Perrier-Jouët, la maison di champagne nata sotto una buona stella

Il legame indissolubile tra vino e arte, lo stile inconfondibile giocato sull’eleganza, una storia affascinante che dura da più di due secoli. Una masterclass condotta magistralmente da Alberto Lupetti con il supporto di Leo Damiani, direttore commerciale di Perrier-Jouët Italia, attraverso la degustazione di sei champagne, dal Blanc de Blancs, passando per il rosé, culminata con la Belle Epoque.

Susi Bonomi

Nasce a Epernay, capitale vinicola della Champagne, la maison fondata da Pierre-Nicolas Perrier e Rose-Adélaïde Jouët, uniti nella vita così come nelle passioni. Siamo nel 1811, anno della cometa di Halley, che porterà davvero fortuna a questi giovani convolati a nozze l’anno precedente, il cui desiderio è produrre cuvée differenti rappresentative dei diversi terroir.

Entrambi attenti alla qualità e sempre alla ricerca dell’eccellenza, seguono da vicino ogni fase della produzione dei loro champagne, a partire dalla raccolta delle uve - mai utilizzate quando ritenute mediocri - coerenti a uno stile unico. Rivoluzionano il gusto dell’epoca producendo un vino secco laddove vigeva la tradizione di consumare vini dolci che arrivavano a sfiorare 300 g/L di residuo zuccherino. 

Ed è subito un successo che apre la strada agli champagne così come li conosciamo adesso. Ma addentriamoci pian piano nelle vicende di questa prestigiosa maison alternando parole ad assaggi, con la guida di Alberto Lupetti, giornalista professionista, appassionato di vino e soprattutto specializzato in champagne. Per l’occasione lo coadiuva Leo Damiani, Direttore commerciale e marketing Perrier-Jouët Italia e Direttore Sviluppo prodotti di Marchesi Antinori, distributore ufficiale in Italia di Perrier-Jouët dal 2010.

Per comprendere l’impronta stilistica di una grande maison, è ormai assodato che si debba iniziare la degustazione con il sans année, la cui anima è, senza ombra di dubbio, l’assemblaggio. Nato inizialmente per dare una risposta al clima, il sans année diventa un’astrazione della vendemmia che va a definire lo stile di una maison, potendo giocare con almeno tre variabili: varietà, annate, zone. È lo champagne più difficile da produrre, quello che costa meno, ma su cui le maison si giocano reputazione e fatturato. Costituisce, infatti, l’80% della produzione mentre le cosiddette cuvée de prestige arrivano solo al 5%. «Fare uno champagne millesimato è più semplice, ma quando si deve fare una cuvée per prima cosa si deve interpretare l’annata perché quella costituisce la fetta più importante. E poi devo mettere insieme diverse annate e diversi vini per arrivare sempre a definire uno stile ben preciso» dice Lupetti. Considerato da tutti lo champagne d’ingresso, che la maggior parte può comprare e bere con una certa tranquillità, non ci si sofferma mai a pensare quanta sapienza nasconde. E lo chef de cave della maison che lo costruisce, pur bravo che sia, ha solo un tentativo l’anno di far bene o di fallire.

In Champagne, in realtà, il vero vino d’ingresso è il blanc de blancs da sole uve chardonnay. In Perrier-Jouët è merito del penultimo chef de cave, Hervé Deschamps, il settimo dalla nascita della maison, la messa a punto della cuvée, omaggio allo spirito innovativo della maison, che ha selezionato e combinato chardonnay provenienti da quattro dei migliori terroir della regione.

Il Blanc de Blancs che Lupetti ha selezionato per la degustazione ha come base la vendemmia 2017, annata non facile per le uve nere ma ottima per le bianche, con un 15% di vins de reserve. Mentre in passato ci si affidava a uno schema tipico per la costruzione della cuvée, costituita da vendemmia base e utilizzo dei singoli vini di riserva delle diverse zone, da qualche anno la filosofia è cambiata e i vins de reserve altro non sono che assemblaggi degli anni precedenti. Perciò, ogni volta che lo chef de cave crea l’assemblaggio per l’annata corrente, non lo mette tutto in bottiglia ma ne conserva una certa quantità che andrà a costituire il vin de reserve utilizzabile per le vendemmie successive. «Il vantaggio è che in questo modo si ha maggiore coerenza poiché si potrà replicare non solo lo stile, ma esattamente lo stesso assemblaggio negli anni. Se ne usa solo il 15% perché, secondo Hervé, il non millesimato deve far sentire le variazioni dell’annata. Non vuole, quindi, scimmiottare un millesimato, ma vuole che le sfumature, da un anno all’altro, si possano percepire».

30 mesi di maturazione sui lieviti (il disciplinare di produzione ne richiede 15), dosaggio 8 g/L.  

Tutt’altro che zuccherino, è uno champagne “godurioso” che non punta alla complessità ma ha la grassezza della nocciola, che è un po’ la sua firma. Pieno, rotondo e cremoso, particolarmente accattivante. Non mancano i classici riconoscimenti dei blanc de blancs: la componente agrumata e la florealità. Pieno ma non seduto: a sostenerlo, la spinta acida che lo allarga e lo tende in profondità, e, soprattutto, la sapidità che gli dona mineralità. Nel finale si fa spazio una nota amaricante, che ricorda l’albedo del limone, sempre più ricercata dagli chef de cave perché favorisce l’abbinamento gastronomico e aumenta la bevibilità. «Non sono tantissimi gli champagne che abbinerei alle ostriche, ma questo è uno di questi», aggiunge Leo.

A questo punto non resta che passare all’assaggio del Grand Brut, il non millesimato per eccellenza. 40% pinot noir, 40% meunier e 20% chardonnay. Base vendemmia 2017, 14% di vins de reserve con assemblaggi precedenti, circa 3 anni sui lieviti e sempre 8 g/L di dosaggio. È uno champagne classico nella sua composizione, «talmente bevibile che ne chiedi subito una seconda bottiglia». «Uno champagne che non richiede una vivisezione. È quel che è», aggiunge Leo. «Rappresenta quello che una persona, che non ha mai bevuto champagne ma ne ha solo letto, dovrebbe riconoscere - anche bendato - come uno champagne perché ne ha tutte le caratteristiche, a partire dalla bollicina finissima», precisa Alberto. È sbarazzino ma non banale, con tutta la freschezza del frutto accompagnata dalle note floreali, dalla mineralità, dall’agrume. «Il dosaggio è ottimo perché chiude sapido e ancor più fresco di come era entrato in bocca. Qui lo chef de cave ha fatto un ottimo lavoro anche con un’annata difficile per le uve nere». Il 10% di taille nell’assemblaggio ne facilita la maturazione che, per uno champagne a rapida rotazione come questo, è altamente desiderata.

Ultimo vino della linea non millesimata è il Blason Rosé, un rosé d’assemblage. Base vendemmia 2017, 15% di vini di riserva con assemblaggi precedenti con almeno 3 anni d’invecchiamento, 30 mesi sui lieviti e 8 g/L di dosaggio. Rispetto al Grand Brut l’assemblaggio è leggermente diverso, con più chardonnay per evitare un eccesso di pesantezza. È un rosé tutto giocato sulla finezza e sulla delicatezza, in cui emerge anche la parte floreale. Si sentono i piccoli frutti rossi di bosco, la fragolina e il lampone, e una componente di erbe aromatiche che lascia la bocca rinfrescata e pronta per il sorso successivo. Ottimo da solo, fantastico in accompagnamento con salumi, tartare di manzo, salmone affumicato.

I viniEd ora siamo pronti per assaggiare la Belle Epoque, la cuvée de prestige che ha reso celebre Perrier-Jouët nel mondo, a partire dalla sua iconica bottiglia decorata con immacolati anemoni giapponesi. Ma come nasce il progetto di questa etichetta spettacolare? Ce lo racconta, ancora una volta, Alberto. Siamo nel 1902. L’allora presidente di Perrier-Jouët, Henri Galice, contatta Émile Gallé, famoso mastro vetraio e uno dei pionieri dell’Art Nouveau appassionato di botanica, per commissionargli un’etichetta particolare che riflettesse la vivacità e lo spirito dell'epoca. I distintivi anemoni giapponesi comparvero su quattro magnum, ma il costo per una produzione di massa, all’epoca, era proibitivo e così il progetto venne accantonato. Nel 1964 le stesse magnum vennero ritrovate dal sesto chef de cave, André Bavaret che le trovò perfette per catturare la bellezza del suo champagne millesimato. Nacque così la Belle Epoque, inizialmente un blanc de blancs, proposto esclusivamente in versione magnum e presentato nel 1969 per celebrare il 70° compleanno di Duke Ellington a Parigi: cinquecento bottiglie numerate, alcune omaggiate e le restanti vendute in esclusiva da Maxim’s a un prezzo considerevole.

Nel 1993, dopo 10 anni di affiancamento, Hervé succede a Bavaret, diventa il settimo chef de cave e propone la sua versione di Belle Epoque: 45% pinot noir, 50% chardonnay e 5% meunier, almeno 6 anni di sosta sui lieviti, dosaggio 8 g/L. «Ha solo un problema», sottolinea Lupetti, «che è buona dopo 20 anni!».

Appena immessa sul mercato, assaggiamo la Belle Epoque 2014. Un’annata difficile, la 2014, come molti ricordano. Partita bene, con un inizio d’estate caldo, a luglio piove ininterrottamente e ad agosto fa freddo. Quello che non fa il brutto tempo, lo causa la drosophila suzukii, un piccolo moscerino che attacca la frutta in fase di maturazione. Per fortuna a settembre il tempo migliora: le giornate calde e asciutte permettono ai grappoli di maturare mentre le notti fresche preservano l’acidità. Al naso grande finezza, un fruttato maturo al punto giusto da cui emerge il carattere agrumato. Pieno in bocca, tridimensionale, sfuma nel finale ma poi ritorna, con l’agrume e il frutto a rincorrersi. Uno champagne che ricerca finezza ed eleganza ma non la potenza e che ben si esprime nelle annate difficili. Per potersi esprimere al meglio richiede ancora qualche anno di bottiglia.

Proseguiamo con la Belle Epoque 2012. Annata eccezionale in cui però è successo di tutto: gelo primaverile, gelo invernale, pioggia, grandine, temporali, malattie. Ma un agosto perfetto rimette tutto a posto anche se, alla fine, la resa cala del 40%. Uve mature, con un 11% di alcol potenziale, e un’acidità elevata pari a 7,8 g/L danno luogo a vini ricchi, corposi e strutturati, senza mancare di eleganza. Si percepisce una ricchezza di materia ma ancora incapsulata. Leggere note di miele e l’agrume che rasenta il candito, ma il resto è chiuso. In bocca si ha comunque una bella sensazione tattile. Nonostante questo Alberto e Leo concordano: un millesimo che resterà nella storia della Champagne, la prima annata del futuro basata sulla maturità dello chardonnay. E impariamo che: «così come le annate difficili sono espressive fin da subito, quelle eccezionali richiedono invece pazienza».

Terminiamo la serata con la Belle Epoque 2008. Mancava dal 1996 un’annata con una bella acidità, l’ultima della vecchia scuola a causa dell’inesorabile cambiamento climatico. La 2008, come tutte le grandi annate, ha avuto un andamento fortemente contrastato che si è sistemato a ridosso delle vendemmia. Inverno mite, primavera fresca con temporali, aprile freddo, giugno glaciale. Fioritura ritardata e lenta maturazione dei grappoli è andata a rilento. Nonostante un settembre freddo, tutte le uve sono state colte a maturazione. Alcol potenziale 9,8 g/L e una bellissima acidità. Un grande classico. Appena versato si percepiscono note mature, casearie, che spariscono dopo qualche minuto. Riassaggiandolo si percepisce la maturità, ma accompagnata da una notevole freschezza: grande champagne dal perfetto equilibrio.

Nel 2020, dopo ben 37 anni in Perrier-Jouët, Hervé Deschamps ha passato il testimone a Séverine Frerson che è diventata l’ottava chef de cave – prima donna a ricoprire questo ruolo – nella storia della maison.