Romano Dal Forno, un’intima interpretazione della Valpolicella
Racconti dalle delegazioni
22 gennaio 2025

Rappresenta una pietra miliare per comprendere l'eccellenza qualitativa della Valpolicella. Nel corso degli anni il suo nome ha rappresentato per molti un simbolo al quale ispirarsi. AIS Monza e Brianza ha ospitato Marco dal Forno, al timone dell’omonima azienda fondata dal padre, in una esclusiva e rara degustazione-conversazione insieme a Diego Sburlino
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«Quando ero giovane, tanti anni fa c’era la passione per le macchine da corsa. Ferrari e Porsche erano i punti di riferimento, ma spesso ci si accontentava della Uno Turbo. Quell’auto era un mito: un motore straordinario su un telaio semplice, con risultati talvolta imprevedibili. Allo stesso modo, creare vini straordinari attraverso l'appassimento è un’impresa ardua. La differenza sta tra chi produce "Uno Turbo" e chi realizza vere e proprie "Ferrari" del vino».
Con questa metafora motoristica, Diego Sburlino ha introdotto efficacemente Romano Dal Forno, un uomo che ha fissato standard elevatissimi per la Valpolicella. La sua azienda, oggi guidata dal figlio Marco, continua a seguire la strada tracciata oltre quarant’anni fa, affiancata dal direttore commerciale Lorenzo Righi.
La Valpolicella: territorio e identità
Situata al limitare del confine lombardo, appena al di là delle rive gardesane, la Valpolicella comprende 19 comuni, 2200 viticoltori, 316 imbottigliatori, 6 cantine sociali e circa 30.000 ettari di vigneti.
Il paesaggio è caratterizzato da vallate nord-sud, tra cui Fumane, Marano di Valpolicella e Negrar di Valpolicella, che insieme agli areali di Sant’Ambrogio e San Pietro in Cariano formano la zona Classica. A queste si aggiungono la Valpantena, riconosciuta come “sottozona”, e la zona estesa, che comprende le valli di Tramigna, Mezzane e Illasi.
Romano Dal Forno, una vocazione nata per caso
Proprio da quest’ultima, dalla Valle di Illasi - «terra da mais e non da vino», come ebbe a dire Giuseppe Quintarelli a un imberbe Romano Dal Forno, ma ci torniamo – iniziò il viaggio enoico del giovane.
Un percorso intrapreso quasi per caso, come spesso accade alle cose migliori. Romano, diplomatosi a fatica e sposo a vent’anni, scelse un futuro da autista di autobus. Conseguita la patente, di fronte all’inaspettata attesa di almeno nove mesi per sapere se – e quando – avrebbe potuto accedere alla graduatoria e dunque salire su un mezzo, si trovò di fronte alla necessità di sbarcare il lunario. Da qui, la scelta, condivisa dalla giovane moglie, di dedicarsi temporaneamente ai sette ettari di famiglia, fino allora destinati un po’ a tutto, alla vite come agli animali, alle granaglie come ai foraggi.
La precarietà della situazione si fece stabilità di un progetto, inizialmente accidentato a causa studi mancati, via via sempre più convinto e convincente. Romano Dal Forno, smessi per sempre gli abiti dell’autista, con la vigna ci sapeva fare.
L’incontro con Giuseppe Quintarelli
Il cambio di passo, però, è legato all’incontro con Giuseppe Quintarelli, all’epoca già nome tutelare del territorio. Marco Dal Forno si diverte a ricordare gli stratagemmi che il padre escogitò per conoscere quel personaggio, persuaso che sarebbe stato un incontro al limite del profetico. E in effetti lo fu. Giuseppe Quintarelli divenne, per Romano Dal Forno, un mentore, un’ispirazione; e il giovane Romano, per converso, «fu per Quintarelli il figlio maschio che non aveva mai avuto», ricorda il nostro ospite.
Insieme a Quintarelli, con i suoi consigli e la sua profonda esperienza, Romano Dal Forno mise assieme un puzzle di conoscenza ed esperienza che, tuttavia, proprio la frase del mentore, di cui sopra, rischiò di mandare in mille pezzi. «Terra da mais e non da vino», così era infatti conosciuta la Valle di Illasi, la più orientale, alta e fresca della denominazione, versante calcareo-marnoso a guardare dirimpetto alle terre rosse.
Marco Dal Forno ricorda come, quella frase, fu il detonatore capace di far esplodere la determinazione paterna che, da allora, fece della Francia la sua destinazione professionale preferita, dove attingere e succhiare ogni possibile stilla di conoscenza. Perché, se di grande vino si deve parlare, è ai migliori che bisogna rivolgersi.
Gli inizi accidentati, con i primi imbottigliamenti, nel 1982, grazie al riuso di vuoti a perdere, erano ormai dietro alle spalle. Era il periodo a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, con la riscoperta dell’oseleta – inusitata in loco, a quel tempo –, la valorizzazione della croatina (quasi autoctona in zona, tanto era risalente nel tempo la sua presenza in vigna), le prime sperimentazioni con l’azoto, le prime barrique di Amarone e l’avvio del rifacimento di un parco vitato che, piano piano, cresceva in estensione e, soprattutto, in densità, fino a raggiungere 13.000 ceppi/ha. Non fu facile, ricorda Marco Dal Forno, non tutto filò sempre liscio: a un passo avanti seguivano uno scarto di lato, a una conquista un mezzo passo falso. Come la gestione della vigna in quella terra così avara, che Dal Forno ammette di aver compiutamente compreso soltanto trascorsi vent’anni.
L’ostinata tensione all’eccellenza
Il filo conduttore di questa storia, della storia di Romano Dal Forno prima, e dell’intera famiglia Dal Forno poi, è la pervicacia, l’insistente determinazione al bello e al meglio che, forse, può ricondursi al desiderio del giovane Romano di «non essere più sempre l’ultima ruota del carro, come mio padre si sentiva», ricorda Marco Dal Forno, «nonostante fosse consapevole che, senza contadini, la gente non mangia».
Un’ostinazione che, innegabilmente, fa il paio con un “manico” fuori dal comune – termine tecnico che rende l’idea -, tale da permettere azzardi tutt’altro che scontati e dagli esiti decisamente felici, come la scelta di utilizzare, allora come oggi, barrique nuove al 100% per l’invecchiamento sia del Valpolicella Superiore che dell’Amarone.
Nell’introdurre la degustazione, Diego Sburlino tratteggia di Romano Dal Forno l’immagine più vera: colui che era partito quasi per caso, in una terra apparentemente non vocata al vino, è finito per essere oggi il riferimento indiscusso, il vertice qualitativo, del vino non tanto della Valle di Illasi, ma della Valpolicella tutta.
La degustazione
Tutti i vini assaggiati hanno in comune la base ampelografica, la matrice del suolo, la tecnica produttiva – con differenza quanto al tempo di appassimento delle uve - e, considerato il modello, il tempo di invecchiamento:
- base ampelografica: 60% corvina, 15% croatina, 10% oseleta, 10% corvinone, 5% rondinella;
- terreni: di tipo alluvionale, costituiti da ghiaia (70%), limo e argilla (15% ciascuno);
- appassimento delle uve: 45 giorni per il Valpolicella Superiore; 90 giorni per l’Amarone;
- invecchiamento: 24 mesi in barrique di rovere francese e/o americano al 100% nuove (salvo quanto specificato a seguire).
Valpolicella Superiore DOC Monte Lodoletta 2016
Il colore, lo vedremo, è il primo punto fermo dei vini di Romano Del Forno: sempre pieno, irrimediabilmente compatto, quasi per nulla cedevole al passare del tempo. Questo 2016, oggi, se ne presenta come quintessenza di fittezza e concentrazione.
Al naso, le proposte olfattive sono immediate, come fossero un telo steso al vento: spezia fine e, appena a seguire, tanta frutta, non di ciliegia sciroppata, quanto più frutti di bosco, mirtilli, e poi noce moscata, pepe, tabacco e cuoio, con un finale di cioccolato dolce e violetta, radice e liquirizia.
A un quadro olfattivo di estrema eleganza segue un assaggio teso, pieno, di un tannino protagonista signorile, che si affaccia e subito stringe la morsa, eppure finissimo e di carattere.
Persistenza lunga, lunghissima.
Valpolicella Superiore DOC Monte Lodoletta 2011
Aspetto che restituisce, se possibile, un colore ancora più pieno e denso del primo vino, con un accenno granato che è soltanto un filo sul bordo.
Il naso, questa volta, è innanzitutto fruttato, di frutta scura sciroppata, alla quale seguono nuovamente pepe nero e tabacco, ma con un accenno di noce moscata e con una parte cioccolatosa che, qui, si fa più di polvere di cacao.
L’assaggio conferma un altro filo conduttore dei vini di Romano Dal Forno: il tannino, sul quale si sofferma attentamente Diego Sburlino, in questo secondo assaggio è setoso e al contempo potente, e contribuisce a restituire una beva intensa, gustosa, con un finale di ciliegia e frutti di bosco.
Valpolicella Superiore DOC Monte Lodoletta 2004 (magnum)
Degustato nel gennaio 2025, questo vino, maggiorenne da tempo, è sorprendente sin dall’aspetto. Non è una novità, visti i pregressi di cui sopra, però pensare che dopo vent’anni un vino possa essere ancora così integro e lucente è sorprendente.
Al naso è rinfrescante e scuro, di frutta matura, spezie, caffè e accenni balsamici. È un’intelaiatura odorosa concentrata, restia ad aprirsi. Marco Dal Forno specifica che, a differenza dei due vini precedenti, questo Valpolicella Superiore è stato invecchiato per 24 mesi in barrique di rovere americano nuove.
Il sorso, negli appunti, è da ricordare per il tannino tattile, «baroleggiante», e per una persistenza finemente fruttata, di fragola macerata e prugna, praticamente infinita.
Amarone della Valpolicella DOCG Monte Lodoletta 2016
Rispetto ai tre Valpolicella Superiore, le uve dell’Amarone Monte Lodoletta 2016 fanno il doppio dell’appassimento – tre mesi contro circa un mese e mezzo –. Invecchiamento di 24 mesi in barrique nuove per metà di rovere francese e per metà di rovere americano.
Colore carminio da manuale, di intensità e densità tali da inchiostrare il bevante.
Naso di ciliegia sciroppata, mirtillo, mora e lampone, poi prugna, pepe nero, cacao e «cioccolata vivace», viola e rosa appassite. Se i descrittori sono comuni ai vini precedenti, è la profondità scura dei sentori che dona a questo vino una dimensione diversa.
Altra dimensione che emerge in tutta la sua evidenza all’assaggio, incomparabilmente più potente, spesso e masticabile dei Valpolicella Superiore. La materia tannica è lì da rimirare, acidità e sapidità cesellate lasciano la bocca asciutta e pulita.
Amarone della Valpolicella DOCG Monte Lodoletta 2013 (magnum)
Aspetto e cornice olfattiva sono simili al Monte Lodoletta 2016; in più, si annotano lievi accenni terziari ed empireumatici. In bocca, dall’Amarone precedente si discosta per una maggiore percezione pseudo-calorica e per una più consistente potenza gustativa.
Ancora una volta, la persistenza è fuori scala, misurabile in minuti, e suggella alla grande un vino da un’annata che, annota Marco Dal Forno, ha del “miracoloso”, dato che fu la prima senza grandine dal 2004.
Amarone della Valpolicella DOCG Monte Lodoletta 2010
A differenza dai vini precedenti, in questo caso l’invecchiamento è di 36 mesi in barrique nuove di rovere americano.
Il colore fa una leggera concessione al trascorrere del tempo, proponendosi di un granato lucente, ma pur sempre fittissimo.
Il naso, un po’ come il Valpolicella Superiore 2004, è avaro di descrittori. Ci sono, ma sono compressi, fusi in un’unica materia odorosa. Epperò, riusciamo con Diego Sburlino a strappare i riconoscimenti di china, rabarbaro, spezie puntute e frutta scura in macerazione.
L’assaggio, meno pieno dei due Amarone precedenti, è più espressivo: i richiami ai sentori di radice enfatizzano una discreta componente amaricante del sorso, poi aromi di cioccolato, liquirizia e tamarindo. È un vino a sé rispetto agli altri, dalla beva piena, godibile, intensa, e con un tannino davvero superbo.
A valle di una degustazione superlativa, portiamo a casa alcune certezze: la prima, che la Valpolicella sa esprimersi in termini di eccellenza assoluta, anche in zone che, a una lettura superficiale, potrebbero sembrare meno vocate; la seconda, che il Valpolicella Superiore non è affatto il figlio minore dell’Amarone, semmai un fratello più tonico e prestante; il terzo, che l’Amarone non è più, almeno ai vertici come in questo caso, la beva pomposa, larga e rassicurante di un immaginario tanto stantio quanto passato: oggi è un vino potente e affinato, dritto e giocato sulla componente glicerica; quarto, i vini di Romano Dal Forno si devono interpretare come mattonelle di un’unica, lunga, strada lastricata, dove al passo successivo consegue sempre quello precedente, che ne è principio e comune filosofia; ultimo, ma non ultimo, che i vini bevuti insieme a Diego Sburlino, Marco Dal Forno e Lorenzo Righi sono colonne portanti di un territorio e, al contempo, dell’intero panorama nazionale.