Vinovagando e un’insolita Toscana. I bianchi alla prova del tempo

Nonostante una grande tradizione rossista, la Toscana è in grado di stupire anche con vini bianchi di ottima personalità e carattere. Alessandra Marras nella rassegna Vinovagando ci riporta alle origini della viticoltura di questa regione con sei diverse espressioni, mettendone in luce le potenzialità di invecchiamento.

Tiziana Girasella

Al giorno d’oggi la Toscana è conosciuta e apprezzata in tutto il mondo per i suoi vini rossi, che, insieme ai rosati, costituiscono ben l’87,3% della produzione regionale; tuttavia, pochi sanno che i bianchi in Toscana hanno lunga tradizione.

Cenni storici

La viticoltura toscana si deve agli Etruschi che, pur traendo spunto dalle tradizioni greche, ne hanno apportato modifiche e innovazioni, selezionando varietà preesistenti e introducendo la vite maritata che utilizza gli alberi al posto dei pali. Coltivata inizialmente a scopo alimentare, solo in un secondo momento venne utilizzata per la produzione di vino. Le testimonianze giunteci grazie ai Romani raccontano di come gli Etruschi utilizzassero un sistema di vinificazione a caduta, sfruttando la gravità. Venivano realizzati i palmenti direttamente in vigna, di fianco ai filari, sfruttando gli affioramenti rocciosi già presenti: un sistema di vasche in pietra che, poste ad altezze diverse e comunicanti attraverso fori creati al loro interno, sapientemente chiusi da tappi di argilla, consentivano al mosto di percolare da una vasca all’altra. Il primo mosto, che oggi definiremmo mosto fiore, veniva consumato subito, mentre il resto veniva messo in contenitori di terracotta rivestiti di resina o pece per far proseguire la fermentazione. Il prodotto veniva quindi schiumato più volte e messo in anfore per essere commercializzato fino ai Paesi del Nord Europa: il vino, infatti, veniva utilizzato come merce di scambio per sale, metalli, corallo o addirittura schiavi. Infine, ciò che rimaneva, veniva pigiato con rudimentali torchi.

Il vino degli Etruschi, così come descritto dai Romani, è un vino «giallo, dorato, aromatico e molto profumato»: da ciò si può desumere che le radici della viticoltura toscana siano in bianco.

L’evoluzione storica della Toscana, in termini di viticoltura, è analoga a quella delle altre zone d’Italia: grande incremento della produzione in epoca romana seguita da una battuta d’arresto nel Medioevo e durante le invasioni barbariche in cui sopravvive grazie alla custodia dei monaci, che lo utilizzavano durante la liturgia. Nel corso dei secoli, i vini bianchi hanno sempre avuto grande fama, in quanto rivolti alla classe nobile, a discapito dei rossi destinati al popolo: così Plinio il Vecchio parla di Trebbiano, definendolo uno dei vini più preziosi dell’epoca. Anche Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III, nel ‘500, nomina la Vernaccia di San Gimignano e i Moscatelli di Porto Ercole. E ancora, nel Bacco in Toscana, Francesco Redi, medico di corte dei Medici, tra i vini toscani, per primo parla del Moscadello di Montalcino.

A un tratto, però, con l’espansione dei commerci, si pose la necessità di produrre vini che resistessero maggiormente ai viaggi, lunghi e impegnativi: ciò determinò l’interesse della produzione verso i vini rossi, dotati di maggior struttura e longevità.

Nonostante ciò, nei secoli, tante personalità si sono dedicate alla vinificazione in bianco: tra gli altri, merita di essere menzionato Vittorio degli Albrizi, il più giovane membro dell’Accademia dei Georgofili, il quale, a metà dell’800, piantò vitigni bianchi internazionali ad altitudini superiori ai 500 m, cosa impensabile all’epoca, vincendo la Palma d’Oro all’Expo di Parigi con il suo Pomino bianco. Egli si rese conto, infatti, che utilizzando vitigni con ciclo produttivo corto, questi potevano beneficiare del clima mite e arrivare a giusta maturazione prima dell’arrivo del freddo, dando vini «fini e più squisiti».

Sulla scia di questo grande precursore, Alessandra ci preannuncia che la serata non verterà sulle DOC, ma su vini nati dall’estro di produttori che hanno voluto sfidare la predominanza dei vini rossi dimostrando che anche in Toscana si possono produrre ancora oggi grandi vini bianchi.

Composizione dei terreni

La Toscana si suddivide in due macro-zone: colline della Toscana Centrale e costa tirrenica, con climi differenti, più continentale all’interno e marino sulla costa. L’origine marina caratterizza comunque tutti i suoli toscani: in un lungo processo, durato 200 milioni di anni, in cui tutta la Toscana era sommersa dal mare, si è assistito a una stratificazione di calcare, marne e argille, quasi a formare un millefoglie. Circa 3 milioni di anni fa, durante il Pliocene, a seguito di movimenti tellurici, il corrugamento dei suoli ha portato all’emersione delle terre così che oggi in alto troviamo le sabbie, poi, scendendo, un misto di calcare e argille e in fondo uno strato limoso, sabbioso e argilloso.

In generale, nella parte est, dove abbiamo i rilevi più alti, si trova il cosiddetto macigno, composto da sabbia compattata: i suoli che ne derivano hanno quindi tessitura sabbiosa, molto drenante, perfetta per la viticoltura. Spostandosi nella parte centrale (colline del Chianti, Montalcino, Lucchesia e Maremma) si trova il regno delle marne, composte da calcare e argilla in percentuale variabile: man mano che uno o l’altro componente diventa prevalente avremo marne calcaree o argillose. Scendendo di quota le argille sono man mano predominanti. In Toscana è inoltre comune trovare galestro e alberese: l’alberese, di derivazione geologica, formatesi a seguito di disfacimento della cosiddetta “formazione di Monte Morello”, è una roccia sedimentario-calcarea; il galestro ha invece struttura lamellare, a seguito del compattamento di argille e si trova prevalentemente nella parte centrale della Toscana e ha un ruolo fondamentale in quanto apporta aria al suolo, con conseguente maggior vitalità delle radici. Lungo la costa diminuisce l’altitudine, aumenta l’argilla e compare la sabbia. C’è infine una piccola parte di origine vulcanica, a ridosso del Monte Amiata.

La degustazione

Durante la serata sono stati sei i vini degustati, di aziende diverse ubicate in territori differenti.

Toscana IGT Vermignon 2016 – Tenuta Lenzini
80% vermentino, 20% sauvignon blanc
Ci troviamo nelle Colline Lucchesi, caratterizzate da terreni argilloso/calcarei. Da una parte si trova l’Appennino e dall’altra il Tirreno. La diversa esposizione determina una grande variabilità con la zona più interna a maggior piovosità, maggiori escursioni termiche e, in generale, clima più freddo; la zona che guarda il Tirreno avrà maggior ventilazione e, soprattutto, più luce. Qui si è spesso utilizzato il vigneto promiscuo, con vitigni complementari, che consente di salvare la produzione anche nelle annate più difficili.

Franco Lenzini acquista la proprietà della Tenuta nel 1993 intuendone da subito le potenzialità, grazie a un’esposizione ad anfiteatro che garantisce luce e areazione continua. Dal vigneto di 13,5 ha, certificato biodinamico dal 2008, si producono circa 60.000 bottiglie. Il concetto chiave su cui si basa la filosofia aziendale è quello dell’enologia emozionale: la viticoltura serve solo a leggere e interpretare il territorio, senza imporre la personalità del vignaiolo. Il focus non è più la pianta, ma il terreno: se questo è vivo e sano, il frutto sarà equilibrato e perfetto per la vinificazione.

Il suolo da cui si ottiene il Vermignon è composto da argilla mista a sabbia, con una buona componente di silice e ferro. Fermentazione alcolica spontanea con lieviti indigeni, macerazione senza raspi per il vermentino e a grappolo intero per il sauvignon, maturazione di 6 mesi in acciaio. Se ne producono circa 2.000 bottiglie. Il colore non dà segni di cedimento. Al naso rivela già una certa evoluzione, pur nell’evidenza di una piacevole freschezza: emerge una netta mineralità, di idrocarburi; quindi, sentori di pesca, albicocca sciroppata ed erbe aromatiche. Al palato ha un ingresso vivace e la connotazione acida, a fronte dei 7 anni di maturazione, risulta addolcita e ben sorretta dalla parte salina che conferisce un bell’allungo. Le note di idrocarburo risultano meno evidenti al palato lasciando prevalere i toni fruttati. La struttura è agile, con i toni varietali che guardano ai vini della Loira.

Maremma Toscana DOC Litorale 2016 – Val delle Rose
95% vermentino, 5% altri vitigni
Siamo in Maremmae la prima cosa che si nota in questo territorio è la luce, avvalorata dalla presenza del mare. Per anni la Maremma è stata una zona paludosa e ci sono voluti ben due tentativi prima di riuscire a bonificarla, riuscendovi definitivamente solo negli anni ’20. Il territorio va dalle pendici del Monte Amiata fino alla costa e all’Isola del Giglio, con terreni eterogenei.

Val delle Rose è una cantina avveniristica biologica che appartiene alla storica famiglia Cecchi di Castellina in Chianti. Nella tenuta di Poggio La Mozza la cura e l’attenzione per gli impianti sono ai massimi livelli: sono stati analizzati i suoli e i vitigni sono stati impiantati solo dove si riteneva che potessero dare la migliore espressione.

I suoli composti da arenarie e ricchi di rocce in decomposizione esaltano l’eleganza e la florealità del vino che fa una macerazione pre-fermentativa a freddo, 18 giorni di fermentazione a temperatura costante di 15 °C e almeno due mesi di bottiglia. Circa 60.000 le bottiglie prodotte. Il naso è già diverso dal precedente, nonostante il vitigno prevalente sia lo stesso. La presenza del macigno dona longevità che si manifesta con evidenze di freschezza all’olfatto, note floreali di biancospino e ginestra. Anche la mineralità è diversa, più sottile, quasi come una fresca brezza: una piccola traccia di cera d’api, miele nel favo e pepe bianco. L’assaggio si apre su toni agrumati dolci, di scorza di cedro candito, con una piacevole acidità e una parte di miele millefiori. Il sorso, tattile, avvolge la bocca e, a differenza del precedente, è più verticale: il tempo gli ha donato complessità e armonia, smussando gli spigoli che probabilmente aveva in gioventù.

Bianco Toscana IGT Le Stinche 2017 – Fattoria di Lamole
50% sauvignon blanc, 50% chardonnay
Siamo nel comune di Greve, a Lamole, su un anfiteatro che guarda verso Firenze, nella zona del Chianti Classico. Qui la conformazione principale è il macigno con un po’ di galestro. Paolo Socci, conosciuto anche come l’archeologo viticoltore, dopo aver lavorato per anni come ingegnere, è tornato alla sua terra di origine compiendo un incredibile lavoro di recupero del territorio e di quei muretti a secco che lo caratterizzano: un lavoro certosino fatto anche in collaborazione con le Università di tutto il mondo.

Il vino nasce dall’idea del noto enologo Federico Staderini che, alla fine degli anni ’90, proprio per la conformazione particolare del suolo, argilloso-scistoso, propose, con lungimiranza, di piantare in questa zona chardonnay e sauvignon blanc. Fa criomacerazione, decantazione e fermentazione in inox e, se possibile, viene evitata la malolattica. Maturazione in acciaio, poi 9 mesi di bottiglia. 1.300 bottiglie prodotte. Il nome del vino è legato al Castello delle Stinche abbarbicato nei pressi del vigneto, noto alle cronache per l’assalto dei Guelfi neri che lo rasero al suolo imprigionando tutti i soldati che vennero incarcerati nel carcere fiorentino che proprio da questo evento prese il nome. L’annata calda di cui è frutto si evidenzia nelle note cerealicole e nei sentori di ginestra, frutta tropicale e mango disidratato, ma anche speziatura che vira verso lo zafferano, pur mantenendo lievi ricordi di lavanda e mentuccia. Al palato, la struttura è maggiore, così come l’alcol, ed evidenzia caratteri freschi e marini, avvenente sapidità, ma anche un profilo più evoluto che vira verso il mallo di noce, ulteriore riprova del calore dell’annata.

Toscana IGT Batar 2017 – Querciabella
50% chardonnay, 50% pinot bianco
Siamo ancora a Greve, nel Chianti Classico, in località Ruffoli: cambia la matrice, in quanto al macigno si affiancano argille miste a calcare e un po’ di pietraforte (calcarea).

Giuseppe “Pepito” Castiglioni si innamora del Chianti Classico e nel ’74 compra qui un ettaro di terreno, cui ne seguono altri negli anni successivi. Nell’88 gli si affianca il figlio Sebastiano, il quale trasforma i vigneti dapprima in biologico, quindi, nel 2000, in biodinamico. Oggi Querciabella è vegana certificata. La cura di tutto l’ecosistema è il fulcro del suo pensiero: le radici devono nutrirsi in un terreno sano per poter prosperare. Ciò è ancora più vero, spiega Alessandra, con il cambiamento climatico in atto: solo chi gestisce correttamente il suolo e lavora, nella sua complessità, il vigneto, riesce portare a termine un raccolto senza problemi.

I suoli sono misti di argilla, arenaria e galestro. Il vino fa fermentazione, malolattica e maturazione alla francese in barrique borgognone nuove al 20% per 9 mesi con bâtonnage settimanali. 15.000 bottiglie prodotte. Alla vista è dorato, anche per il contenitore in cui è prodotto. Sembra quasi una sintesi dei precedenti: ha mineralità, freschezza e avvolgenza. La ricchezza olfattiva riassume i precedenti: il legno si percepisce nella nota vanigliata che non disturba ma si affianca a una parte salina e a pepe bianco, erbe aromatiche, note floreali e albedo di limone. Il sorso è pulitissimo, con sentori floreali e fruttati delicati, accompagnati però da grande persistenza. Il legno si percepisce solo nell’avvolgenza e nella “burrosità” che lascia spazio a un finale sapido molto interessante.

Toscana IGT Chardonnay collezione 2015 – Castello di Monsanto
100% chardonnay
A San Donato in Poggio, nel Chianti Classico i terreni sono ricchi di sabbia del Pliocene e galestro, con abbondanti fossili.

Nel 1961 Aldo Bianchi, lombardo, si innamora del luogo e acquista questo Castello. Nel ’62 Fabrizio, il figlio, vinifica separatamente le uve del Poggio e realizza il primo Cru a base sangiovese, senza uve a bacca bianca previste dal disciplinare dell’epoca. Oggi Fabrizio Bianchi, insieme alla figlia, conducono sapientemente l’azienda.

Il suolo da cui provengono le uve è il galestro che dà una sferzata di mineralità al vino. Due terzi delle uve vengono vinificate in acciaio a temperatura controllata, un terzo in tonneau di rovere francese che rimane sui lieviti per 6-7 mesi; poi, un anno di bottiglia. Il colore, dorato, anticipa un naso di frutta matura e un carattere più deciso, di grande personalità, donato dal terreno argilloso, che lo differenzia nettamente dal precedente. Ciò che affascina è sicuramente il palato che richiama subito l’amaretto, quindi un sentore di agrume, di scorza di cedro candito, speziatura di zafferano e un finale sapido; è più gastronomico del precedente, con una connotazione fresca importante.

Vernaccia di San Gimignano DOCG Evoé 2007 - Panizzi
100% vernaccia di San Gimignano
L’unica isola a bacca bianca della Toscana è San Gimignano in cui i terreni sono composti da sabbie gialle plioceniche recenti, ma anche argille sabbiose stratificate.

La Vernaccia ha origini incerte, forse legate alla Liguria. Quel che è certo è che è sempre stata apprezzata tantissimo - venne addirittura creata una tassa sul suo commercio - e Sante Lancerio scriveva che se ne produceva troppo poca. Dopo aver subito un periodo di declino, vede una rinascita solo all’inizio del ‘900, grazie a Carlo Fregola. Vanta il primato di essere stata la prima DOC in assoluto, nel 1966, divenuta poi DOCG nel 1993; è inoltre l’unico vino citato da Dante nella Divina Commedia. Definita la Regina Bianca (in terra di rossi), viene prodotta solo nel Comune omonimo tra i 70 e 500 m s.l.m.. Il disciplinare è molto severo in quanto limita non solo i vitigni complementari ammessi, proibendo tutti quelli che potrebbero alterarne il profilo, ma anche, in alcuni casi, la percentuale di utilizzo come per sauvignon blanc e riesling. Elementi distintivi sono la sapidità e la capacità di invecchiamento.

Milanese, nel ’79 Panizzi compra podere Santa Margherita, avvalendosi della collaborazione di Salvatore Maule, enologo valtellinese, anche se si dovranno attendere ben 10 anni prima della prima vendemmia. Nel 2005 subentra Luano Niccolai, con Walter Sovran come direttore, il quale sposa la causa del vitigno cercando di spostare sempre più in alto l’asticella qualitativa e valorizzarne le potenzialità. Anche quest’azienda si caratterizza per un lavoro di sperimentazione commisurato alla ricerca della pulizia, dell’eleganza e del perfezionamento del potenziale di longevità.

L’annata si caratterizza per una macerazione di un mese (si trattava ancora di un periodo di sperimentazione), più breve rispetto alle vinificazioni successive. Matura almeno sei mesi in tonneau di rovere francese. 4.000 le bottiglie prodotte. Il colore è un oro luminosissimo; al naso, i 16 anni hanno apportato un grande arricchimento, con sentori di frutta disidratata e pasticceria, mantenendo al contempo una parte mentolata e di erbe aromatiche. Il sorso rivela il vitigno: la salinità ne costituisce la spina dorsale e sostiene la persistenza; è gustosissimo, con coerenti sentori di pasticceria e di croccante di nocciola.