L'incontro con Mario Maffi

L'incontro con Mario Maffi

Interviste e protagonisti
di Gabriella Grassullo, Ezio Gallesi
30 luglio 2012

Iniziamo un percorso con racconti e testimonianze, incontrando alcuni personaggi che hanno contribuito con il loro lavoro, a costruire la storia dell' Oltrepò Pavese di questi ultimi 40-50 anni. Il nostro primo incontro è con l'enologo-agronomo Mario Maffi, direttore tecnico dell'Azienda Montelio di Codevilla.

Mario MaffiUn personaggio speciale, curioso, fin da piccolo e dotato di un’ampia cultura, soprattutto del territorio, dovuta anche all'amicizia di illustri intellettuali della zona, forieri di incontri, storie, riferimenti, fatti e aneddoti su persone che hanno segnato il cammino della storia millenaria dell’Oltrepò Pavese.

Il nostro incontro si è svolto al ristorante “Il Selvatico”; sorto nel 1912 in una casa di campagna, è gestito dalla medesima famiglia da quattro generazioni, oggi dalla Signora Piera e dalle figlie Francesca e Michela. La cucina proposta è della tradizione enogastronomica locale rivolta alla ricerca degli ingredienti migliori e più genuini.

Mario ci accoglie con lo stile del "tenente Colombo", la stretta di mano, lo sguardo amichevole e attento e il sorriso "moderato".

Così, tra un sorso di riesling e l'altro iniziamo l'intervista:

Cosa è per te la tradizione?

La tradizione trae origini dalla cultura del territorio, dalla conoscenza della storia, delle produzioni, degli usi e costumi; tutto ciò che concorre a rendere una zona importante.

Come dovrebbe essere un buon vino?

Facendo riferimento alla tradizione, un buon vino anzitutto deve rispettare quello che fa parte di una storia locale e se parliamo di Oltrepò non dimentichiamo che oltre l’80% della superficie vitata è composta dai vitigni croatina, pinot nero, barbera e riesling.

Se tu dovessi rappresentare il territorio, quali vitigni sceglieresti?

Diciamo che oltre a questi che oggi rappresentano la stragrande maggioranza della superficie, non mi dimenticherei certamente gli aromatici, come il moscato e la malvasia, già presenti nel 1600. E poi il cortese, perché fa parte della storia locale e alcuni altri autoctoni.

Quale è il vino che ti rappresenta?

È difficile giudicare i propri figli, ogni vino ha un suo momento d’interesse, una sua stagionalità, un suo modo di essere. Se proprio dovessi sceglierne uno, in questo momento, direi il pinot nero vinificato in rosso; penso sia quello che dia maggior equilibrio e direi grande eleganza.

Un vino che hai degustato e che ami in particolare e perché.

Sono ripetitivo, io ho degustato quasi tutti i vini importanti del mondo, c’è n’è solo uno per cui, vincendo al superenalotto, giustificherei quella cifra: Romanée-Conti.

C’è qualcosa che pensi di non essere riuscito a realizzare durante la tua carriera?

Il sogno nel cassetto sarebbe quello di poter avere una aziendina mia, di dimensione familiare, per giocare, mirando su due aspetti precisi: fare un prodotto importante, rosso, legato ai vitigni che ho citato. Poi recuperare quei tre vitigni, della storia integrante del territorio, che stanno scomparendo e che avrebbero ancora molto d’esprimere: parlo della moradella, dell’uva della cascina e del vermiglio.

Se non fossi nato in questo territorio, quale zona vitivinicola avresti preferito?

Non ho dubbi: la Valpolicella. Amo l’Amarone.

Successi e delusioni?

Non è facile dare certe risposte; certamente quando nel 1977 è nato il Consorzio dei vini D.o.c. sul territorio si avvertiva un entusiasmo diverso ed era facile pensare al bicchiere mezzo pieno; i tempi sono purtroppo cambiati e non è possibile fare paragoni. Certamente, però, un personaggio carismatico come il Duca Antonio Denari l’Oltrepò non l’ha più espresso. Aggiungerei anche l’Assessore regionale all’agricoltura di allora Ernesto Vercesi che diede una grande supporto esterno. Oggi il bicchiere lo avverto mezzo vuoto. Soddisfazioni tante, vuoi per i numerosi riconoscimenti di stima e di amicizia, ma anche per le testimonianze arrivate da persone sconosciute che ti toccano nel profondo e rimangono impresse nella mente. Cito, ad esempio, l’affermazione di una ragazza cieca che dopo una visita in azienda mi si avvicinò e disse: “Grazie alla sua voce, oggi ho visto parecchie cose, anche l’uva a colori”. Si va ben oltre al lavoro e, per me, è un premio senza uguali.

La figura dell’enologo oggi?

Deve essere sempre più importante per il territorio, l’assoluto interprete del terroir; alla base, però, è indispensabile una cultura tecnica profonda che nasce sui banchi di scuola e che deve essere affinata con l’esperienza e il continuo confronto con altre aree produttive. Magari qualche esperienza fuori zona, anche all’estero, senza mai dimenticare la cultura del territorio, la tradizione e l’adeguamento all’innovazione tecnologica che, sapientemente usata, può fare la differenza. Gli anziani vignaioli devono lasciare spazio ai giovani, dar loro la possibilità di ampliare gli orizzonti, di affinarsi e capire che il loro mondo non è solo il bar del paesello. In pochi hanno avuto la forza, su queste colline, di inserire con ruoli ben precisi i figli in azienda; cito, ad esempio, Calvi Valter e Grumello Doria Giuseppina.

Vini biologici, biodinamici e naturali: uno sguardo al passato o una moda?

Finché non vedrò delle mappature di zona particolarmente vocate a certe interpretazioni agricole mi riuscirà difficile capire cosa si possa intendere per biologico; se lo si può attuare vicino a strade di grande traffico, fonti d’inquinamento e in territori caratterizzate da alta piovosità estiva, non mi sembra che esista una vera garanzia per il consumatore e mi spiace per i produttori seri che credono nel biologico e non sono sufficientemente tutelati. Aggiungerei, inoltre, che mi riesce difficile capire cosa vuol dire usare solo prodotti naturali; suggerirei di chiedere informazioni al grande Socrate. Ben diversa la mia opinione per quanto riguarda il biodinamico, una vera filosofia produttiva nata non a caso in Germania; anche qui, però, aggiungerei che coloro che hanno intrapreso questa sfida, o vogliono intraprenderla, devono partire dalla stalla da latte per un letame vecchia maniera, effettuare una regolare rotazione colturale e possibilmente sottoporsi ai controlli della Demeter. Porto sempre, ad esempio, quella meravigliosa realtà sita in Bereguardo “Cascine Orsine” di proprietà della famiglia Crespi.  Mi riesce difficile capire cosa si intenda realmente per biodinamico nel settore viticolo, spero di poter avere al più presto soddisfacenti informazioni. Per quanto concerne il naturale e altri pittoreschi termini ultimamente apparsi; penso che sia solo una questione di fiducia riposta nei confronti di alcune aziende che si conoscono e che rispettano certi parametri di lavoro sia in vigna sia in cantina. Per la maggior parte, però, non sarei disposto a fare il Muzio Scevola.

Cosa manca all’Oltrepò per il salto di qualità-riconoscimento; cultura o persone?

Una storia millenaria, molto bella, un territorio fantastico e un potenziale unico. Facendo mia una frase della Nannini “bello e impossibile”. Cosa manca? Gli oltrepadani. Il susseguirsi di domini diversi, di interessi diversi e di punti di riferimento diversi, hanno favorito sul territorio, attraverso i vari insediamenti, usi e costumi dissimili. Tutto questo ovviamente condito dall’eccessivo frazionamento delle proprietà, dalla facilità di collocare commercialmente il prodotto in un’area abbastanza ristretta, dal clientelismo politico, dall’individualismo eccessivo, da una quasi totale estraneità nei confronti di un mondo che da cinquant’anni sta correndo velocemente. Il salto di qualità? Grande cultura del territorio, forte senso di appartenenza e di ospitalità, immagine dei prodotti ma, ancora di più, gioco di squadra. Bisognerebbe essere coscienti del fatto che il futuro della collina vitata può essere solo basato sulla vera alta qualità di vini, il sufficiente e il buono si possono produrre ovunque. Infine non dovremmo scordarci mai che cucina e vino vanno di pari passo. Solo riproponendo gli uni e gli altri, rivisitandoli, ma senza perdere l’identità di essi, si può garantire un futuro al nostro areale.

Cosa ne pensi del centro Riccagioia?

Riccagioia è uno dei più bei centri a livello nazionale, se non il più bello, per la sperimentazione in viticoltura ed enologia. Purtroppo è un’altra cenerentola che negli ultimi 20 anni non si è ancora capito bene cosa abbia fatto: i sogni del cassetto sono ancora lì: oggi c’è un direttore molto bravo Carlo Alberto Panont. Mi auguro di cuore che trovi anche chi lo supporti, per portare avanti il progetto e dare dei concreti risultati all’Oltrepò, a livello di sperimentazione e rapidamente a livello di divulgazione.

Consorzio: quale filosofia bisognerebbe percorrere per la sintesi e il riconoscimento dell’Oltrepò?

Penso che la risposta vada ricercata a quanto ho appena detto circa il gioco di squadra. Il Consorzio, da solo, non potrà farcela. Può, però, essere il promotore e l’aggregatore.

Cambiamenti climatici percepiti in Oltrepò?

Dal 1997-98 in avanti c’è stata la percezione di questi cambiamenti climatici, con punte particolari che hanno coinvolto soprattutto le annate 2000, 2003, (per eccellenza) il 2007 ma anche il 2011. Quattro annate dove abbiamo iniziato a raccogliere il pinot prima di ferragosto: però vorrei mettere un freno sul modo qualunquistico di sparare sul clima che cambia. Se si vanno a vedere i dati meteorologici dei bollettini dell’Istituto Agrario di Voghera dal ‘38 al ’58, si capirà che in 21 anni solo 3 annate hanno superato la media di piovosità per il territorio. Abbiamo avuto delle annate con delle precipitazioni molto più scarse degli ultimi anni e con vendemmie anticipate anche allora, che per me continueranno ad esserci. Per tutti, a quegli anni, i primi non c’erano, ma gli ultimi sì: il bagno lo andavi a fare nel torrente o nel ruscello, l’acqua serviva per bere, oggi serve per innaffiare il tappeto verde, per farci la doccia 25 volte al giorno, per buttarla regolarmente e se una volta in ogni cortile d’azienda agricola c’era un pozzo a 20/25 metri, adesso, qui in Oltrepò, l’acqua la trovi a 120 metri di profondità. L’uso improprio dell’acqua, troppo facilmente a portata di mano, potrebbe portare con il tempo a creare degli squilibri, soprattutto se perdurerà ancora per qualche anno questo clima un po’ anomalo.

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I commenti dei lettori

manuela tolazzi
30 luglio 2012 - 14 27
manuela tolazzi

Amarone...meravigliosa espressione di una storia e di un territorio unici, grandissimo vino, "masticabile"...ma proprio per questo, a mio avviso, molto lontano da quell'eleganza e quell'equilibrio di una qualunque delle espressioni del nebbiolo, dal Piemonte tutto...alla Valtellina.

Finalmente una fonte autorevole a sostegno del mio pensiero sul mondo dei vini biodinamici e/o naturali come li si voglia chiamare...altra realtà è il biologico, sempre con le dovute cautele sottolineate da Maffo. Non dimentichiamo...l'enologo non ne fa cenno... quella che è a mio avviso, "esasperazione", nei modelli di agricoltura biodinamica espressi dal filosofo Rudolf Steiner, soprattutto quando chiama in campo (o meglio...in vigna!)...delicati equilibri tra forze energetiche stagionali, a loro volta, legate addirittura al posizionamento degli astri!! Fatte rarissime eccezioni, il biodinamico, come sostiene Maffo, andrebbe avvicinato con cautela e senso critico...soprattutto quando il rapporto qualità/prezzo non è giustificato da una filosofia sposata nella sua interezza...o è biodinamico o non lo è!!