Masterclass sul Dolcetto di Ovada

Da vino conviviale, fragrante e di pronta beva, a prodotto destinato (anche) all’invecchiamento: l’evoluzione del Dolcetto di Ovada nel racconto dei produttori

Barbara Sgarzi

La rivoluzione comincia da Ovada. È proprio così, con un hashtag fresco e divertente come #OvadaRevolution, che i produttori della zona celebrano il momento in cui «un gruppo di produttori indipendenti con vocazione “dolcettista” ha iniziato a parlarsi», come ricorda Italo Danielli, presidente del Consorzio di Tutela Ovada DOCG all’inizio della Masterclass sul Dolcetto di Ovada. E parlarsi, da quel luglio 2013 - data della fondazione del Consorzio -, è stato fondamentale per iniziare un percorso nuovo nella gloriosa vita del Dolcetto.

Momento di incontro, di studio e divulgazione, in compagnia dei rappresentanti del Consorzio, dei produttori e del sommelier Andrea Dani. L’arrivo degli ovadesi a Milano, per un banco di degustazione e un approfondimento in aula, è stato l’occasione per mostrare come sta cambiando la filosofia del Dolcetto: da vino fruttato, fresco, di pronta e allegra beva, a prodotto più pensato, strutturato, dall’insospettabile e notevole longevità.


locandinaUn vitigno storico fra terre bianche e terre rosse

Affascinante il racconto che apre alla storia del vitigno, la cui citazione più antica risale alla zona dell’ormeasco, un suo biotipo, nelle valli Arroscia, Bormida, Neva e poi su per quella via del Sale che da tempi immemorabili collega la Liguria al Piemonte. Cenni storici che arrivano poi alla figura quasi mitica di Pino Ratto, vignaiolo storico citato da Luigi Veronelli, custode e interprete di un vitigno «unico come il carattere di chi lo produce». Il dolcetto matura precocemente, quasi un segnatempo per i vignaioli perché è il primo a mostrare i segni di invaiatura. In Piemonte è il terzo vitigno più coltivato, dopo barbera e moscato, con 6.000 ettari di superficie vitata. E nell’ovadese trova una delle sue espressioni più felici, in una zona dalla grande complessità geologica, suddivisa tra “terre bianche”, calcaree, le più vicine all’Appennino, che generano vini più fini e delicati, e terre rosse di ferro e magnesio, che regalano prodotti più strutturati.

E il Consorzio, che accoglie 37 produttori ovadesi, racconta la sfida della qualità intrapresa negli ultimi anni: «Vogliamo cancellare il paradosso per cui il dolcetto, in una delle sue zone più vocate, è stato considerato per anni solo un vino di pronta beva. Oggi lavoriamo con basse rese, grande attenzione alla maturazione fenolica e invecchiamenti più lunghi, per offrire un prodotto decisamente superiore». Che, per fregiarsi dell’etichetta Dolcetto di Ovada Superiore DOCG, deve essere in purezza e vinificato nella zona di produzione.

Dal 2017 al 1994, la storia in un calice

Il risultato di questo New Deal dell’Ovada DOCG arriva a stretto giro nei nostri calici, con una degustazione alla cieca suddivisa in due tempi; i primi quattro vini del 2017, gli altri in annate via via precedenti per dimostrare come il vino abbia notevoli possibilità di invecchiamento.

Un anno anomalo, il 2017, con un marzo caldo, una gelata d’aprile che ha creato non poche difficoltà seguita poi da un’estate caldissima, seconda solo al 2003. Una produzione quindi ridotta, molto zuccherina e con un alto grado alcolico.

I primi quattro assaggi scivolano fra i sentori tipici di mora di gelso, ciliegia, viola e il caratteristico finale ammandorlato sempre ben gestito. In alcuni casi i tannini sono ancora scalpitanti e si avverte chiara la distinzione fra i prodotti che arrivano dalle sopracitate “terre rosse” e quelli più rarefatti e delicati delle terre bianche. L’ultimo assaggio del 2017, prodotto in un’area al limite fra le due zone, appare in effetti un’equilibrata sintesi fra i due.


I viniMa la giostra inizia a girare con il secondo lotto di degustazioni alla cieca. Assaggiamo un Ovada DOCG 2011, dove la frutta è chiaramente meno fragrante e le note floreali virano sui petali essiccati; appare una bella nota salmastra, marina (evoca il vento di mare, che dalla Liguria, in primavera ed estate soffia quasi quotidianamente sulle vigne dell’ovadese). Un vino non scalfito, dinamico, con una bella trama tannica e una notevole acidità. 

Proseguiamo con un 2007 – ottima annata – che ci regala un colore rubino vivace, un naso di terriccio, note scure, ciliegie sotto spirito, e un sorso che porta ancora freschezza.

Le ultime due annate che degustiamo, fuori da ogni assaggio tecnico perché, ricorda Italo Danielli, prodotte in anni in cui il dolcetto si vinificava diversamente, non certo avendo in mente l’invecchiamento, sono un’ulteriore sorpresa.

Il 2003, che mostra note granato nel calice, pur restando brillante, offre un naso evoluto, balsamico, di caffè tostato e liquirizia, note affumicate e una punta di rosolio. Sembra di mettere il naso nell’armadio delle nonne, ricordando Paolo Conte quando cantava quella Genova così vicina alle vigne del dolcetto ovadese:

«e intanto nell'ombra dei loro armadi / tengono lini e vecchie lavande.»

Siamo pronti per il 1994 che, in un tripudio di maraschino, note balsamiche e ratafià, è ancora vivo e vegeto, con l’acidità che continua a sostenerlo dopo ben 26 anni.

Dopo la teoria, quindi, la pratica: sì, il Dolcetto può evolvere, invecchiare, acquisire ricchezza e complessità. Persino anche quando non era stato pensato per quello.