe il DNA coincidente, ma anche le differenze rispetto alla descrizione del vino da moscato Cerletti. Dal 2017 i vini possono riportare in etichetta il nome del vitigno solo se sono delle DOC, impedendone l’uso all’IGP Terre Siciliane. È, a oggi, la terza uva coltivata in Sicilia, avendo avuto un grandissimo incremento di produzione in questi ultimi anni. Si tratta di un’uva coltivata prevalentemente in zone costiere, su terreni poveri, con un buon livello di acidità anche a maturazioni molto spinte, piuttosto versatile in cantina.
È il catarratto il vitigno più coltivato in Sicilia, secondo bianco in Italia, dopo il trebbiano; ha carattere più rustico del precedente, coltivato generalmente su terreni argillosi. La sua storia è, contrariamente al grillo, certa, in quanto attestata da un catalogo di fine ‘600. Se ne conoscono 3 biotipi: comune, lucido ed extra-lucido. Dal punto di vista del patrimonio genetico si tratta della stessa uva anche se normalmente il lucido si dice essere meno potente e più fine del comune e così l’extra-lucido rispetto al lucido. Ultimamente il legislatore ha consentito di apporre in etichetta il termine “lucido” per indicare il catarratto, a prescindere da quale sia il clone, creando così una certa confusione.
Fra gli altri vitigni bianchi abbiamo lo zibibbo che altro non è che il moscato di Alessandria. Non molto diffuso a Marsala, se non come uva da tavola, è vinificato esclusivamente come vino secco.
L’inzolia, detta ansonica o ansonaco in altre parti d’Italia, in Sicilia è in arretramento; una volta veniva utilizzato anche per il Marsala, ma oggi si preferisce il grillo. È un’uva rustica, che non brilla per acidità e che, a maturazioni spinte, tende ad appesantirsi, ma rappresenta qui un’uva storica, tradizionale.
Per quanto riguarda le uve rosse, il pignatello è l’unica uva autoctona della Sicilia occidentale e stava rischiando di sparire. Per fortuna, negli ultimi anni sta crescendo nuovamente: gli ettari vitati sono, infatti, raddoppiati dal 2010. Dà vini potenti, ricchi di antociani, non estremamente cesellati, ma sicuramente gustosi.
Il nero d’Avola è molto più noto ma, rispetto agli anni ’90, in cui si utilizzava per produrre vini potentissimi e molto concentrati, quasi pseudo-zuccherini, è un po’ in discesa. Oggi ci si è però resi conto che, se coltivato nelle zone idonee e vinificato correttamente, è in grado di dare vini di una certa finezza. A Marsala non se ne produce molto. Piccola curiosità etimologica: può essere chiamato anche calabrese, ma non ha nulla a che vedere con la Calabria; si tratta piuttosto di un errore di traduzione dal siciliano antico, in cui suonava calea aulisi (uva di Avola) e che è stato traslitterato in maniera errata come calabrisi.
Infine, il nerello mascalese, un’uva che appartiene alla zona dell’Etna (il suo nome fa riferimento a Mascali, un comune ubicato alle pendici del vulcano) che a Marsala viene poco utilizzato. Ha pochissimi antociani acilati e quindi il colore nel tempo tende a crollare, ma presenta un’importante dotazione tannica.
Il sistema di allevamento utilizzato a Marsala era l’alberello, molto diffuso fino agli anni ’80, ma che oggi, a seguito della meccanizzazione dell’agricoltura, è stato sostituito da impianti a spalliera poiché difficile da gestire. Dove permane, senza il palo di castagno a sostenerlo come invece sull’Etna, ha la virtù di dare uve più concentrate e di avere maggior resistenza allo stress idrico e a condizioni più estreme; oggi se ne stima una presenza intorno al 6%.
Cenni storici
Il 1773 è considerato l’anno zero per Marsala: è l’anno in cui sbarca sull’isola Woodhouse che ha dato vita a un’epopea di produzioni “inglesi” (argomento che sarà trattato, approfonditamente, nella seconda parte). La storia vitivinicola della zona è, però, ampiamente antecedente: nel IX secolo a.C. la Sicilia era divisa tra Greci a est e Fenici a ovest. Quando le due civiltà entrano in collisione, i Fenici risultano perdenti e i Cartaginesi, che avevano il loro centro a Mothia, nella laguna dello Stagnone, fondano Marsala chiamandola Lilibeo. La conquista romana porta alla grande diffusione della vite. Come in molte altre parti d’Italia e d’Europa, le prime attestazioni di vigneti legati ai conventi si hanno durante l’Alto Medioevo. Lo stesso avviene anche qui, come documenta un’epistola di Papa Gregorio Magno in cui si cita la concessione di vini a un convento della zona. Quando la Sicilia viene conquistata dagli Arabi, Lilibeo viene rinominato Marsa-Alì (porto di Alì) ed è proprio durante questo periodo che Marsala conosce uno dei suoi momenti di maggior splendore. Nel 1410 smette di importare vino riuscendo a soddisfare autonomamente il proprio fabbisogno e in seguito inizia anche a esportarlo (è datato 1698 un documento che ne attesta la commercializzazione verso Malta).
Uno scritto di fine ‘800 racconta come i vignaioli di Marsala riuscissero a godere di un certo benessere grazie a un meccanismo di distribuzione del lavoro della terra che funzionava bene, probabilmente anche per merito degli inglesi. In quell’epoca, anche se la maggior parte delle testimonianze fa riferimento al Marsala, si diffonde anche una tradizione non ossidativa dei vini, definiti “vini da tavola”, dando al termine un’accezione diversa rispetto a come la intendiamo oggi, proprio per distinguerli dai vini ossidativi.
Marco De Bartoli
Figura centrale sia per i vini ossidativi di Marsala che per le altre tipologie, è stato un personaggio innovativo e intelligente, non molto ascoltato nella prima parte della sua vita, ma che ha posto le basi per la rinascita di questo territorio. Figlio dell’alta borghesia produttiva marsalese, nasce nel 1945. Nonostante entrambi i genitori fossero produttori importanti di Marsala, ben presto, a causa del carattere ribelle e delle idee non proprio convenzionali, entra in collisione con la famiglia, non condividendo le modalità produttive approssimative. Ritiratosi in contrada Samperi, decide di fondare la propria azienda. Procuratosi vecchie botti di Marsala di inizio ‘900, comincia a costruire un piccolo storico con cui comincia a mettere in piedi il suo progetto.
Con il primo vino prodotto, il Vecchio Samperi, crea da subito un po’ di scompiglio sebbene questo non fosse un Marsala a tutti gli effetti. Da subito molto apprezzato in Italia e in Europa, sia dal pubblico che dalla critica, compreso Veronelli con cui stringe una forte amicizia, tutto ciò gli vale, inevitabilmente, un po’ di invidia, a testimonianza del fatto che la sua fu opera di rottura. Nel 1990 lancia il primo zibibbo secco a Pantelleria; l’anno dopo, il primo grillo vinificato “alla borgognona”, Grappoli del Grillo, di fascia medio-alta, che diventa da subito un benchmark. A metà anni ’90 si vede chiusa l’azienda a causa delle accuse di sofisticazione rivelatesi, solo dopo un quinquennio, totalmente false. Muore nel 2011 e alla guida dell’azienda ci sono, ora, i tre figli.
Le idee di De Bartoli, che oggi sembrano quasi scontate, a quei tempi furono rivoluzionarie: parlava di viticoltura di qualità, biologica, di scarso ricorso a tecniche invasive, di valorizzazione delle uve locali, di vinificazione e affinamenti curati, di dimensione artigianale, di recupero della tradizione del perpetuo. Da qualche anno queste idee hanno iniziato a germinare, tanto che dall’inizio del nuovo millennio qualche vignaiolo sta provando a portare Marsala ai fasti passati. Uno dei grossi problemi da superare è che spesso i vini prodotti in queste zone non riportano in etichetta indicazioni specifiche legata a Marsala, ma in essi si può riconoscere una certa omogeneità e identità territoriale, come avremo modo di constatare.
La degustazione
Spumante 2011 - Nino Barraco
grillo 100%, 4 anni sur lattes, sboccatura 2016, nessun dosaggio
Naso particolare e affascinante, con note iodate e marine evidenti, zucchero bruciato, menta e anice, qualche nota ossidativa molto ben integrata. Comunicativo e dinamico anche per il contributo della volatile: sembra uno spumante non concepito per piacere a tutti.
All’assaggio manifesta una carbonica finissima al servizio delle altre componenti del vino. Originale anche al palato, con una spiccata sapidità che contribuisce a lasciare la bocca pulita e un’evidente connotazione ossidativa. Manifesta anche note terrose, quasi di fungo, di crosta di formaggio, note fumé e sulfuree. Molto equilibrato e di grande carattere che riesce, nonostante la maturità, a conservare grande freschezza e bevibilità.
Terzavia rosé 2019 - Marco De Bartoli
pignatello 100%, 12 mesi sur lattes, sboccatura 2021, nessun dosaggio
Un po’ più giovanile del precedente all’olfatto: fresco, polposo, con sentori di frutti rossi maturi, solare e mediterraneo. Il sorso è affidato all’acidità, più dinamico del precedente. I frutti rossi percepiti al naso, hanno in bocca una connotazione meno solare: la percezione tattile del frutto è più croccante, facendo pensare al ribes e al pompelmo rosa.
Grappoli del Grillo 2014 - Marco De Bartoli
grillo 100%, pressatura soffice, decantazione a freddo, fermentazione spontanea in inox, affinamento per 12 mesi in legno con batonnage
Brillante nella veste, ha un profilo olfattivo molto classico, elegante, nobile e cadenzato, con note di mentuccia, burro, sensazioni balsamiche, il tutto in un registro molto curato e cesellato. Qualche nota riconducibile alla tostatura, sentori di miele d’acacia e di camomilla. Vino signorile, per niente caricaturale: ha uno stile ben preciso, eseguito con contegno ed eleganza. La componente acida è ben fusa al resto; rotondo, con un certo volume e una presenza che non cade mai nella pesantezza; al palato rivela anche sensazioni di nocciola e di torrone, una certa untuosità e lunghezza di sorso.
Bianco Halarà 2019 - Halarà
catarratto 100%, pressatura diretta con iperossigenazione del mosto, affinamento in acciaio per 6 mesi e 12 mesi in bottiglia
Da un progetto nato da sei amici vignaioli - Nino Barraco, Giovanni Scarfone, Francesco Ferreri, Stefano Amerighi, Corrado Dottori e Francesco De Franco - per recuperare una vecchia vigna in contrada Abbadessa: questa è la prima annata in commercio.
Quasi velato all’aspetto, sembra quasi tenero, naïf, con note delicate, fruttate di pesca, ma anche floreali di camomilla e fiori gialli; sensazioni di tè, di fieno e salvia, erba tagliata, semi di finocchietto. Si affida alla freschezza, con una leggerissima nota amaricante, ben fusa rispetto al resto, che riporta alle sensazioni olfattive, chiudendone il cerchio. Meno intenso del precedente, ha comunque una bella lunghezza affidata alla fragranza. Pur non essendo aromatico, ricorda qualcosa di primario, quasi di uva.
Bianco Zeta 2020 - Istinto Angileri
zibibbo 90% e catarratto 10%, 12 ore di macerazione sulle bucce, vinificazione in acciaio e affinamento in acciaio per 8 mesi
Ancora diverso rispetto ai due precedenti: l’aromaticità è preponderante, così come la solarità. Grande varietà fruttata, con profumi che vanno dal frutto della passione, al litchi, all’uva stessa. Profuma di sassi di fiume. Spesso i vitigni aromatici vinificati secchi rischiano di avere un sentore amaro: ciò non avviene in questo caso. Non spicca per acidità; più semplice dei precedenti, ma non per questo meno buono; è più immediato, pensato per un consumo più disimpegnato.
Guancianera 2018 - Fabio Ferracane
nero d’Avola 100%, vinificazione in acciaio con 8 giorni di macerazione
Profilo giovane, ancora vinoso. Note di olive nere, pomodoro secco, liquirizia, radici di rabarbaro, qualche sentore di caffè e amarena. Naso semplice, delicato, non esplosivo, ma comunicativo e sensuale. Aprendosi, emergono le note floreali. Al palato è gustoso e croccante con una bella acidità e un tannino da non disdegnare. Speziato da pepe, rimane nel complesso fresco, con note tra la liquirizia e la china che lo rendono dinamico senza essere troppo semplice.
Pignatello 2016 - Nino Barraco
pignatello 100%, vinificazione in acciaio con macerazione di 30 giorni, affinamento in acciaio per 9 mesi, 18 mesi in bottiglia
Più profondo del precedente, un po’ più impostato, fa pensare a un vino con qualche anno in più. In evidenza arancia rossa e pomodoro secco, seguiti da note tostate e di fondo bruno. Un po’ più duro del precedente, più strutturato, decisamente più tannico e lungo, più serio e autorevole. Rivela, nel finale, una sensazione un po’ ferrosa.
Kapo 2016 – Viteadovest, Vincenzo Angileri
50% nerello mascalese e 50% nero d’Avola, vinificazione in acciaio, macerazione di 15-20 giorni, affinamento in acciaio per un anno
Ha qualcosa di entrambi i precedenti: una parte fruttata che fa pensare al primo e una più concentrata e di struttura che fa pensare al secondo. Il frutto vira più sulla fragola, emergono poi note balsamiche e di pomodoro fresco. È più rustico e punta sulle durezze: una spiccata acidità e del tannino ben presente. Rientriamo nell’alveo dei rossi pieni e mediterranei, molto asciutto, senza scadere nelle iperconcentrazioni.
In generale, si può concludere la degustazione osservando che i rossi sembrano esprimere un’anima più contadina, mentre i bianchi lasciano più spazio al cesello e all’eleganza.