Il pionere del Franciacorta. Franco Ziliani

Il pionere del Franciacorta. Franco Ziliani

Interviste e protagonisti
di Alessandro Franceschini
11 ottobre 2011

Spesso le coincidenze non sono mai casuali. Cinquanta e ottanta: due anniversari in un solo anno. Sono trascorsi cinquant’anni dalle prime bollicine targate Berlucchi, le prime della Franciacorta, e ottanta dalla nascita di Franco Ziliani, antesignano di quello che oggi possiamo definire un caso di successo di prodotto, mercato e anche di costume. Il tutto all’interno di un distretto vitivinicolo che fa dell’avanguardia e della sperimentazione la sua cifra primaria

Franco Ziliani - Berlucchi

Tratto da "Viniplus di Lombardia" N°1 - Settembre 2011

 

“Abbiamo sempre lavorato molto sulla comunicazione, sull’ospitalità in cantina”: e, in effetti, mentre stiamo per varcare la porta principale della Guido Berlucchi e sostiamo in Piazza Durante a Borgonato di Corte Franca, sede di quella che è stata, ed è tuttora, la prima vera Maison franciacortina, non sono poche le auto che vediamo fermarsi davanti all’ingresso. C’è chi scatta foto ancor prima di scendere dalla macchina, chi esce con una cassetta di bollicine dopo aver percorso le storiche cantine, chi attende nell’accogliente reception. È un giorno qualsiasi di luglio, eppure la percezione è che qui sia sempre tutto in fermento: trattori che trasportano pallets colmi di bottiglie e un via vai che preannuncia i preparativi della vendemmia, da queste parti oramai alle porte. “Sarà stufo, quest’anno, di sentirsi rivolgere probabilmente sempre le stesse domande” chiediamo a Franco Ziliani, ottant’anni compiuti proprio durante i festeggiamenti dei primi cinquant’anni della sua creatura, fondata insieme a Giorgio Lanciani e Guido Berlucchi. Nel 1961 videro la luce, in mezzo a mille difficoltà, le prime tremila bottiglie di metodo classico, o meglio, di méthode champenoise come ama ripetere l’uomo che ebbe quell’intuizione, dai più considerata allora una pazzia e oggi, facilmente, un colpo di genio. Ci accoglie nei locali che videro le prime discussioni dei tre fondatori, sorridente e di ottimo umore, nonostante abbia trascorso l’intera giornata precedente sotto i riflettori degli studi milanesi di una nota emittente televisiva: “Un caldo incredibile, sarebbe stato perfetto un bicchiere di Cellarius!”. La sua è una passione antica, coltivata nel tempo assaggiando le nobili bollicine d’oltralpe e non se n’è più staccato: “Amo bere metodo classico sempre, ovviamente a tutto pasto”. Si è parlato di tutto, non solo di Franciacorta e dell’incredibile cavalcata di una realtà, la Guido Berlucchi, che produce annualmente più di 4 milioni di bottiglie: la curiosità è ancora ben palpabile nel suo sguardo, vispo e attento, così come la verve e l’amore per il suo lavoro che lo porta ad avere una ricca agenda giornaliera fitta di impegni da seguire. Compreso l’incontro con noi.

Lei, negli anni Cinquanta, ha frequentato la scuola enologica di Alba.

Le due scuole più importanti allora erano ad Alba e Conegliano; San Michele all’Adige è arrivata dopo. Le scuole, però, le fanno i professori e io ho avuto la fortuna di averne di meravigliosi, per non parlare del mio gruppo di compagni, molto bello e affiatato. Mi sono trovato, per altro, in mezzo alla trasformazione della scuola ad Istituto Tecnico Agrario: i primi tre anni comuni a tutti, i secondi tre specialistici con un esame nel quale bisognava portare tutte le materie. Il titolo era quello di Perito Agrario Enotecnico. Pensi che il Consiglio di Amministrazione della scuola ai quei tempi era presieduto dal Conte Marone Cinzano. Siamo partiti in 32 e siamo arrivati in fondo in 11. Devo dire, però, che ho vissuto di rendita grazie a un mio caro amico e compagno: Vivaldi. Era il più bravo di tutti, mi scriveva persino gli appunti. Quando lo interrogavano, i professori dicevano: “Vivaldi, vieni a tenere la tua lezione”. L’ho cercato tanto e non l’ho più sentito, sparito. Viveva ad Alba come me, poi si trasferì in Sicilia, a Gela, e non sono più riuscito a rintracciarlo.

Alba è l’epicentro di un distretto di grandi rossi. Non si è innamorato dei grandi nebbiolo?

I vini rossi li amo poco. Sono innamorato dello Champagne. Quando ero studente ovviamente assaggiavo qualcosa di buono di quelle parti. Tornando alla mia esperienza scolastica ad Alba, devo dirle, però, che ho avuto una grande fortuna: quella di aver perso due anni di scuola.

In che senso, fortuna?

Avevo deciso di smettere di studiare. Un mio amico, studente scadente come me, mi aveva convinto a interrompere gli studi. Lo suggerii a mio padre, che non mi lasciò nemmeno finire di parlare, mi caricò ad Alba senza darmi il tempo di pensare e mi iscrisse all’istituto. Prima, però, in quei due anni durante i quali non studiai, ebbi la possibilità di capire molte cose. Mio padre mi piazzò sui camion insieme agli autisti della sua azienda che andavano a prendere il bestiame nella provincia di Brescia e lo portavano a Rovato. Mi dovevo alzare alle 3 di notte! Questo mi fece affrontare, in seguito, la scuola con facilità; avevo due anni più degli altri e un’esperienza lavorativa che mi aveva cambiato e maturato.

Quando nasce l’amore per lo Champagne?

Quando l’ho assaggiato. Verso la fine degli studi. Allora, però, lo Champagne non lo “toccavano”.

Cosa significa?

Non esageravano nella produzione di Champagne troppo maturi. Oggi invece i vini sono troppo maturi e perdono un po’ della loro tipicità. Nel senso che non rispettano più il loro terreno. Un esempio è il fatto che vogliano colpire con la produzione di cuvée speciali. Tutto è partito con il film Agente 007 – Missione Goldfinger: si vedeva il protagonista bere Don Perignon del 1954. Con queste cuvée vogliono ottenere vini molto tondi e corposi. Io, però, amo maggiormente la freschezza.

Famiglia Ziliani - BerlucchiHo letto che all’inizio ha dovuto fare molti viaggi in Champagne perché in Italia non si trovava nulla.

Esatto. Quando da studente andavamo a visitare le grandi aziende spumantistiche – Cinzano, Martini & Rossi, Gancia, Contratto, persino la vecchia Calissano che lei sicuramente non ricorderà – mi chiedevo come mai questi piemontesi facessero Asti Spumante e non Metodo Classico. Solo Gancia e Cinzano ci avevano fatto assaggiare metodi champenoise usando pinot nero dell’Oltrepò Pavese. L’Italia per molti anni ha, quindi, abbandonato questo metodo e di conseguenza non si trovava più nulla. Ho passato i primi anni a cercare tutto. Sono andato in Francia quando stava iniziando una vera rivoluzione dal punto di vista produttivo. Ricordo che nel 1962, durante il mio primo viaggio, era stato introdotto da poco il tappo a corona, mentre prima si utilizzava ancora quello di sughero. Fu uno scandalo notevole in Francia. Era un tappo di acciaio con la banda stagnata. Ho iniziato subito con questa tecnica, ma senza esperienza e con i tappi che trovavo. Uno dei gravi problemi che ho dovuto affrontare all’inizio è stata proprio la loro tenuta. Non si capiva il perché ci fossero tante bottiglie “colose”.

Bottiglie “colose”…

Questo era un problema ai tempi dei tappi di sughero: pian piano, ogni giorno, colava un po’ di liquido dalle bottiglie accatastate durante l’affinamento sui lieviti, si accumulava sul fondo, sulle ultime file, fermentava e andava in putrefazione. Si formava un odore che chiamavamo di “merdino”. Che fatica risolvere quel primo problema! La ricerca dei fornitori di tappi adatti per evitare questo inconveniente era spasmodica.

Lei amava lo Champagne. Qui in Franciacorta in quegli anni si faceva, invece, vino fermo.

Poco vino fermo. Sa come si dice: poche idee e anche confuse. Ecco, qui eravamo a questo livello.

Che cosa l’ha convinta che la Franciacorta potesse essere un luogo idoneo per il metodo champenoise?

Quando Guido Berlucchi mi fece assaggiare il vino che proveniva dal suo piccolo vigneto del Castello, intravidi questa possibilità.

Ma era una questione di acidità? Di terreni?

No, perché lui mi fece assaggiare del vino proveniente da uve stramature. Ma, dopo aver fatto le analisi, capii che vendemmiando le uve in anticipo, si poteva avere una buona materia prima.

Era pinot?

Eh… io la mano sul fuoco che fosse pinot non ce la metto! Per altro, conoscere le varietà di uva allora non era semplice come oggi. I vivaisti di allora certamente non le conoscevano bene.

All’inizio, eravate animati da una semplice curiosità sperimentatrice o lei aveva già deciso che quella doveva essere una strada da seguire?

No, guardi, non era neanche un esperimento. Si sperava, ecco. Non avremmo mai immaginato di avere quell’incredibile riscontro che invece, sin dall’inizio, ci ha travolto.

BerlucchiIn quel momento in Italia si bevevano bollicine?

Quasi niente. Le dirò quello che mi diceva un amico che aveva un ristorante sul lago con una clientela molto raffinata. A quei tempi andavano di moda le corse sull’acqua e gli industriali del tempo gareggiavano con motoscafi leggeri. Il mio amico durante le gare aveva molti clienti di quella levatura. Quando ebbi le prime bottiglie lo avvicinai. Lui mi disse: “Non posso. Se c’è un matrimonio, devo servire Asti Spumante, ma a queste persone devo proporre Champagne”. Lì per lì ho ingoiato il rospo, ma ho capito che ero sulla strada giusta.

Con quante bottiglie parte l’avventura?

Tremila. Con le prime duecento bottiglie da degorgiare successe il finimondo. Non avevamo le attrezzature adatte e neanche la giusta esperienza. Le immergemmo in un frigorifero da vino con la temperatura che scendeva a -7 gradi. Le bottiglie si raffreddarono integralmente e si formò un po’ di ghiaccio vicino al collo. Degorgiai, tutto a mano, personalmente e con l’aiuto di qualche uomo che avrebbe dovuto nel tempo imparare. Tappiamo e va tutto bene. Senonché, qualche giorno dopo, il cameriere del povero Guido Berlucchi, che era addetto al controllo, viene da me e mi dice: “Venga a vedere cosa è successo”. C’erano tutte le bottiglie pronte per essere etichettate con all’interno le cosiddette “farfalline” che galleggiavano. Era il bitartrato acido di potassio, precipitato poiché le bottiglie erano state per troppo tempo a contatto col freddo integralmente e non avevano ghiacciato subito. Abbiamo dovuto stappare e ritappare tutto. Ottenemmo, così, le prime 200 bottiglie. Fatte assaggiare, il riscontro positivo fu immediato.

Un fenomeno come quello che c’è qui in Franciacorta poteva succedere solo da queste parti?

No, poteva succedere anche altrove.

Però qui c’è un retroterra industriale di un certo tipo.

Certo, qui ci sono molte riserve economiche, se intende questo.

Molti in questa zona mi hanno sempre detto che se avessero aspettato la mentalità contadina non sarebbe mai sorto il fenomeno Franciacorta come lo conosciamo oggi. È vero?

È vero anche questo, però devo dire che anche i contadini qui hanno spirito imprenditoriale. È nel DNA delle persone.

Dopo di lei chi l’ha seguita?

Maurizio Zanella. Dopo di lui, anno dopo anno, sono cresciute e nate altre aziende.

Quando è partito cosa le dicevano? Le remavano contro o erano a favore?

Quando noi abbiamo abbandonato la denominazione di origine (1975 ndr) ci hanno dato contro. Ma era ovvio che succedesse. Però, hanno ricavato buon gioco da questo fatto, soprattutto nel campo dell’Ho. Re.Ca e della ristorazione; in quel settore gli faceva gioco che noi non fossimo più in Franciacorta. Noi, poi, il canale Ho.Re.Ca ai tempi non l’abbiamo mai seguito benissimo. Le prime bottiglie io le ho vendute ad amici e conoscenti. E poi alla Grande Distribuzione.

Chi, della Grande Distribuzione, ha creduto in lei?

Il primo fu un bresciano. Poi arrivò la Metro, proprio all’inizio quando la stavano costruendo. Ci sono state diverse situazioni, forse irripetibili, che hanno fatto sì che succedesse quello che vede oggi in Franciacorta, non c’è un solo fattore. Certamente qualcosa di unico. Oggi siamo quasi a 2500 ettari di chardonnay. È una bella realtà, dobbiamo però stare attenti a non esagerare, specie con il prezzo troppo alto delle uve.

Nel 1975 è dovuto andare in Oltrepò Pavese ad acquistare le uve per poter produrre di più e soddisfare una domanda che cresceva esponenzialmente.

Siamo andati a comprare le uve là dove si diceva che ci fossero le zone più vocate (in Trentino per acquistare chardonnay ndr.). Per i primi tre anni il vino, però, non dava i risultati che cercavamo. In particolare, dal quarto anno in poi il pinot nero dell’Oltrepò Pavese prevaleva all’interno della cuvée.

State tornando, con la raccolta delle uve, definitivamente in Franciacorta.

Siamo già in Franciacorta da tempo. Abbiamo, semplicemente, aspettato che ci fosse uva a sufficienza per noi. Era rischioso farlo prima, avremmo fatto salire troppo il prezzo. Siamo rientrati lentamente. Anzi, i miei figli hanno voluto farlo a piccoli passi, fosse stato per me ci avrei impiegato meno tempo.

In Oltrepò Pavese se la sono presa?

Un po’ sì. E non solo lì, anche in Trentino. Gli impianti che avevamo in quelle zone li stiamo smantellando. Sa, ora però c’è il problema dei giorni di vendemmia. Bisogna ridurli perché fa troppo caldo. La prima uva raccolta rispetto all’ultima è completamente diversa e le acidità rischiano di andarsene. Bisogna abbreviare i tempi, avere tutto vicino ed essere dotati delle presse adatte. Abbiamo investito molto in questo. Abbiamo un impianto unico in Italia di presse Coquard. Il merito è stato di mio figlio, che ne ha ordinate ben 8.

Molti dicono che da qualche anno a questa parte i Franciacorta siano cambiati, siano meno dosati. È vero?

Sì, è vero, sono cambiati. Ma è una questione di maturazione delle uve più che di dosaggio.

Il dosaggio è una ricetta segreta?

Guardi, c’è molto marketing intorno alla questione del dosaggio.

È vero che l’arte del metodo classico si riconosce nella cuvée, quindi con la pratica dell’assemblaggio di uve diverse che vengono da zone diverse?

Certo.

Glielo chiedo perché, invece, secondo altri, è nel millesimato, magari proveniente da un singolo terroir, non dosato, che si riconosce la grandezza di una bollicina.

Anche questo è marketing. Sempre che uno non abbia a disposizione un terreno molto particolare dove il vino che ricava abbia esso stesso caratteristiche uniche. Però la cuvée è importante ed è altrettanto affascinante e difficile: anche unendo vini base ottenuti con le stesse uve, ma con spremiture diverse, otterrà vini diversi.

In Franciacorta ci sono terroir così diversi?

Il terroir non è molto diverso, però ci sono vini più o meno armonici a seconda delle zone. Mettendoli assieme può raggiungere il giusto equilibrio, pur a parità di gusto, che è sempre lo stesso e dipende esclusivamente dal terroir.

Qui avete un clima diverso, ovviamente, dalla Champagne. È preoccupato per i cambiamenti climatici in atto?

Da 10 anni a questa parte, purtroppo, si anticipa la vendemmia sempre di più, e questo, certamente mi preoccupa. Non basta però anticipare, un conto è la maturazione lenta, un conto è dover sempre anticipare.

Si dice sempre che bisogna destagionalizzare il metodo classico. La cultura dell’abbinamento ha certamente fatto a passi in avanti, ma a che punto siamo?

Siamo ancora, purtroppo, all’ABC. In Italia lei trova ancora ristoranti che, per esempio, non sono attrezzati con i frigo giusti per conservare il metodo classico o, addirittura, non hanno il ghiaccio a disposizione per poterlo servire correttamente.

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