Orange wines: cosa sono, dove e come nascono

Racconti dalle delegazioni
27 novembre 2023

Orange wines: cosa sono, dove e come nascono

AIS Milano e Altai Garin ci portano alla scoperta del quarto colore del vino con un seminario di due incontri per approfondire storia e sviluppo, tecniche di vinificazione e di degustazione degli orange wines nel mondo.

Valeria Mulas

Non poteva esserci stagione più indicata dell’autunno per dedicare due intense serate alla scoperta degli orange wines. A parlarne, con la sua innata passione, è il valdostano Altai Garin, laureato in Filosofia e sommelier AIS. Due incontri per conoscere vita, morte e resurrezione del quarto colore del vino, attraverso la storia dei suoi protagonisti, la sua evoluzione nel tempo e nello spazio e, ovviamente, con la degustazione di sei, più sei, calici alla cieca.

«C’è stato un momento in cui il mondo del vino è cambiato per sempre».

Inizia così Altai Garin, senza troppi giri di parole, per introdurre la storia degli orange wines e il loro stile arcaico. Messo in un cassetto per essere dimenticato per sempre, quello stile ha avuto la forza di riemergere e imporre una nuova visione al mondo. Ma iniziamo dall’abecedario minimo per comprendere i vini arancioni.

Che cos’è un orange wine?

Orange wine, amber wine o vino bianco macerato sono tutti sinonimi per definire quel vino ottenuto dalla vinificazione in rosso di uve a bacca bianca. Si tratta quindi di un vino “bianco” il cui mosto rimane a contatto con le bucce per il tempo necessario ad estrarre colore, tannino e struttura.

Altai Garin«Un vino, in questo momento storico, non codificato, se non parzialmente, dall’Organisation Internationale de la vigne et du vin (OIV) e non indicabile in etichetta per legge, essendo permesse solo le diciture vino bianco, rosso o rosato», aggiunge Altai Garin. Ad aumentare le controversie di questo vino c’è l’associazione con i vini naturali, le cui zone di non identificazione si fanno ancora più sfumate al punto di non avere un’univoca definizione. Ma perché parliamo di orange e di naturali come se fossero la stessa cosa? Possiamo affermare che praticamente tutti gli amber wines hanno abbracciato la filosofia del naturale, al netto dei pochi, pochissimi, vini convenzionali che utilizzano la stessa tecnica di macerazione delle uve a bacca bianca. C’è un ulteriore nodo da sciogliere, a questo punto, e riguarda i contenitori per la vinificazione e per la maturazione del vino. Spesso, infatti, e a torto, si pensa che esista una sola tecnica legata all’impiego di contenitori in terracotta, come le anfore, i dolium o i qvevri. In realtà si tratta di strade parallele, introdotte nel medesimo periodo e, forse, per questo sovrapposte. I vini arancioni, come tutti gli altri, possono essere, infatti, realizzati e affinati in acciaio, legno, anfora, qvevri, dolium, cemento etc.

Orange wines: una storia che parte da Oslavia

«Oslavia è una frazione al centro del mondo. Oggi è un quartiere di Gorizia, posizionato sul confine con la Slovenia ed è stato uno dei luoghi più importanti per la nascita degli orange wines». Sono di Oslavia, infatti, i vignaioli protagonisti della riscoperta dei vini macerati. Ma Oslavia è stata anche teatro delle durissime battaglie della prima guerra mondiale, che portarono miseria e devastazione. Per dirla con le parole di Aldo Bardi, soldato della 69° Brigata schierato in prima linea «la battaglia dell’Isonzo del mese di novembre 1915, è un ricordo di sangue (…). Fu l’orrore della guerra più mostruosa; fu il carnaio». È Oslavia la protagonista di questo carnaio. Di questa frazione, considerata lungamente dagli austriaci un giardino di ortaggi, frutta e vino, non rimase che un cumulo di macerie, un lenzuolo bianco di resa totale su cui nel 1938 sorse un Santuario, simbolo e ossario dei 57000 caduti italiani e austroungarici. Al trattato che sancisce la vittoria dell’Italia, con l’annessione di Gorizia, Trieste, Pola e Zara, seguirono le leggi e i decreti del 1923 e del 1927 per l’italianizzazione forzata di quei popoli. Si esclude dapprima l’insegnamento dello sloveno (legge Gentile), quindi si cambia la toponomastica, dalla lingua e dalla storia slovena a quella italiana, per finire con l’italianizzazione dei cognomi. Il tutto condito con i metodi persuasivi dei comandi squadristi fascisti.

La Oslavia ricostruita resta una ferita mal rimarginata, con una povertà diffusa che si somma alla distruzione fisica, linguistica e culturale e con una scissione del territorio perdurata fino alla nascita della Slovenia, nel 1991, e alla sua entrata nello spazio Schengen (2007). Forse, ora, facciamo fatica a capire o ricordare cosa volesse dire attraversare un confine, quando magari lo stesso passava dentro la tua casa o i tuoi terreni coltivati, ma la storia di queste zone è anche il racconto di una fatica di limiti disegnati ai tavoli della politica dei grandi Stati. Tutto questo racconto, che sembra c’entrare poco con i nostri calici di vino, è in realtà una doverosa premessa, perché sarà il vino a permettere al Friuli quel riscatto dalla povertà diffusa dal primo dopoguerra in poi.

Il riscatto del Friuli

Dobbiamo arrivare al 31 gennaio 1963 per trovare il seme dell’emancipazione di queste terre: questa data segna la nascita della regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e il relativo progetto “Un vigneto chiamato Friuli” che finanziò la ripresa agronomica ed enologica del territorio. In questo contesto le intuizioni di Mario Schiopetto, ex camionista, furono determinanti. Fu lui, infatti, a portare le prime presse pneumatiche dalla Germania, insieme all’uso della solforosa per ottenere vini color bianco carta, cosiddetti “alla tedesca”.  Nasce così una prima grande rivoluzione con l’obiettivo di sostituire quel vino macerato, ossidato e pesante che abitava tutte le case d’Italia.

I vignaioli degli orange wines

Tra i discepoli illustri del vino alla tedesca c’è anche Joško Gravner, che diventerà tra i più grandi e riconosciuti produttori di vini bianchi moderni, freschi e leggeri. Un vino lontano dalle tradizioni, che guardava ai mercati internazionali e in particolare all’America. Joško Gravner intraprenderà anche un viaggio in Napa Valley per andare a conoscere meglio le tecniche avanguardistiche. Qui, però, tocca con mano quanto il vino fosse diventato un vero prodotto di mercato, fatto ad uso e consumo dei gusti dei clienti, con ben poco in comune con l’uva da cui nasceva. Gravner torna in Italia insoddisfatto e conscio del fatto di aver preso una direzione sbagliata e opposta alla “verità” del vino friuliano. Ma cosa fare? Sarà il consiglio di Veronelli ad indicare la strada: «vai dove il vino lo fanno come si faceva migliaia di anni fa, vai nel Caucaso, vai in Mesopotamia». Joško decide così di cercare di replicare quello che era il vino georgiano, con un metodo del tutto opposto al controllo maniacale del vino alla tedesca. Nel 1997 esce la prima produzione macerata di Gravner e con lei la grandissima stroncatura della critica enologica.

Poco distante da Gravner, vive e produce vino Stanko Radikon. Anche Radikon dopo un iniziale innamoramento per i vini bianco carta, si dedica alla ricerca di metodi tradizionali, in particolare per la ribolla gialla. Il suo non è un viaggio nello spazio come quello di Gravner, ma nel tempo. Guarda infatti, sì al di là dei propri confini (quelli che però prima del 1920 non c’erano), ma per riscoprire il vino alla moda della valle del Vipava, Slovenia. Trae spunto da una tecnica descritta dall’agronomo Matjia Vertovec in un manuale del 1844, in cui si parlava di macerazioni di uve bianche anche lunghissime (da 24 ore a 30 giorni).

Le ricerche proseguono per tutti gli anni ’90 da parte di entrambi i vignaioli, ignorando le feroci critiche della stampa specializzata. Radikon arriverà anche a eliminare la solforosa. Nel 2007 nasce l’Associazione produttori della Ribolla di Oslavia (APRO), che pone l’accento sul tempo di macerazione come segno distintivo di ogni vignaiolo e definisce un relativo disciplinare di produzione. A dispetto della critica, la ribolla di Oslavia e gli orange wines della zona diventano delle eccellenze, che fanno scuola.

Così in Francia, in Spagna, in Oregon, in Nuova Zelanda, in Africa, nel mondo, oggi, qualcuno macera!

La degustazione

Parleremo nella seconda serata della tecnica di degustazione. Per il momento Altai richiama l’attenzione su alcune caratteristiche tipiche degli orange wines: il colore più o meno aranciato, il corpo più marcato e le percezioni gustative che includono sia il tannino sia l’umami. Per completezza indichiamo che i vini sono stati tutti serviti alla cieca, per una maggiore libertà di giudizio e di analisi.

Baby Bandito Stay Brave 2021 - Testalonga
chenin blanc 100%

Veste velata che rivela l’anima da non filtrato. Questo primo calice appare polveroso, di colore paglierino con venature di oro bianco e dalla struttura consistente. L’impatto al naso è importante, con sentori di orzo cotto, che identifichiamo come marker aromatico, abbastanza tipico degli orange. Seguono la nespola, la pesca e i fiori bianchi in essiccazione, un pizzico di maggiorana e un ricordo marino. Non spicca per complessità, ma per personalità. La bocca parte dal ricordo marino, con un attacco salino e di umami. Il tannino, lieve e levigato, dà struttura e supporto alla freschezza. Un vino giovane che non richiede attesa, ma il carpe diem come filosofia.

Macerazione di una settimana in acciaio e maturazione in botte grande, per questo Baby Bandito proveniente dal Sudafrica e, in particolare, dal distretto di Swartland situato nella West Coast.

Burja Bela 2021 - Bela
malvasia istriana, riesling italico, ribolla gialla, zelen

Si presenta in un abito paglierino, abbastanza limpido, con riflessi oro antico. Consistenza ben percepibile e lontana dai classici vini bianchi. La complessità e l’intensità olfattiva sono giocate su note di pesca in piena maturazione, decisamente dolci anche nella speziatura, che rimanda ai chiodi di garofano o alla cannella; polline e fiori gialli di contorno. Sfumature linfatiche di radice, con un balsamico di elicriso e una chiusura salina, quasi di soia. Al palato l’impatto è untuoso, morbido, con un tannino di sfumatura. Corpo marcabile, ritorni di balsamicità e chiusura amaricante.

Macerazione di 2 mesi per parte delle uve e 24 mesi di maturazione in botti di rovere da 20 hl. Provenienza: Slovenia, valle del Vipava.

Romagna DOCG Albana secco Vitalba 2020 – Tre Monti
albana 100%

Veste ambrata brillante per il nostro terzo calice, dal naso concentrato e ricco di cera d’api, di papaia matura, con un bouquet floreale di peonie e di gerani in secondo piano. Si apre poi su sentori di agrume, di cedro e di chinotto, di miele di castagno, che esplodono in bocca insieme all’origano. Bocca con un equilibrio molto ben proporzionato tra tannino, freschezza e sapidità.  

Macerazione di 3 mesi e successiva maturazione in qvevri.

Chinuri Skin 2021 – Pheasant’s Tears
chinuri 100%

Velato e consistente, questo calice rivela immediatamente un’acetica sostenuta, con un sottofondo di orzo maltato, di polline di fiori bianchi, di nespola non troppo matura. Sandalo, curry e curcuma, con una punta di tabacco bruciato arrivano in un secondo tempo. Palato coerente con un impatto fresco, quasi acetico, cui fanno da contraltare tannino, alcol e spezie. Affumicato, molto dissetante e intrigante, al netto della convenzione enologica, che correttamente lo definirebbe difettato. Ideale con piatti esotici.

Macerazione di 4 settimane di grappoli interi e 12 mesi di maturazione in qvevri interrati. Proviene dalla regione di Kakheti in Georgia.

Ribolla 2018 – Radikon
ribolla gialla 100%

Carica cromatica dorata con un aspetto abbastanza limpido. Naso delicato che unisce tante anime: dalla crema pasticcera, all’agrume in scorza, dalla mela cotta ai fiori secchi, dalla prugna secca al fieno scaldato dal sole. La nota acetica è presente, ma lascia immediatamente presagire le tante sfumature dolci e secche allo stesso tempo. In bocca la concentrazione salina, da salsa di soia, è la vera protagonista. L’acetica aiuta a dare slancio alla freschezza, supportando l’equilibrio nei confronti dell’umami e del tannino.

Macerazione di 3 mesi e maturazione di 36 mesi in botti di rovere da 25/35 hl.

Ribolla 2015 – Gravner
ribolla gialla 100%

Color arancione ambrato netto e consistenza rilevante. Un vino dal profumo complesso e poetico che ha il sentore della resina di bosco, della terra bagnata, delle foglie secche, della cannella, del chiodo di garofano e dello zafferano. Un vino autunnale che richiama anche il tabacco biondo e i fiori essiccati nelle pagine di un libro. Impossibile non pensare a una serata davanti al camino, in una baita in mezzo ai boschi, con questo calice in mano che al palato ha un’entrata morbida, con una punta di sale e un tannino integrato che sostiene il tutto. Ha una densità di frutta e un amaro di tè. Persistente ed elegante.

Macerazione di 6 mesi in qvevri e 7 anni di maturazione in botti grandi di rovere. Buona parte degli acini ha sviluppato botrite.

In chiusura vogliamo lasciarvi con alcune parole dell’inno sloveno dedicate al nostro nettare preferito e così darvi appuntamento alla seconda parte del racconto:

«Amici! Le viti ci hanno fruttato del dolce vino, che ci ravviva le vene e ci schiarisce il cuore e l’occhio e cancella tutte le preoccupazioni, rinnovando la speranza nel petto affranto».