“Terra sitibonda, ove il sole si fa vino”. La Puglia di Gianfranco Fino tra memoria e ricerca
Racconti dalle delegazioni
16 dicembre 2025
C’è un filo che unisce Puglia e Bergamo, non geografico ma umano, fatto di incontri e deviazioni del destino. Gianfranco Fino – enologo, produttore, ma prima ancora narratore della sua terra – lo ricorda volentieri. «Torno a Bergamo con piacere quando si tratta di parlare della mia azienda, perché qui è iniziato tutto, anche se allora non lo sapevo».
RUBRICHE
All’inizio degli anni Duemila, Gianfranco Fino si trovava “in prestito” al mondo dell’olio. A Bergamo lavorò fianco a fianco con Gino Veronelli, come suo agronomo, un incarico durato tre anni e mezzo, fino alla scomparsa del maestro. Veronelli ripeteva spesso: “l’olio come il vino, l’olivo come la vite”. Fino comprese quanto i due mondi fossero speculari, entrambi mosaici complessi di varietà ed equilibri. Veronelli – che nemmeno sapeva che Fino avesse studiato enologia – lo spinse con decisione verso il vino: «In Puglia devi fare vino, assolutamente».
La genealogia delle passioni non è mai lineare, si costruisce attraverso incontri, ritorni e scoperte
Il percorso di Fino nel vino non nasce da una tradizione familiare. Suo padre, dirigente della Marina, lo avrebbe voluto militare. A cambiare la rotta fu un professore di applicazioni tecniche, agronomo, che gli trasmise l’interesse per l’agricoltura. A Taranto non esisteva una scuola agraria, per seguire il richiamo, Gianfranco dovette spostarsi a Locorotondo, 45 km da casa. L’avventura iniziò con un piccolo vigneto ad alberello dietro casa, ottenuto in comodato gratuito, un manuale di Dal Maso e un paio di forbici da potatura regalati dal padre. Dopo anni di consulenze e di “enologia itinerante”, rientrando in Puglia dopo un viaggio con Veronelli, Fino decise che era tempo di tornare definitivamente. «Da cittadino di Taranto sono andato a Manduria perché era stata la prima DOC pugliese. Ho preso accordi con un mediatore e ho comprato il primo ettaro e 30 nel 2003. Il primo vino, Es, è arrivato nel 2004. Me lo sono regalato a quarant’anni».
Una cantina che non è solo una cantina
Oggi l’azienda gestisce 25 ettari e produce tra le 35 e le 40 mila bottiglie. La nuova struttura inaugurata cinque anni fa rispecchia un’idea che Gianfranco Fino coltivava da tempo: una cantina che fosse spazio di dialogo, di confronto, di turismo lento. C’è un ristorante segnalato dalla Guida Michelin, un wine bar, percorsi che non si esauriscono nel calice ma proseguono nei sapori della cucina e nel racconto del paesaggio. «La visita non finisce in cantina, continua nei paesi intorno, nella cucina, nella luce della Puglia».
Tra vitigni storici e riscoperte contemporanee
Fra le novità più recenti spicca il Fiano “16.000”. «Da qualche giorno abbiamo iniziato la commercializzazione di un fiano che, in maniera un po’ provocatoria nei confronti dei campani, ho chiamato 16.000». Il nome rimanda a un episodio documentato della fine del Duecento. Secondo le cronache del regno angioino, Carlo II d’Angiò fece introdurre in Capitanata sedicimila barbatelle provenienti da Cava de’ Tirreni, destinate alle campagne di Manfredonia. In sostanza un bianco che non vuole imitare, ma riaffermare la lunga relazione tra Puglia e viticoltura. «Sono orgoglioso perché è il mio primo vino bianco come Gianfranco Fino», aggiunge. Ma il progetto non si esaurisce qui «In un momento complesso per i rossi di alta gradazione, stiamo cercando di diversificare, il primitivo ha le sue caratteristiche e non possiamo snaturarle».
Puglia, da stereotipo a rivelazione
«Con Guido, per anni al Merano Wine Festival, abbiamo degustato insieme, scambiandoci pareri» ricorda Fino introducendo il relatore della serata, Guido Invernizzi, che non ha certo bisogno di presentazioni nel mondo AIS. «Da quando Gianfranco ha iniziato, ho visto una crescita costante e profondamente qualitativa, in una regione che non è affatto semplice da interpretare nel panorama vitivinicolo italiano» commenta Guido, ricordando come i Greci, quando arrivarono in Puglia, avessero già le idee chiarissime su come coltivare e vinificare. Dante definì la regione “terra sitibonda, ove il sole si fa vino”. Un’immagine che, osserva Guido, «resta sorprendentemente attuale». «Nel 2025 la Puglia è ancora questo: luce, calore, densità. Ma oggi c’è anche consapevolezza, c’è studio, c’è la valorizzazione di vitigni che per troppo tempo erano rimasti in secondo piano». Per anni la regione ha portato il peso di uno stereotipo, terra di quantità più che di qualità, ma ora «è finito il tempo in cui il Sud era considerato un semplice serbatoio. Oggi il vino di qualità si fa ovunque, ma al Sud si fa da migliaia di anni».

La profondità storica
Parlare di vino in Puglia significa attraversare un archivio millenario. La prima traccia arriva dal Neolitico. La vite giunge sulle coste adriatiche portata dalle popolazioni balcaniche; i Greci le danno dignità culturale. Taranto diventa una delle più importanti colonie spartane del Mediterraneo, un laboratorio culturale dove la vite non è solo coltivata, è pensata, interpretata, celebrata. La cultura ellenistica modella il gusto mediterraneo, introduce tecniche, conoscenze, sensibilità. Il mondo romano amplifica tutto questo. Le fonti letterarie, Orazio, Virgilio e molti altri, citano più volte i vini pugliesi, riconoscendone qualità e carattere. Testimonianze preziose del fatto che il vino di questa regione aveva già allora un’identità distinta, riconoscibile. Federico II introduce regolamentazioni agronomiche che anticipano la modernità. Ogni epoca lascia un segno: Balcani, Ellade, Roma, Medioevo. Un patrimonio stratificato; qui, più che altrove, il vino è una civiltà in forma liquida.
Il capitolo genetico. Primitivo e zinfandel, due fratelli separati
La storia che unisce primitivo e zinfandel è un ponte tra continenti. Nel 1967 il professor Austin Goheen dell’Università di Davis, di ritorno da un convegno di fitopatologia in Germania, decide di fermarsi a Bari per salutare il collega Giovanni P. Martelli. Durante una cena Goheen resta folgorato dalla somiglianza tra primitivo e zinfandel californiano. Da quella sera i destini dei due vitigni iniziano a convergere, alimentando ricerche, ipotesi e confronti fra studiosi italiani e americani. Goheen non si sbagliava. Prima gli studi ampelografici, poi l’analisi del DNA confermano l’identità genetica tra primitivo e zinfandel. Ma il viaggio non finisce lì. Negli anni ’80 emerge la parentela con un vitigno croato, il Plavac Mali. Le analisi successive mostrano che questo non è il capostipite, bensì il risultato di un incrocio spontaneo tra zinfandel-primitivo e il rarissimo dobričić. La pista porta allora con decisione verso la Dalmazia, dove in alcuni vecchi filari attorno a Kaštela riaffiora un vitigno quasi dimenticato, il crljenak kaštelanski, oggi riconosciuto come il vero sinonimo originario dello zinfandel-primitivo. È probabilmente da qui che la vite ha intrapreso il viaggio attraverso la collezione viticola austro-ungarica di Vienna, fino alla costa americana. Le rotte storiche fanno il resto. In Puglia, dove si ritiene arrivato nel XVIII secolo, assume il nome di primitivo per la sua maturazione precoce e trova nelle zone di Manduria e Gioia del Colle una patria definitiva; negli Stati Uniti, giunto nella prima metà dell’Ottocento, prende il nome di zinfandel e diventa simbolo della viticoltura californiana. Solo tra gli anni ’90 e i primi 2000 la scienza chiude il cerchio, dimostrando che primitivo e zinfandel deriverebbero da un originario vitigno croato chiamato tribidrag.
Climatic change, perché la Puglia è meno vulnerabile
«Il global warming da noi ha inciso poco», afferma Fino. Il motivo è semplice, la Puglia è abituata al caldo, una condizione che non è anomalia ma la normalità attorno alla quale si sono adattati e selezionati i grandi autoctoni regionali. Primitivo e negramaro, in particolare, hanno sviluppato una resilienza fisiologica che oggi rappresenta un vantaggio competitivo. Il caso del negramaro è emblematico. Germoglia addirittura prima del Primitivo, ma matura in seconda-terza epoca, mantenendo equilibrio e regolarità anche negli anni più complessi: «Conserva pH intorno a 3, acidità totale 7–8…» sottolinea con fierezza. È così che nasce l’idea di produrre una bollicina metodo classico da negramaro. La ragione non è solo genetica, è anche agronomica, culturale, quasi antropologica. «Ci sono annate e annate, certo – spiega Fino –, ma qui abbiamo gli strumenti per difenderci». Irrigazioni di soccorso, una o due al massimo, sono spesso sufficienti per proteggere la pianta nei momenti più critici. «A luglio quest’anno le foglie sembravano del 10 maggio». I suoli freschi e profondi fanno il resto, insieme a un ritorno consapevole alle pratiche dei nonni, forme moderne di aridocoltura, gestione del suolo pensata per ridurre evaporazione e traspirazione, lavorazioni minime, protezioni naturali.

La degustazione
Vino Spumante di Qualità Metodo Tradizionale Rosato da uve negroamaro GF 2019
«Oggi si producono bollicine eccellenti anche da vitigni considerati improbabili. Trent’anni fa, annunciare un metodo classico da uve negroamaro sarebbe stato motivo di TSO», scherza Guido.
Le uve provengono da una vecchia vigna reinnestata sette-otto anni fa, oggi allevata ad alta densità, circa 10.000 piante per ettaro. È una scelta tecnica mirata: «Per fare una grande bollicina serve produzione. Se la pianta porta più grappoli, l’uva matura più lentamente e mantiene acidità e pH ideali», precisa Fino.
Impreziosire i rosati pugliesi con una bollicina, questo lo scopo, guardando dichiaratamente allo stile champenoise. Barrique usate, macerazione brevissima di quattro ore, pressatura soffice. Un lavoro che comincia all’alba con la vendemmia e si conclude di notte, tra camion frigo, vinacce e svinature alle due del mattino. Dopo la fermentazione, il vino sosta sei mesi in legno, poi affronta un tiraggio rigoroso e una permanenza di 48 mesi sui lieviti, più un ulteriore affinamento in bottiglia.
Luminoso color salmone tendente all’arancio, con bollicine minute e perfettamente verticali. Guido ne sottolinea la “sanità cromatica” e la spuma fine, segnali evidenti di una presa di spuma impeccabile. Il profilo aromatico è arioso e complesso: fragolina, ribes, una sfumatura “pinot-noireggiante”, erbe aromatiche e un tocco di speziatura boisée. La lunga sosta sui lieviti introduce note di pâtisserie più evolute della semplice panetteria: biscotto secco, accenni di confettura ai frutti rossi, una lieve sensazione burrosa. Il sorso sorprende per freschezza e acidità. Il frutto è vivo, pulsante, ampio ma mai dolce; la chiusura, cosa non scontata nei rosati, non mostra alcuna deriva amaricante. Equilibrio, persistenza e finezza definiscono un metodo classico compiuto.
Fino non si ferma qui. «Un po’ di pazienza, a ottobre del prossimo anno uscirà il mio primo blanc de noir, sempre da negroamaro», anticipa. Un progetto che ha richiesto anni di prove, perché ottenere un blanc de noir vero, senza ricorrere al carbone decolorante, che «oltre al colore toglie anche i profumi», significa fermarsi un passo prima dell’estrazione. «Ho scelto pressature morbidissime: faccio appena 38-39 litri per quintale, una resa bassissima. Ma ci piace fare le cose in un certo modo».
Salento Primitivo IGT SÉ 2022
Sé nasce nel 2010, quando Fino acquista il podere destinato a diventare sede della cantina. Le analisi dei suoli rivelano un mosaico di terre: rosse ricche di ferro, scure, argillo-calcaree. Una diversità che orienta le scelte con rigoroso metodo, precisa Fino. Il portainnesto è il 161-49 «lo stesso utilizzato per l’Echézeaux della Romanée-Conti», con radici semi fittonali che quasi scongiurano le irrigazioni. «Avendo avuto la fortuna di avere vigne vecchie, ho fatto una selezione massale e scelto quattro cloni di primitivo». A undici anni di distanza il vigneto è entrato in perfetto equilibrio vegeto produttivo.
La fermentazione si svolge con macerazioni di due-tre settimane, prevalentemente tramite délestage, evitando follature che, con una buccia sottile come quella del Primitivo, rischierebbero di estrarre composti indesiderati. «Il primitivo vuole la barrique», spiega Fino. «Ha tannini presenti, ma difficili da polimerizzare. É un’uva ricchissima di malvedine, le antocianine più stabili, responsabili del colore, ma povera di tannicità strutturale. Per fissare quel colore serve un supporto, e i tannini non bastano. È qui che la barrique diventa fondamentale».
Colore rubino ancora vibrante. Al naso la frutta rossa è matura ma non cotta: ciliegia, amarena; accenni di cannella, pepe, una tostatura lieve. «Un vino che non diventa mai frutta sotto spirito, nemmeno con 14 gradi», sottolinea Invernizzi. L’ingresso in bocca è vellutato, di una delicatezza quasi sorprendente per il grado alcolico. Freschezza, salivazione, equilibrio. Il finale richiama rabarbaro e tamarindo. Un primitivo che resta fedele alla sua identità, ma ripulito, levigato, preciso.
Salento Primitivo IGT ES 2022
Es nasce nel 2004 da una parcella di un ettaro e 30 oggi non più esistente. È il vino che ha cambiato la storia recente del primitivo. Oggi il progetto vive grazie a una serie di micro-parcelle vinificate separatamente. Le rese sono minime.
Rubino che vira verso il carminio, pieno e lucente. Al naso è un labirinto aromatico, ciliegia matura, cioccolato, note empireumatiche, un ricordo di olive nere al forno, addirittura sensazioni ferrose. «Il concetto di complessità», dice Guido, «qui trova il suo significato più pieno.» In bocca l’evoluzione è ampia: frutta secca, spezie dolci, una tessitura tannica finissima. L’alcol è “educato”, perfettamente integrato, e la persistenza è lunghissima, mentolata, avvolgente. Un vino performante, capace di mettere d’accordo la critica italiana per quindici anni consecutivi. Un primitivo-monolite che resta scolpito nella memoria.
Salento Negramaro IGT JO 2021
“Jo” da mar Jonio, il mare che bagna le coste di Manduria. Jonico inoltre è uno dei sinonimi del Negroamaro.

La 2021 colpisce per il colore ancora vivo, con riflessi violacei nonostante i quattro anni di età. Al naso emerge subito la differenza con il primitivo. Frutto sì maturo, ma più fresco, più teso, accompagnato da leggere note di sottobosco, fumo, terra bagnata, descrittori che Guido indica come “marcatori tipici del Negroamaro”. La speziatura è delicata, quasi timida. Una lieve lavanda aggiunge freschezza. In bocca l’eleganza è la cifra stilistica, meno materia rispetto ai primitivi, ma una finezza lineare, una scorrevolezza che non è sinonimo di leggerezza, bensì di compostezza. Un negroamaro energico ma armonioso, senza bruciature alcoliche, senza eccessi; quintessenza di un territorio argilloso-calcareo che privilegia ampiezza e sapidità.
Salento Primitivo IGT ES Red 2018
«Un’unica parcella, più o meno la stessa ogni anno», precisa Fino.

Carminio-granato elegante, con una luminosità che Guido definisce “da pietra preziosa”. Il vino scorre lento sulle pareti, segno di una struttura imponente ma sana. Al naso perfezione stilistica, frutto, spezia, note empireumatiche, floreale passito, umami. La nota ferrosa, figlia delle terre rosse, si unisce a cacao, funghi secchi, torrefazione. Una sinfonia terziaria che non spegne la vitalità del frutto. In bocca è un crescendo di spezie, cannella, frutta secca, profondità e calore dosato. Un vino che racconta perfezione maniacale in vigna e in cantina, la ricerca del dettaglio assoluto, il senso stesso di un “top di annata”.
Salento Primitivo Dolce IGT ES Più Sole 2018
La serata si chiude con il vino più raro, in quindici anni è stato prodotto solo quattro volte. Un passito da acini appassiti direttamente in pianta, con tutte le incognite climatiche che questo comporta. Qui l’obiettivo non è la dolcezza, ma la complessità.
Nel bicchiere il vino si apre con esemplare ricchezza aromatica: ciliegia matura, uva passa, dattero, fichi, cioccolato, pasta d’olive, amarena. «E non è un paradosso: questo è un vino fresco», sottolinea Invernizzi. La dolcezza non appesantisce; la bocca è avvolta da una consistenza setosa, quasi talcata, e una leggera vena amaricante bilancia lo zucchero. Una piccola nota tannica, educata, ricorda il tamarindo; una durezza composta, che alleggerisce e tiene in tensione il sorso. La corrispondenza gusto-olfattiva è piena.

«Questo probabilmente è il vino dove le nostre aree del cervello hanno avuto più soddisfazione perché è di una completezza straordinaria. Dire passito è sminuente», osserva Invernizzi. «È da discussione, come avrebbe detto Veronelli», chiosa Fino.
Una chiusura perfetta per quello che Guido definisce «un Magical Mystery Tour nel mondo di Gianfranco Fino».