Tokaji: eleganza dell’Est Europa

Tra fotografie scattate personalmente e aneddoti di vita vissuta in loco, Mariano Francesconi ha permesso ai soci di AIS Brescia di fare un piccolo viaggio in Ungheria, nella zona di Tokaji, tanto famosa quanto piena di peculiarità.

Giovanni Sabaini

Siamo abituati a pensare (e in linea di massima abbiamo ragione) che la luce solare sia uno degli elementi chiave perché la vite possa avere un normale ciclo vegetativo. Ma perché una regola possa essere considerata tale, devono sussistere delle eccezioni che la confermano. Ci sono zone nel mondo, come quella di Tokaji, patrimonio Unesco dal 1993, in cui le ore di luce sono poche, ma questo non ha impedito all’uomo, nel corso dei secoli, di trovare vitigni e tecniche di vinificazione che consentissero, anche qui, di ottenere prodotti straordinari.

Anche se sembra strano dirlo, il segreto della produzione del Tokaji è proprio il clima. Non sarebbe possibile lo sviluppo di botrytis cinerea, la famosa muffa nobile (la stessa di cui beneficia il Sauternes), se non ci fosse il giusto avvicendamento di nebbie, che ne causano la generazione, e di venti, che asciugano le uve mantenendone la sanità anche in presenza di botrite e consentono al fungo di penetrare l’acino senza lacerarlo.

Territorio e vitigni

Sono circa 5.000 gli ettari vitati in Tokaji, in drastico calo rispetto a una trentina d’anni fa, ma non è cambiata nel tempo la qualità dei vini, anche per merito di un terreno molto particolare e molto antico. Sono circa 450 i vulcani che nei millenni hanno alternato la loro attività sul suolo ungherese, lasciando in eredità sottostrati molto ricchi di minerali, differenti da zona a zona, che col tempo in alcune aree sono stati ricoperti da losz, sabbia finissima arrivata fin qui dalla Siberia, figlia dell’erosione e del trasporto eolico.

Va da sé, dunque, che solo alcune varietà possano rendere al meglio su suoli così particolari. Sono sette quelle previste dal disciplinare. Parliamo, in primis, del furmint, il maggiormente diffuso (nell’ordine dei 4.000 ettari sul totale di 5.900): volendo raccoglierne sinteticamente i tratti identitari, si potrebbe dire che raccoglie in sé l’acidità del riesling, la capacità di mettersi al servizio del territorio del sauvignon blanc e la sensibilità alla botrite del sémillon. Proprio per queste caratteristiche è stato identificato come particolarmente adatto alla produzione di vini dolci, nonostante se ne producano alcune interessanti versioni secche (una in degustazione questa sera).

Il secondo vitigno più diffuso è l’hárslevelű, nella misura di oltre 1.000 ettari: questo numero potrebbe far pensare ad un co-protagonista di livello importante, ma in realtà, nonostante qualcuno abbia la volontà di ricercare la sua miglior versione vinificandolo in purezza (secco, dolce e qualche coraggiosa interpretazione aszu), viene impiegato in assemblaggio con il furmint per le sue caratteristiche quasi opposte. È infatti meno marcata l’acidità e il grappolo spargolo fa sì che non sia particolarmente sensibile alla botrite.

Al terzo posto per diffusione (460 ettari) troviamo un vitigno che conosciamo bene anche in Italia: il sárgamuskotály, ovvero il moscato bianco (nonostante la traduzione letterale sia “moscato giallo”). Dalla straordinaria completezza aromatica viene usato solo raramente in versione aszu.

Zéta, kabar, kövérszőlő e goher completano il quadro ampelografico della zona, andando a ricoprire nel complesso poco più di 400 ettari.

Le differenti vinificazioni 

Ci sono diverse strade da percorrere in base al vino che si vuole ottenere. Una vendemmia con uva matura e sana consente di produrre vini secchi e puliti. La vendemmia tardiva, invece, apre due differenti scenari.

Il primo è la produzione del “Szamorodni” dolce (letteralmente tradotto come “tale e quale”), per il quale viene utilizzato il grappolo d’uva in surmaturazione in qualsiasi stato di botritizzazione gli acini si trovino.

Il secondo è la produzione del cosiddetto “Aszu”, prodotto solo con acini completamente botritizzati, riconoscibili dalla trasformazione cromatica in un marrone molto scuro, e dalla completa asciugatura dell’acino, ma senza traccia di residuo fungino. Gli acini aszu vengono raccolti uno per uno con una resa per ettaro che suona strana a sentirla, ma spesso non supera i 2-3 quintali per ettaro con un singolo operatore che in media non raccoglie più di 10 kg al giorno. L’aggiunta degli acini aszu al mosto in fermentazione avviene tramite una gerla chiamata puttony che contiene circa 27 kg di uva. La tipologia di vino finale verrà determinata da quanti puttony di acini aszu vengono aggiunti nelle botti da 136 litri: il risultato finale sono dunque i tokaji aszu da 3, 4, 5 o 6 puttonyos.

Un po’ di storia

È sorprendente, inoltre, scoprire come la storia del tokaji sia molto più antica di quanto si possa pensare. È nel quindicesimo secolo che si trovano le prime tracce scritte sui vini di Tokaji, ma è il medico alchimista Paracelsus nel 1523 ad effettuare una prima concreta ricerca con l’intento di capire come mai il vino ungherese avesse il colore dell’oro. Nel suo trattato, Paracelsus sottolinea come secondo lui ci fossero dei benefici nel consumo di questi vini e, pur non riuscendo a dare una spiegazione per il colore dorato, conferma che già allora la muffa era l’ingrediente segreto.

L’epoca di maggior splendore del tokaji, però, fu a cavallo tra il 1600 e il 1700. Un contributo fondamentale alla sua diffusione venne dato dalla dinastia Rakoczi, grazie soprattutto a Ferenc III, il quale definiva il tokaji “vino votato alla causa della libertà”. Grazie al suo sostegno il tokaji arrivò nelle corti di tutta Europa: fu, infatti, in Francia che venne coniata da Luigi XIV la famosa espressione “questo è il vino del re, il re dei vini”.

Nel 1720 si procede ad una prima classificazione dei territori e la fama del tokaji raggiunge anche lo Zar, il quale per proteggere le spedizioni dall’Ungheria alla Russia indice il Comitato del Vino, ovvero un insieme di investitori che non solo acquistavano il vino, ma pagavano battaglioni di cosacchi perché lo proteggessero durante le spedizioni.

Nel 1772 e nel 1804 si approfondì ulteriormente la classificazione dei territori mentre la celebrità del tokaji continuava a crescere: a darcene conferma, una pubblicazione ritrovata nel 1867 in cui se ne parlava in ben quattro lingue. Ma la fillossera non ebbe pietà per nessuno e così, anche qui, il crollo produttivo fu inevitabile. In pochi, però, sanno che la soluzione del portainnesto, fondamentale nella ripresa della viticoltura degli anni a venire, venne proprio da due ungheresi (insigniti poi della legion d’onore francese).

Con la fine della Prima Guerra Mondiale l’Ungheria perde quasi i due terzi del suo territorio, ma la parte storica del territorio del tokaji rimane all’interno dei suoi confini. Da allora, passando attraverso una seconda guerra planetaria e un buio periodo di tirannia comunista, si è arrivati alla situazione attuale in cui il tokaji è globalmente riconosciuto come uno dei migliori vini al mondo.

La degustazione

Disznókő Tokaji Dry Furmint 2021
Curiosa interpretazione secca di Furmint in purezza. Al naso la predominanza è la nota agrumata, da succo di pompelmo, ma non mancano note di menta e di erbe aromatiche. A conferma di quanto detto in precedenza l’acidità è vibrante, in bocca persino sferzante. Nel suo essere un po’ fuori dai canoni della piacevolezza per colpa dello sbilanciamento sulle durezze, è innegabilmente un vino di grande personalità. 

Disznókő 1413 Tokaji Ēdes Szamorodni 2018
A causa di un’annata eccessivamente calda, il 2018 non ha offerto uno sviluppo pulito della botrite nei vigneti. Il risultato è che, in una situazione di quasi assenza di acini aszu, la scelta è ricaduta sulla versione Szamorodni dolce. Composto per il 93% da furmint e per il 7% da hárslevelű, merita una considerazione che accomuna tutti i vini di Tokaji: acidità come quelle di questo vino da 7 g/l o persino superiori, come vedremo più avanti, riescono sempre a rendere estremamente piacevole il sorso nonostante la presenza di importantissimi residui zuccherini (in questo vino, per esempio, 153 g/l). Al naso le sfumature tropicali e di albicocca disidratata fanno la parte del leone e vengono egregiamente accompagnati da eleganti sentori di spezie dolci e pera matura. In bocca regala grandissimo equilibrio, risultando morbido ed avvolgente ad inizio sorso, per poi chiudere in maniera scorrevole e saporita. 

Disznókő Kapi Vineyard Tokaji Aszú 6 Puttonyos 2015
Annata calda e secca in Tokaji, con maturazione dell’uva precoce e una conseguente acidità del vino moderata per quelli che sono i valori medi (7,65 g/l contro una media di 10 g/l circa). La prima selezione degli acini aszu si è svolta dal 21 settembre a metà ottobre. Secondo passaggio durato poi fino al 15 novembre. Due anni in botti di legno dopo la fermentazione. Il coloro è dorato carico e il bouquet olfattivo si esprime su note di miele, fiori gialli, mandorla tostata e sentori tropicali da mango e ananas. Il sorso è accomodante, setoso, nonostante il corpo importante dato dai 187 g/l di residuo zuccherino, onestamente difficili da percepire poiché ottimamente integrati.

Disznókő Kapi Vineyard Tokaji Aszú 6 Puttonyos 2011
Altra annata con maturazione dell’uva leggermente precoce, ma l’andamento della stagione ha consentito lo sviluppo di ottima acidità, sull’ordine dei 10 g/l. Cromaticamente allineato alla 2015, sul giallo dorato splendente, rivela invece un naso più complesso. Se il tratto comune è la parte speziata e di frutta tropicale, nella 2011 si rivelano note di cera e resina che strizzano l’occhio alla terziarizzazione degli aromi. Bocca decisamente differente: il residuo zuccherino più basso, sui 164 g/l, e un’acidità nettamente più marcata, regalano un sorso più scorrevole ed equilibrato.

Disznókő Kapi Vineyard Tokaji Aszú 6 Puttonyos 2005
Annata straordinaria la 2005, che ha regalato acini aszu di non esagerata concentrazione, ma di straordinaria piacevolezza. Molte le sfaccettature riconoscibili al naso, note di agrume candito, balsamicità da leggero eucalipto, spezie dolci, note minerali di pietra focaia e chiusura sul cioccolato bianco. All’assaggio esplodono gli aromi percepiti al naso, con la parte zuccherina che sembra scomparire al cospetto della grande acidità di questo millesimo (10,7 g/l). Chiude su sensazioni leggermente amare da arancia in confettura.

Acino Aszu
Esperienza difficile da raccontare. L’acino aszu è un frutto totalmente appassito che ha da offrire una grandissima concentrazione zuccherina e che di uva ha ormai poco… eppure è da qui che parte il percorso che porta al tokaji aszu. Una cosa è certa: c’è della magia nella produzione del vino aszu.

Tokaji Eszencia 2016
Attenzione: questo non è un normale Aszu Esszencia, ma trattasi di Esszencia. Qual è la differenza? L’aszu Esszencia è sostanzialmente un aszu con l’aggiunta di una parte di Esszencia. Qui siamo invece di fronte all’assaggio di pura Esszencia, il risultato della spremitura degli acini aszu, zero gradi alcolici, 420 g/l di zucchero, 16 g/l di acidità, parametri completamente fuori da ogni genere di bevanda che siamo soliti consumare. E infatti, l’ottima squadra di AIS Brescia, ha scelto di non utilizzare il calice, bensì un cucchiaio da finger food, per darci la possibilità di apprezzarne la masticabilità. Si tratta, infatti, di una sostanza dal corpo robusto, con la consistenza più simile a quella del miele che a quella del vino, con una smisurata concentrazione di gusto.

Se il mondo del vino riesce ad essere sempre affascinante, in Tokaji riesce certamente ad esserlo un po’ di più. Con l’ultimo vino di questa serata, poi, possiamo considerare conclusa la ricerca del nettare degli dèi: l’abbiamo trovato!