Sannio, identità di un territorio
Un interessante percorso nel territorio beneventano e nei suoi vini, attraverso le appassionate parole di Guido Invernizzi, sannita d’adozione.
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La Cantina di Solopaca nasce nel 1966 ed è una delle più antiche cooperative agricole della Campania. All’inizio contava 25 soci fondatori, oggi raggruppa 600 soci e circa 1100 ettari vitati oltre a un ampio bouquet ampelografico. Negli ultimi anni ha investito particolarmente in due progetti, Identitas e Viticoltori San Martino: proprio questi due progetti, in occasione del banco di degustazione Identità Protagoniste, si fanno opportunità per raccontare e degustare i vini di un territorio vocatissimo.
L’incontro si apre con Antonio Divellini, direttore commerciale, che introduce la cantina e la sua storia. La parola passa poi all’enologo Vincenzo Mercurio che si concentra su un concetto chiave per raccontare il lavoro di zonazione che la cantina sta compiendo. Il progetto Identitas riguarda infatti lo studio e la valorizzazione del territorio nelle sue micro-parcelle proprio a partire dalla vinificazione separata delle uve provenienti dai singoli terroir per enfatizzarne le potenzialità espressive e le caratteristiche peculiari. Lo studio così dettagliato dei risultati provenienti dai singoli terreni omogenei al loro interno permette una vinificazione settoriale che si fa “abito su misura” e che agevola il riconoscimento identitario di ogni territorio attraverso i suoi vini. Il progetto Viticoltori San Martino si concentra invece sulle lavorazioni in regime biologico di falanghina e aglianico nell’areale del Taburno, una zona a mezza collina del cuore della DOCG dove le condizioni pedoclimatiche ottimali permettono di ottenere una perfetta qualità delle uve.
Guido Invernizzi prende la parola citando Michel Rolland: «In un bicchiere di vino c’è molta più storia che geografia». Nel Sannio questo è poco ma sicuro: nel Taburno furono infatti i Micenei a portare l’uva e i Sanniti, che vinificavano ben prima dei Romani, pare siano stati tra i primi ad appassire le uve. A Dugenta si facevano le anfore vinarie più belle dell’antichità. Tito Livio definiva le quattro stirpi sannite Pentri, Carricini, Caudini e Irpini «montani atque agresti» ovvero guerrieri, pastori e contadini. Un popolo tenace con forte spirito d’abnegazione.
Il Sannio è la zona più vitata della Campania, la qualità dei suoi vini è di anno in anno più alta e questo è possibile anche perché è un territorio decisamente vocato. I terreni minerali, stratificati con arenarie, sabbie, tufo grigio e suoli vulcanici permettono alle uve di esprimere vini complessi e sapidi, dalle notevoli particolarità. La varietà ampelografica è considerevole e ancora non del tutto esplorata: siamo in una fucina di vitigni e le micro-vinificazioni aiutano la valorizzazione delle unicità.
La degustazione comincia dalla falanghina, un vitigno dalla «versatilità diabolica», un’uva eccezionale che riesce a comunicare bene il territorio sia quando dà vita a vini passiti sia spumanti, vendemmie tardive e vini da invecchiamento. Un’uva «poliedrica, raffinata, complessa» in grado di estrinsecare un patrimonio aromatico impressionante.
Le tre versioni assaggiate hanno proposto vini molto diversi tra loro, a dimostrare la versatilità e l’influsso del territorio.
Falanghina del Sannio DOP VSQ BRUT Oro
Vigneti posti su colline ventilate, terreni argillosi, solo acciaio e rifermentazione con metodo Martinotti di nove mesi.
Paglierino brillante impreziosito da bollicine copiose e venature dorate. Sfoggia un delicato corredo aromatico che si esprime su toni di cipria, di limone ed erbe provenzali che stanno essiccando. Una pesca bianca e matura s’intreccia a spessori di boulangerie e spinge a ricordi di scorza di cedro. Il palato gratifica con splendida sapidità, con freschezza e un bel frutto, tradotto nel finale da una piccantezza agrumata.
Falanghina del Sannio DOP Identitas 2021
Sono esposti a sud-sud/est con le radici affondate nell’argilla calcarea e nel tufo vulcanico i vigneti che danno vita a una Falanghina emblematica, un vino che si mostra per quello che è.
Giallo vivace dalle tonalità non ancora dorate, naso intenso che esordisce con una traccia erbacea a cui man mano s’aggiungono sensazioni dolci di frutta matura, emozioni gessose, un agrume che stenta a diventare frutto esotico, ma che si accresce di melone, banana e fiori secchi. La bocca è in piena sintonia col naso: si rivela molto sapido e con una persistenza che sfocia nel balsamico.
Falanghina del Sannio DOP Taburno Armunìa 2021
Il vigneto da cui proviene l’Armunìa è circondato da piante spontanee (cicoria, malva, tarassaco, campanula, trifoglio, centaurea minore) che impreziosiscono. Questo vino, appartenente al progetto Viticoltori San Martino, è biologico e già nel suo nome vede un’ambizione: l’armonia tra uomo e natura.
Oro, più consistente del precedente. Ouverture di erbe officinali, con note fumé, scorze candite di limetta e cedro, stille di ananas sotto spirito e poi fiori, dalla ginestra al fiore d’acacia. Al gusto la prima impressione è quella di un cristallo di sale che si scioglie sulla lingua, poi esplodono la freschezza, la lunghezza, la rotondità.
La degustazione prosegue con una Barbera del Sannio, un’uva e un vino che non hanno nulla a che vedere con la barbera piemontese, e che è più affine alla Lacrima di Morro d’Alba. Pare che questo nome sia stato scelto a tavolino, forse proprio con lo scopo di rimandare a un vino dalla certa fama. L’obiettivo non è stato raggiunto e il nome ha creato più confusione che conoscenza verso un vitigno che ha una propria identità. Dal prossimo anno, questo vitigno semi-aromatico, potrà essere chiamato camaiola nero.
Barbera Sannio DOP Telesinum 2020
Il nome omaggia l’antica città di Telesia che produceva già nell’antichità vini da questo vitigno. Piante di vent’anni, terreno argilloso, esposizioni ottimali, solo acciaio.
Di un fitto colore rubino, vitale e luminoso, ricco di antociani e venato da lampi violacei. Al naso è giovane e fresco, con aromi fruttati di gelso nero, un mazzolino di violette, una spolverata di spezie. Un profilo che rimanda alla Lacrima e al Ruché. Al gusto è fresco e sapido, contraddistinto da un giovane tannino.
Gli ultimi due vini sono due interpretazioni di Aglianico del Taburno. L’aglianico, dopo il sagrantino, è tra i vitigni più tannici. È un’uva che ha tanto da dire e ci apprestiamo a confrontarne due versioni distinte.
Aglianico del Taburno DOCG Armunìa 2019
Vino biologico, lieviti indigeni: insolitamente è un aglianico che fa solo acciaio per 24 mesi così da dare una connotazione pura e autentica al vitigno.
Rubino pieno, quasi impercettibile la trasparenza, grande consistenza. Elegantissimo. L’olfatto è composto dapprima da un bel frutto e da un floreale insistente. Poi cuoio, balsamicità, liquirizia e una splendida complessità data dalle spezie, dalle erbe, dal caffè appena macinato. In bocca il tannino scalpita, la spezia irrompe e permane mentre sensazioni erbacee accompagnano a una lunga chiosa ammandorlata.
Aglianico del Taburno DOCG 24 Carati 2018
Vino di punta dell’azienda, 24 mesi in 24 barrique. Da questo il nome, che vuole comunicare qualcosa di prezioso. Viene prodotto nel comune di Torrecuso, su terreni calcarei e argillosi.
Sipario rubino vivido che si apre su un complesso odoroso eccezionale. Lo scrigno olfattivo è a tinte scure: caffè, spezie, frutto nero; cenni di noce, di erbe officinali, ricordi fioriti e intarsi di oliva. Palato domato, pieno, molto saporito e rotondo, impalcatura solida, sapidità, aromi d’inchiostro e liquirizia si congedano in lunghezze amaricanti. Tannino setoso.
Il nostro itinerario nel Sannio termina con una carrellata di abbinamenti che fanno venire l’acquolina e ricordano a tutti che è ora di cena. L’incontro è stato ricco di spunti, di suggestioni e buoni vini. Grazie Guido, al prossimo viaggio!