Una passeggiata nell’Anjou con Patrick Baudouin, maestro dello Chenin
Racconti dalle delegazioni
24 luglio 2025

Patrick Baudouin, supportato da Giorgio Fogliani, racconta con generosità le peculiarità geologiche dell’Anjou, la storia dello chenin e la filosofia che anima il suo lavoro nel Domaine Baudouin. Ospiti di AIS Monza e Brianza, hanno dato vita a una chiacchierata affascinante tra cultura, natura e vini che esprimono l'anima del territorio.
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Anjou e il Domaine
La Loira è un fiume lungo, mutevole, che attraversa suoli cangianti e castelli leggendari: Patrick Baudouin, vigneron dallo sguardo bonario e dallo spiccato senso dell’umorismo inizia il suo racconto da una mappa, illustrando la divisione tra Anjou Noir e Anjou Blanc. «Non è la colorazione del vino, è la colorazione geologica» precisa, sottolineando come questa distinzione influenzi profondamente il carattere dei vini. L’Anjou Noir si trova nel Massiccio Armoricano, con terreni scistosi, poveri, molto antichi (tra 320 e 600 milioni di anni), che trattengono poca acqua e sono molto filtranti. L’Anjou Blanc, invece, si estende sul bacino parigino, con suoli argilloso-calcarei, che trattengono più acqua e la rilasciano lentamente. Lo scisto da un lato, il calcare dall’altro. Le colline sono esposte a sud, sud-est e sud-ovest presentano diversità anche nell’esposizione e nella morfologia. Le altitudini non sono elevate (circa 90 metri), ma il paesaggio è movimentato e suggestivo.
Il Domaine si trova proprio in una zona delimitata dal fiume Layon e dalla Loira. Patrick conferma: «Abbiamo una grande diversità, sia geologica che espositiva», il Layon, con i suoi meandri, crea una grande varietà di esposizioni e microclimi. Molti appezzamenti sono stati recuperati dopo decenni di abbandono, e oggi il Domaine pratica un’agricoltura biologica certificata, attenta alla biodiversità e alla vita del suolo. Una parte significativa del lavoro viene svolta con il cavallo, e il suolo è protetto e arricchito grazie a pratiche sostenibili: alberi lasciati tra i filari, pecore al pascolo invernale, e un’attenzione profonda alla vita nascosta sottoterra.
L’approccio del Domaine è tutt’altro che semplicistico ed è consolante per noi, seduti tra il pubblico, avere come interlocutore una persona che con candore racconta la complessità della via “naturale” al vino; citiamo qui alcune dichiarazioni reperibili sul sito patrick-baudouin.com e liberamente tradotte da una pubblicazione di Patrick: Il nostro approccio è basato sulla ricerca, oggi nessun sistema di pensiero costruito globalmente è rilevante, e questo vale anche per la viticoltura. Non possiamo fare altro che procedere passo dopo passo, monitorando costantemente la situazione e commettendo certamente degli errori. In questo campo, è Rabelais, il medico, umanista, scrittore e bevitore della nostra Valle della Loira, a guidarci: “La scienza senza coscienza è solo la rovina dell'anima”.
Un tratto distintivo del Domaine Patrick Baudouin è il metodo di impianto radicale: le barbatelle non vengono acquistate già innestate, ma il portainnesto viene piantato direttamente in campo, lasciato crescere e radicare per tre anni, e poi innestato a mano. Un processo lento, ma che garantisce vigne più forti e profondamente radicate.
La vinificazione riflette lo stesso rispetto per i ritmi naturali: le fermentazioni avvengono in superficie, senza cantina interrata e senza tecnologie invasive. Non vengono utilizzati enzimi né raffreddamento artificiale: si sfrutta il gas carbonico naturale prodotto all’inizio della fermentazione per far emergere le impurità. È una tecnica tradizionale, precedente all’uso dell’elettricità. Inoltre, il Domaine utilizza la geotermia per mantenere costante la temperatura, riducendo drasticamente il consumo energetico. La squadra è composta da dieci persone, «troppi secondo i commercialisti» ironizza Patrick, e da oltre vent’anni c’è una stretta collaborazione con persone con disabilità, in un progetto umano e sociale che va senza dubbio oltre il vino.
Lo chenin blanc, un vitigno versatile
Patrick Baudouin ha dedicato oltre anni allo studio dello chenin blanc, un vitigno che continua a sorprenderlo. «Sono anni che cerco di capire questo vitigno. E ancora mi faccio delle domande», confessa, «ma qualche risposta l’ho trovata». Di certo è stato approfondito l’aspetto storico, in collaborazione con scienziati, storici, sociologi ed enologi; Baudouin ha, inoltre, fondato un’Accademia dello Chenin e realizzato due convegni, uno ad Angers (2019) e un altro a Stellenbosch (2022). Racconta che «negli archivi del Dipartimento di Angers abbiamo trovato una ricerca del 1804. In quell’indagine, fatta in tutto il Paese su ordine di Napoleone, si legge che il vitigno più coltivato e considerato di maggiore qualità era lo chenin, detto anche franc pinot». Oggi lo chenin rappresenta solo il 20% delle superfici vitate dell’Anjou. Nota: «Pensate: il 50% dei vigneti dell’Anjou produce rosé dolci! I bianchi secchi sono solo il 2% della produzione. Il resto è composto da vini dolci e spumanti, dove spesso lo chenin è utilizzato in blend».
Insieme agli studiosi si è cercato di capire l’origine dello chenin anche dal punto di vista genetico. A Montpellier, i ricercatori hanno individuato i suoi “genitori”: da un lato il savagnin, dall’altro, forse, il friulano. Il 95% dello chenin in Francia è coltivato nella valle della Loira, tra Montlouis, Vouvray e Angers. In totale, ci sono 9.500 ettari in Francia e 18.000 in Sudafrica, dove è giunto grazie alle navi commerciali olandesi.
La trasformazione e l'interesse verso i vini secchi a base chenin è iniziata negli anni ’90, Patrick racconta che alcuni produttori della sua generazione hanno deciso di dire basta alla chaptalisation, (dal nome del chimico Chaptal, ovvero la pratica, comune in Francia, di aggiungere zucchero). «Prima dell’era industriale lo zucchero era una merce preziosa e difficile da reperire. In alcune zone, come il Layon, il Tokaj o il Sauternes, si riusciva a produrre vini naturalmente dolci, grazie a condizioni ambientali favorevoli e a vitigni predisposti alla botritizzazione, come chenin, sémillon, riesling o furmint. Tuttavia, la presenza della botritys cinerea era incostante. Non si poteva mai essere certi di una buona vendemmia dolce ogni anno. Lo zucchero di canna era troppo caro per essere una soluzione. Tutto è cambiato con l’arrivo dello zucchero di barbabietola, introdotto in Europa su impulso… di Napoleone» e scherza, «sì, purtroppo ha avuto un ruolo anche qui. Con lo zucchero di barbabietola, la dolcezza è diventata disponibile ogni anno, a basso costo». Ecco, all’inizio degli anni ‘90 alcuni vignaioli hanno deciso di dire basta allo zucchero aggiunto e questo ha significato non poter fare fini dolci ogni anno: «E allora? La risposta è stata riscoprire lo Chenin Blanc in versione secca. Abbiamo imparato a lavorare sulla concentrazione naturale, a valorizzare la tensione e la profondità che questo vitigno può esprimere anche senza dolcezza».
La degustazione
In più momenti il pubblico ha chiesto quali fossero le caratteristiche del vitigno e i suoi risvolti aromatici nella versione secca o dolce, a queste domande Patrick ha risposto, con il suo peculiare candore, che non lo affascinano le molecole aromatiche, anzi, si dichiara felice che lo chenin blanc ne contenga poche: «Non mi interessano le molecole odorose. Cerco profondità, non profumi evidenti». Nel 2005 ha partecipato a una conferenza sul gusto, alla presenza del presidente dell’INAO (l’ente che regola le denominazioni d’origine in Francia), in quell’occasione alcuni ricercatori hanno spiegato un concetto fondamentale: il gusto non è solo ciò che si beve, ma anche chi lo beve. Con convinzione afferma: «Il 50% del gusto è nella materia, ma l’altro 50% è nella nostra percezione soggettiva. Questo significa che non esiste un’unica verità olfattiva”. Da allora, Baudouin ha cambiato approccio: «Non dico più cosa sento in un vino. Lascio parlare chi lo assaggia», e in effetti la degustazione è stata per lo più individuale, nonostante, per la sorpresa o la bontà riscontrabile in alcuni calici, non sia mancato un vocìo soddisfatto tra le file della sala.
Anjou Rouge “Coteaux d’Ardenay” 2018
La degustazione comincia con un rosso per poi proseguire con gli Chenin Blanc secchi e dolci. Il primo calice è un blend di cabernet franc 85% e cabernet sauvignon 15%, vitigni nati sui coteaux vulcanici del villaggio di Ardenay, vicino a due vecchi mulini restaurati. Il suolo è composto da ceneri vulcaniche sedimentate, retaggio di antichissimi eventi geologici, la vendemmia è manuale, le uve vengono diraspate, la fermentazione è lenta e delicata con lieviti indigeni a temperature non controllate. L'affinamento è in barrique di più passaggi (nessun legno nuovo invadente) per 12-18 mesi.
Mentre assaggiamo il vino, Patrick racconta un po’ della relazione controversa tra Anjou e cabernet franc, le date dell’introduzione del cabernet nella regione dell’Anjou sono oggetto di discussione: l’XI secolo secondo una fonte dell’abbazia di Ronceray ad Angers, oppure il XVII secolo: introdotto dall’abate Breton, da cui forse prende il nome. Tuttavia, è certo che l’arrivo nell’Anjou Noir avvenne più tardi, e principalmente per la produzione di rosé. Secondo Patrick un buon Cabernet ha bisogno di basse rese e maturazione piena, cosa che non è facile da ottenere in una regione così ricca d’acqua, con due fiumi: la Loira e il Layon, ecco perché spesso viene prodotto il rosato, molti Cabernet d’Anjou sono rosati zuccherini e lo zucchero è aggiunto per compensare l’acidità.
Colore pieno e vivo, con un leggero sedimento. Naso profondo, scuro, austero, cenni chinati, rabarbaro e radici, una grande balsamicità che trova espressione in una venatura mentolata e persistente. Bocca agile nonostante la struttura, bellissima acidità, tannino ben gestito, piacevole lunghezza resinosa.
Anjou Blanc “Effusion” 2022
Partiamo con gli Chenin Blanc, nel calice la cuvée d’ingresso del Domaine, il nome, di fantasia, è un omaggio sia alle emozioni che il vino suscita, sia ai suoli vulcanici (ceneri vulcaniche sedimentate). Prodotto per la prima volta nel 2001, rappresenta un’espressione viva del territorio dell’Anjou Noir. Piante di circa 35 anni, uve diraspate, nessuna aggiunta di lieviti, temperature non controllate, fermentazione in barrique bordolesi. Dopo un mese, si svina, si esegue una leggera torchiatura, e poi il vino va in legno per l’affinamento, che dura tra i 12 e i 18 mesi.
Colore pieno e vivace, un oro etrusco che effonde sentori di pasticceria, crema al limone, balsamicità appena suggerite, un frutto maturo, una grande eleganza. Bocca di acidità sferzante, tattile, salina, lunga su note mentolate.
Anjou Blanc “Le Cornillard” 2020
Uve chenin blanc provenienti da una delle parcelle più spettacolari del Domaine: un coteau scistoso con esposizione sud-est, che si affaccia su uno dei meandri più suggestivi della riva destra del fiume Layon, viti di età compresa tra i 50 e i 70 anni. Fermentazione spontanea.
Per quanto differente un fil rouge olfattivo lega il vino precedente e questo, le prime a presentarsi sono curiose sensazioni di maraschino, il naso è profondo, con accenti agrumati di lemongrass, scorza di cedro e una suggestioni di melissa. Poi il frutto e sbuffi di spezia. Al gusto rivela pienezza, freschezza, sapidità. Vigore e sapore, una tattilità che lascia tersa la beva e che s’allunga su sensazioni quasi liquorose.
Anjou Blanc “Les Gats” 2015
Un vino bianco secco prodotto da uve chenin blanc, provenienti da una storica parcella di vigna piantata nel 1947, situata sulla riva sud del Layon, nel comune di Saint-Aubin, esposto a nord-est, su un dolce pendio. La vigna si estende su una superficie di 1,07 ettari, con un suolo di scisti ocra e talcosi, in leggera pendenza e con esposizione a nord-est. La resa è contenuta a 21 hl/ha, per una produzione totale di circa 3000 bottiglie. Fermentazioni alcolica e malolattica spontanee e complete, affinamento in barrique di Borgogna di 3° e 4° passaggio sulle fecce fini per un anno, seguito da un periodo in vasca fino all’imbottigliamento a marzo 2017.
Il nome del vino coincide con quello della particella e deriva da un termine celtico (Carn), trasformato nel tempo in Gâts, che indicava un ammasso di pietre o terre incolte e poco fertili, spesso sedi di antichi monumenti megalitici.
Colore pieno e vivace, un oro invitante, che schiude le porte a un naso in piena evoluzione, note terziarie di colla e idrocarburi che lasciano presto spazio a un orto botanico con prevalenza di timo e alloro, una traccia amara, di ruta. Palato dall’evidente acidità, una trama slanciata che non manca però di avvolgenza e di una chiusura quasi tattile.
Anjou Blanc “Les Saulaies” 2011
Bianco secco prodotto da uve chenin blanc provenienti da una parcella storica situata sulla riva sud del fiume Layon, a Saint-Aubin. Le viti centenarie (piantate tra il 1911 e il 1916), hanno regalato in questo millesimo una delle ultime vendemmie prima della loro sostituzione. Un ettaro di terreno povero e sassoso, ricco in scisti gréseux, quarzo e metagrauwacke (una roccia metamorfica derivata dalla grauwacke, una roccia sedimentaria composta da sabbie grossolane e materiale argilloso) del precambriano. Fermentazione malolattica completa, affinamento su fecce fini in botte fino a maggio 2013, bottiglie prodotte: 2600, resa: 19 hl/ha.
Alla vista, un giallo dorato con tonalità cupe e austere. Naso importante, segnato dal tempo e con un’infinità di cose da raccontare. Emergono note terziarie in apertura, poi suggestioni di anice, limone candito, pepe bianco, per poi aprirsi a delicate fragranze di pesca bianca in sciroppo. La bocca è spaziale, acida e salata, dalla concentrazione quasi tattile, profonda e intensa fino all’estensione dai chiari riferimenti nocciolati.
Quarts de Chaume Grand Cru “Les Zersilles” 2017
Cominciamo con le versioni dolci, e cominciamo col botto! Uve chenin blanc provenienti da uno dei terroir più prestigiosi della Valle della Loira: il Quarts de Chaume, unico Grand Cru della regione, nonché miglior AOC della regione per i vini dolci. La parcella “Les Zersilles”, coltivata dal Domaine dal 2008, si trova su 1,2 ettari di suoli complessi e stratificati: conglomerati carboniferi nella parte alta e scisti precambriani nella parte bassa, nel cuore dell'Anjou Noir. Questa cuvée è frutto di una vendemmia manuale in 3 passaggi, chiedendo a Patrick quando avviene la vendemmia per questa tipologia di vino, lui risponde un po’ beffardo: «decide la botritys,» poi aggiunge: «può iniziare a ottobre, novembre, fino a dicembre. Richiede 3-4 passaggi in vigna, per raccogliere solo le uve adatte. Nel 2023, ad esempio, abbiamo avuto piogge durante la vendemmia. Abbiamo fatto 4 passaggi, lavorando per sette settimane, ottenendo però solo 17 litri per ettaro di vino secco. Il resto era inutilizzabile per i vini dolci. La produzione dolce dipende da un equilibrio tra botrytis e appassimento naturale in pianta». Fermentazione e affinamento in barrique, imbottigliato il 26 febbraio 2019. 220 g/l di zucchero.
Un vin de méditation di cui godere lentamente, dall’incredibile ricchezza aromatica: debutta con aspetti mentolati a cui s’aggiungono il miele, datteri e frutta disidratata, fichi, allusioni terziarie a impreziosire e farsi largo tra le sensazioni più dolci di agrume candito ed erbe aromatiche. Al palato un perfetto equilibrio tra dolcezza, freschezza e bassa gradazione alcolica. È un vino che unisce concentrazione, eleganza e lunghezza. Chiusura di scorza d’agrume e mela cotogna.
Coteaux du Layon “Maria Juby” 2003
Questa cuvée speciale deriva da uve raccolte in un'annata molto soleggiata, il 2003, che ha conferito al vino grande pregio. Il nome “Maria Juby” è un omaggio alla bisnonna che fondò il Domaine nel 1920. Le uve provengono da vigne di circa 35 anni situate su diverse parcelle del Domaine a Chaudefonds sur Layon e a St Aubin de Luigné, caratterizzate da terreni ricchi di limi argillosi e quarziti silicee su scisti, arenarie, riolite, cineriti e carbonifero. La vendemmia è avvenuta tramite due prime selezioni di uve botritizzate. Imbottigliato nell'ottobre 2005, zuccheri residui pari a 190 g/l.
Bella lucentezza, colore dorato, naso interessante che s’apre su sensazioni evolute di lacca e vernice. Da questa coltre emergono frutti essiccati e fiori in appassimento, spezie dolci ed esotiche, cenni di tostatura, mandorle dolci, tabacco, una sensazione fumé. Al gusto è dolce, fresco, sapido, intenso, di grande armonia ed estensione. Gli aromi finali stentano a lasciarci e ricordano, con sorpresa, il curry.
La serata con Patrick Baudouin e Giorgio Fogliani è stata una chiacchierata fitta fitta, in due lingue (italiano-francese), sul vino, sull’approccio biologico e sul valore del gusto, proprio mentre questo gusto, questi aromi, questo piacere liquido che inebriava le menti, riempivano la sala di emozione e si diffondevano le voci appena sussurrate di confronto tra le file dei partecipanti. Alla fine, come nelle serate più riuscite, ci siamo salutati con poche certezze e un’immensa gratitudine.