Vino e Arte
“…Postea deinde adiectus est splendor, alius hic quam lumen.” (Quindi poi si aggiunse la luminosità, altra cosa questa dalla luce.). È con questa frase di Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, XXXV, 29) che introduciamo il racconto di ciò che è successo in AIS Milano per tre serate: in un crescendo di sensazioni ed emozioni profonde e nitide, Armando Castagno ci ha condotti tra le pieghe della vita di tre grandissimi artisti italiani, facendoci assaporare un’esperienza estetica di altissimo livello, tanto intensa da dimenticarci, o quasi, di godere nell’assaggio del vino…
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C’era in quel di Borgo Sansepolcro, tra le belle colline d’Arezzo, un Piero di Benedetto de’ Franceschi, ai più noto come Piero della Francesca, che illuminò questo mondo tra il 1420 e il 1492; scomparso lui, scomparve anche un’epoca che più non sarebbe tornata, perché si era inevitabilmente proiettati verso la modernità.
Piero era innamorato della “misura”, guardava le cose attraverso linee e ragione, era figlio di un tempo in cui l’empirismo giottesco lasciava spazio ai raffinati e colti studi sulla prospettiva.
Piero fin da subito ebbe uno stile suo, inconfondibile: già dall’inizio sapeva con chiarezza ciò che voleva comunicare e il modo per farlo.
E allora ci lasciamo trasportare dalle adamantine carni bianche del Battesimo di Cristo (1439 o 1460?) dove tutto è cristallizzato, un’umanità rustica, “dalla grossa caviglia”, ma limpida e luminosa, un perfetto equilibrio che accoglie la presenza del figlio di Dio.
Solidità forte che ritorna negli affreschi absidali delle Storie della Vera Croce dipinte in San Francesco ad Arezzo (1452-1466): una pittura di pace e silenzio; e ancora la possanza del Cristo risorto (1459-1463) dipinto per il palazzo pubblico di Borgo Sansepolcro: una presenza concreta, viva, che pianta un piede nel mondo e lo guarda.
Doveroso citare, in relazione a Piero, il suo più grande committente e raffinato uomo di studi, Federico da Montefeltro; a Urbino Piero dà forse il meglio di sé, avvolgendoci ancora una volta di quella luce nitida e penetrante che troviamo nella Flagellazione (1453) o nella Pala Montefeltro (1472).
In questa serata, il vino degustato più luminoso e forte è stato un Valdobbiadene Superiore di Cartizze DOCG Dry dell’azienda Tanorè, insieme discreto e potente, come le opere di Piero.
Nel mezzo, un fuoriclasse di Urbino, Raffaello Sanzio (1483-1520), esponente del Rinascimento maturo. E’ figlio d’arte, si forma in casa col padre, Giovanni Santi, poi va a bottega da Perugino e da lì iniziano presto la sua indipendenza e lucidità artistiche.
Nel 1506 Raffaello è a Firenze, al fianco di Michelangelo e Leonardo; dai colleghi più anziani si lascia sedurre, li imita ma arriva ad una sintesi suprema della bellezza e della grazia, come nella Madonna del Prato, dove forma e contenuto sono fuse con magistrale intelligenza.
Tornato a Perugia, con le sculture di Michelangelo negli occhi, dipinge la Pala Baglioni (1507) eco di posture classiche e movimenti arditi, dai colori accesi, vividi, dove la grazia delle famose Madonne lascia il posto ad una potenza umana e compositiva senza pari.
Il 1508 lo vede a Roma, chiamato da papa Giulio II, per affrescare le Stanze Vaticane, summa del pensiero teologico e filosofico del Rinascimento; qui il pittore realizza un modernissimo manifesto di laicità, di amore per la cultura, per lo studio, per tutto ciò che l’Uomo, centro del mondo moderno, ha saputo raggiungere.
Raffaello è già entrato nel mito, una divinità, che si accosta alla terra come la sua Madonna Sistina del 1513; una pala d’altare di nuovissima concezione: tutto è teatrale, la Madonna, che ha il volto dell’amata Margherita, entra dolcemente a far parte della scena, mescolandosi con l’umanità.
Ed eccoci alla Trasfigurazione (1518-1520), un quadro che gli costa molto, non lo finirà, nel quale Raffaello mette tutto ciò che può e che sa, così da farne un vero testamento artistico.
Ci sono lame di luce, un incredibile controluce, un verismo impressionante, forza ed energia; in alto, un Cristo sospeso che si staglia su un’alba che saluta la vita di una grandissimo artista.
Vino raffaellesco è il Kupra 2011 dell’azienda Oasi degli Angeli, marchigiana.
Un vino generoso, ricco, pieno di colori, perché l’armonia è sempre consonanza di strumenti.
L’epilogo di questo viaggio è affidato a Michelangelo Merisi (1571-1610), il Caravaggio.
La straordinaria vita di quest’uomo influisce molto sulla sua arte: la ricerca di un’autenticità profonda in tutto ciò che faceva, l’ansia del vero, gli occhi vigili alla ricerca di ciò che è umano, troppo umano forse, fanno di lui un “meteorite armato”, caduto sulla terra, un genio assoluto, sciolto da ogni legame e compromesso.
La sua vicenda artistica muove dal nord, da Milano, dove nacque, ed è piena di riferimenti colti che spaziano da Savoldo all’adorato Moretto da Brescia, una pittura che inizia nella luce piena, che legge la realtà quotidiana con lirismo. Le luci cominciano a cambiare quando Michelangelo va a Roma, siamo nel 1592.
E’ una Roma sordida, piena di intrighi e potere, di povertà e ricchezza, di quei ragazzi di strada che secoli dopo rivivranno nelle opere di Pasolini.
Merisi dà già loro un volto, come nel Ragazzo morso da un ramarro (1595-1596), dà loro mani e piedi sporchi, come nella Crocifissione di San Pietro in Santa Maria del Popolo (1600), dà ventre rigonfio e volti solcati dalle lacrime, come nella Morte della Vergine (1606).
Caravaggio ribalta la prospettiva dell’arte, del modo di guardare alla realtà quotidiana che è nascosta tra le luci e le ombre di cui tutti siamo fatti; nei quadri è manifestata la dignità delle piccole cose, dell’uomo, anche di quello vinto.
Come sarà lui quando commetterà l’errore di uccidere un rivale; e allora la fuga verso sud, poi Napoli, poi Malta, poi la Sicilia e infine, attendendo il tanto desiderato perdono, la morte lo raggiunge sulla spiaggia di Porto Ercole come un uomo qualsiasi, malato e trasandato, che lascia la vita, tanto amata, senza che il suo potente passaggio sia stato inutile.
Il vino più rappresentativo lo individuo nel Carignano del Sulcis Is Arenas 2010 dell’azienda Sardus Pater: un vino potente, di forte contrasto tra luce e ombra, nei toni e nel gusto.
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