Valle d’Aosta, un’isola (felice) fra le montagne

Racconti dalle delegazioni
07 febbraio 2024

Valle d’Aosta, un’isola (felice) fra le montagne

Con l’aiuto di Altai Garin, giovane relatore, ma già profondo conoscitore della sua terra d’origine, siamo andati alla scoperta della Valle d’Aosta, un territorio per lo più impervio, ma in grado di regalare vini emozionanti.

Giovanni Sabaini

Esistono territori nel mondo del vino che è giusto definire “nicchie”. La Val d’Aosta lo è a buon diritto, eppure, nel suo essere in qualche modo isolata dai territori che la circondano, è proprio da essi che nel tempo sono giunte diverse contaminazioni che hanno arricchito un già folto patrimonio ampelografico locale. Ma quella della regione più piccola d’Italia è una storia lunga milioni di anni ed è giusto partire dal principio.

Un po’ di storia 

Il territorio valdostano trae origine dallo scioglimento di un ghiacciaio che nell’arco, appunto, di milioni di anni, contraendosi e frammentandosi per poi sciogliersi lentamente, ha letteralmente tagliato la roccia, andando a creare una grande valle che si sviluppa da ovest a est e che oggi ha al suo interno diverse sottozone profondamente diverse tra loro, sia dal punto di vista geologico, sia da quello climatico.

Qui, il vino esiste almeno dal 63 d.C., come testimonia un’iscrizione romana su pietra che parla di doni al dio Giove Pennino. Tappa fondamentale per il vino valdostano fu il 515 d.C., quando il re burgundo Sigismondo lasciò a dei monaci diverse vigne atte alla produzione di vino, distinguendo tra quelle da utilizzare per il vino da donare alle grandi personalità e quelle da usare per il vino comune. Da qui nasce il termine “Vina Excellentia”, una sorta di zonazione, di selezione dei migliori cru. Pur con i suoi numeri limitati, per secoli la Val d’Aosta recita un ruolo da protagonista nella produzione vitivinicola europea, fino al lento abbandono che tocca il punto più basso tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, un po’ causato dalla fillossera, un po’ dallo sviluppo dell’industria e dalle guerre mondiali. In questi anni, però, precisamente nel 1886, arriva per la prima volta il collegamento ferroviario con il resto d’Italia che consente l’introduzione di vitigni fino ad allora sconosciuti, come il dolcetto, la barbera, il ciliegiolo e la freisa; questi ultimi, però, hanno avuto vita breve perché in qualche modo “eliminati” dopo qualche decennio dalla regione autonoma valdostana. Forse un errore, forse no, ma il tempo scorre comunque e nel 1951 nasce l’Institute Agricole Régional, che permette finalmente una formazione di alto livello per tutti coloro che intendevano diventare gli agricoltori del futuro. Il punto di svolta definitivo, infine, è la nascita nel 1971 del disciplinare della Doc, poi ampliato nel 1985, che, pur nella sua apertura alla produzione di un grande numero di vini con un altrettanto grande numero di vitigni, riesce a tracciare una via da seguire ai diversi areali produttivi.

Le zone di produzione

Ma come sono distribuite le varie zone di produzione? Nel fondovalle è possibile trovare vigne quasi pianeggianti, ma l’essenza del vino valdostano si trova sui versanti delle montagne, dove l’uomo ha dovuto impegnarsi per creare i terrazzamenti al solo scopo di permettere alla vigna di esistere. Per quanto possa essere poetico questo concetto, sono la fatica e il sudore che rimangono a narrare la storia, anche recente, di una viticoltura eroica nel vero senso del termine. Zone particolarmente impervie sono state ribattezzate con nomi quantomai evocativi, come ad esempio Enfer (letteralmente “inferno”) d’Arvier.

È poi salendo di quota che l’assunto “viticoltura eroica” prende sempre più significato. A quote di 1000-1200 metri si è dovuto comprendere che senza un sistema intelligente di allevamento della vite sarebbe impossibile giungere ad un buon livello di maturazione dell’uva a causa del freddo. Nasce così la pergola bassa valdostana, pensata per allargare i tralci della vite allo scopo di far prendere più sole possibile alla pianta, ma soprattutto far sì che i grappoli possano ricavare durante la notte il calore che il terreno assorbe durante il giorno.

Eppure, a rendere complessa la viticoltura non è solo la conformazione del territorio, ma un fattore che ai più potrà risultare insospettabile: in Val d’Aosta non piove. I millimetri d’acqua che scendono nelle zone più produttive sono persino inferiori a quelli che in un anno bagnano Napoli o Matera. Curiosa anomalia se si pensa alla latitudine a cui ci si trova, ma c’è una spiegazione: i venti freddi ed umidi che provengono soprattutto da nord-ovest, nella zona d’origine della Dora Baltea, ma anche da tutte le altre direzioni, si scontrano contro le pareti esterne delle Alpi e scaricano il loro potenziale pluviometrico, creando quel vento caldo e secco che tutti conosciamo come Föhn.

Ma come entrare nel merito delle differenze che caratterizzano i vari areali produttivi valdostani? Nel miglior modo possibile, con la degustazione di otto grandi vini.

La degustazione

Valle d’Aosta DOC  Blanc del Morgex et de la Salle Sette Scalinate - Ermes Pavese
100% prié blanc

Il prié blanc è fuor di dubbio il simbolo della viticoltura bianchista valdostana, sia per storia, sia per numeri relativi alla produzione. Una volta diffuso in tutta la regione, nel tempo è avvenuta una sorta di selezione naturale che ha portato oggi ad una concentrazione della coltivazione nei villaggi di Morgex e La Salle. Vitigno che pur non portando con sé grande acidità, riesce ad esprimersi in maniera egregia negli spumanti metodo classico (secondo disciplinare della doc, il prié blanc è l’unico vitigno permesso per la spumantizzazione) e in versioni estremamente saporite quando vinificato in bianco. È ancora possibile trovarlo in versione ice wine, ma ormai i produttori sono pochissimi e le bottiglie sempre più rare.
Il vino in degustazione, venduto esclusivamente in magnum e in poco meno di mille esemplari l’anno, rappresenta la punta qualitativa della produzione di Ermes Pavese. Il colore si presenta su tonalità del giallo paglierino che strizza l’occhio all’oro piuttosto tipico del prié blanc lasciato leggermente in surmaturazione. Il naso è giocato su profumi freschi, prevalentemente di frutta a polpa bianca quali la pera e la mela, ma la nota più caratteristica è quella che richiama il polline, il cuore del fiore giallo giunto a piena maturità. A seguire ricordi di orzo che richiamano il profumo maltato delle birre ad alta fermentazione. Il sorso è salino, quasi umami, ed è strettamente legato ad una bella freschezza che non sovrasta le altre sensazioni, anzi, le esalta. Nota alcolica nascosta nella buona struttura del vino. Nel complesso un vino che cerca l’impatto più della persistenza, a modo suo certamente memorabile.

Valle d’Aosta DOC Nus Malvoise - Les Granges
100% pinot grigio

Il Pinot Grigio in Val d’Aosta ha una storia millenaria ed è profondamento diverso da quello che negli ultimi decenni è riuscito a ritagliarsi uno spazio importante nel resto d’Italia. Localmente chiamato malvoisie, i vini che si ottengono sono spesso di carattere più ruspante e deciso, ben lontani dalle interpretazioni esili e beverine, per esempio, del Friuli o del Veneto.
È proprio così che si presenta il vino in degustazione, una versione non filtrata e dunque leggermente opalescente di malvoisie, ma che ha grande densità nel suo colore tendente al dorato. Il naso è variegato, gioca sulla frutta a polpa gialla come la nespola, ma con direzioni dolci, esotiche, che ricordano il mango. Qualche secondo di attesa e si fanno spazio sentori di spezie orientali e di essenza di sandalo con qualche tocco verde, vegetale, a ricordarci che siamo di fronte ad un vino giovane. L’ingresso in bocca è quasi oleoso, con netti aromi di albicocca e di pesca gialla matura. Chiude su una direzione tra il caramellato e il miele da caramella Ambrosoli.

Vino Bianco “Sopraquota 900” 2021 – Rosset Terroir
100% petit arvine

Tra i vitigni bianchi valdostani è inevitabile arrivare, infine, alla petit arvine, arrivata in Val d’Aosta proprio grazie al sopra citato Institute Agricole Régional, più precisamente grazie al suo fondatore, un canonico del Gran San Bernardo proveniente dal Canton Vallese, in Svizzera. La petit arvine è un vitigno completo, dalle caratteristiche molto importanti, che ha sì grande freschezza, ma sviluppa un grande apporto zuccherino che porta dunque ad una bella nota alcolica.
Spesso presente tra i vini più premiati d’Italia il vino bianco “Sopraquota 900” è un petit arvine in purezza da vigne coltivate ad alta quota e ottenuto con una vinificazione quantomai variegata, tra anfora in terracotta, acciaio e legno, una formula magica studiata con il supporto di Luca D’Attoma. Nel calice si presenta con una bella carica cromatica sulle tonalità dorate brillanti. Il naso appare fin da subito stratificato in maniera delicata, un insieme di zucchero filato, pera matura, susina, richiami varietali di frutta esotica su un letto di profumi freschi di basilico, maggiorana e fiori bianchi. In bocca unisce la forza dell’alcol alla netta sapidità, che rimane dopo un finale di ritorni aromatici, perfettamente corrispondenti a quelli percepiti al naso.

Valle d’Aosta DOC Chardonnay “Mains et coeur” 2022 – Maison Anselmet
100% chardonnay

Così come per la petite arvine, anche lo chardonnay arriva in Val d’Aosta grazie al rettore dell’Institute Agricole Régional negli anni ’50. Figlio in qualche modo del ben più celebre Cuvée Bois, che ha aperto la porta dei ristoranti stellati agli chardonnay valdostani, il “Mains et Coeur” vuole essere un richiamo alla cultura borgognona, con la spremitura del grappolo intero insieme al raspo e l’affinamento in pièce. Ciò non significa un tentativo di allontanarsi dal proprio territorio, anzi, siamo di fronte ad un vino che in tutto e per tutto rispecchia il terreno valdostano. In una bella vesta d’oro lucente, l’impatto olfattivo dà una dritta difficile da non recepire: il legno utilizzato per l’affinamento è nuovo. Intense, infatti, le note vanigliate, di cannella e cocco, che fanno da contorno ad un pout pourri di fiori secchi e a nette note di banana ed ananas. Il naso è ponderante, ma la bocca è rivelatrice, al punto che il sorso appare fin da subito estremamente completo, con la morbidezza regalata dal passaggio in pièces che viaggia a braccetto con la nettissima vena acido-sapida. Vino certamente giovane, ma già un’ottima interpretazione di chardonnay.

Valle d’Aosta DOC Pinot Noir “Comptine D’’Automne” – Les Petits Riens
100% pinot noir

Il pinot nero arriva in Valle d’Aosta negli anni ’70 e da allora ha fatto parecchia strada, riuscendo a trovare la propria identità anche grazie al lavoro di piccolissime realtà come la cantina Les Petits Riens. Due ettari sui quali la famiglia proprietaria ha fatto all-in con risultati davvero straordinari. Il vino in degustazione rientra nella categoria dei naturali, pochissimi solfiti e la scelta di portare nel calice il succo fermentato nella sua declinazione più pura. La tonalità alla vista è un rosso cardinale leggermente opaco. Il naso non cerca la grande complessità, ma la franchezza. Il frutto rosso, infatti, è di quelli turgidi, maturi al punto giusto, con un tocco di chiodo di garofano e di viola. Il tempo migliora il naso, lo ripulisce e lo rivela nei suoi livelli di percezione, come capita spesso per i grandi vini. La bocca è scorrevole, ma per tutta la durata del sorso si ha la sensazione di una perfetta corrispondenza gusto olfattiva, con un finale molto lungo su note che non si scostano dal fruttato maturo. 

Valle d’Aosta DOC Fumin 2021 – Ottin
100% fumin

Considerato per molto tempo come un vino da taglio (per altro spesso nella percentuale minore), il fumin è una particolare uva a bacca rossa tipicamente valdostana con caratteristiche quantomai peculiari. Lorenzo Francesco Gatta, storico del vino, lo definisce ironicamente “velenoso prima dei tre anni”, per la sua parte aspra e tannica, duro a mostrarsi nella sua vera identità. Proprio per questo suo “caratteraccio”, spesso si opta per l’appassimento o per la surmaturazione in pianta con lo scopo finale di ammorbidire il vino. Ed è proprio il caso di questo vino, i cui grappoli sono soggetti ad un parziale appassimento in pianta, che si presenta nel calice con sfumature violacee e con una notevolissima consistenza che ci rivela grande sostanza. Il naso è rustico, vibrante, chiama profumi floreali come la rosa rossa, l’amarena, con un contorno di spezia orientale, di cardamomo. La direzione morbida e dolce, figlia dell’appassimento, in bocca è netta, ma fa solo da testimone nel matrimonio tra un tannino possente ed una vena acida che consentono, insieme, di dare vita ad un sorso entusiasmante.

Vin Rouge “Nagott” 2016 – La Planzte
Blend di vitigni a bacca rossa

Più che raccontare la storia dei vitigni utilizzati per produrre questo vino, vale più la pena raccontare l’origine di questa etichetta. Quando la cantina La Plantze decise di acquisire il vigneto poi utilizzato per produrre questo vino, si trovò di fronte ad un discreto disastro a causa dei vari cambi di proprietà che il terreno negli anni aveva subito. Di fronte a quella scena ci fu un’esclamazione che suonava più o meno così: “ma qui non si raccoglie niente” che per tutta risposta ricevete un “eh, fa nagott” … da allora il vino mantenne questo nome, continuando ad essere prodotto con il curioso blend di barbera, dolcetto, moscato d’Amburgo, merlot e certamente anche una parte di fumin e petit rouge. Con un colore che vira già verso il granato, il vino si apre al naso con sensazioni dolci di fragola in confettura accompagnate da un mix di spezie divise tra cannella, noce moscata e pepe nero. Non mancano i terziari con note evolutive di tabacco, cuoio e un tocco di vernice. Il sorso rivela un vino maturo, completo, nel momento perfetto per essere bevuto.

Valle d’Aosta DOC “Lo Rej” 2015 – Cantina Vini Rari
Blend di nebbiolo, neiret e cornalin

Trattasi di fatto di un clairet, un vino passito secco a base di nebbiolo (con aggiunta di piccole parti di vitigni autoctoni). Il cuore del calice è granato di buona trasparenza, pur senza essere estremamente vivido. Il naso si apre sulla viola, varietale del nebbiolo, per poi virare su note di fico, prugna e infine chiudere sul sottobosco, sulla parte fungina. Non manca la speziatura più volte ritrovata in tutti i campioni in assaggio, probabile apporto dei vitigni autoctoni. In bocca è un forte richiamo all’amaretto Disaronno con finale salino, con un centro-bocca fresco ad accompagnare una grande struttura. Vino progressivo, difficile da descrivere in pochi minuti, forse persino un “vino del giorno dopo”, di quelli più buoni dopo 24 ore…

Un grazie ad AIS Brescia che ha reso possibile un viaggio straordinario, fatto con questi otto vini in un territorio così piccolo, ma con così tante cose da dire, che solo in parte durante la serata il pur bravissimo Altai Garin è riuscito a riportarci. Non basta, invece, un grazie per la qualità della sua presenza e per averci deliziati con eccellenti e rari vini, che difficilmente verranno dimenticati da chi ha avuto il piacere di degustarli.