Campania, l'unicità della molteplicità

Campania, l'unicità della molteplicità

Territori
di Susi Bonomi
20 luglio 2020

Quarto appuntamento dell’iniziativa Annessi e Connessi di AIS Lombardia con Guido Invernizzi, in un viaggio attraverso luoghi, vitigni e vini della Campania.

Parlare di Campania è per Guido sempre una grande gioia per la sua variopinta diversificazione di vitigni soprattutto autoctoni, molti dei quali si prestano a essere vinificati in purezza con risultati sorprendenti.

Trasmettere la passione con la barriera di uno schermo non è sicuramente semplice, ma a Guido bastano solo pochi minuti per immergersi nella nuova realtà imposta dalle esigenze di distanziamento sociale e trascinarci con lui nella scoperta dei più piccoli angoli di questa regione che vanta la storia vitivinicola - escludendo il Medioriente - più antica del mondo.


RelatoreLa storia è una delle altre grandi passioni di Guido che connette il “quando” al “dove” e al “perché” legando il tutto in una serata che, in tempi “normali”, terminerebbe con la degustazione dei vini del territorio. In attesa di farlo tutti insieme in un’aula è possibile comunque approfittare di questa nuova modalità a mero scopo didattico. E Guido, come divulgatore e conoscitore di vini, quando si tratta di diffondere il suo sapere sulla Campania, non si risparmia di certo tanto da aver ricevuto, nel 2015, la cittadinanza onoraria di Furore proprio per aver contribuito alla «valorizzazione del Patrimonio Culturale e Ambientale e alla promozione turistica» del comune salernitano.

E allora, scaldati i motori, si parte proprio dalla storia.

L’origine della viticoltura campana risale all’800 a. C. quando gli Eubei, commercianti greci, navigando per i mari approdano a Ischia (Pythecusa). Vi si stabiliscono e, trovando terreno fertile e adatto alla vite, cominciano ad allevarla con le tecniche adottate in patria. Inizia così a svilupparsi una fiorente economia vitivinicola che nei secoli vede trasformarsi il paesaggio ma che, allo stesso tempo subisce pesanti rallentamenti e periodi bui. Alla fine del XIX secolo dall’America arriva la devastante fillossera che decima i vigneti di tutta Europa, ma che qui ha vita difficile per la presenza di un suolo vulcanico che ne rallenta – e in alcuni casi ne impedisce – l’avanzamento.

Il nome Campania risale al IV sec a. C. e deriva, probabilmente, dagli antichi Capuani, coloro che vivevano nella regione sotto l’influenza di Capua, Ager Campanus. Per lo storico greco Polibio, questi abitavano il «paese intorno al Cratere», con chiaro riferimento al vulcano per eccellenza, il Vesuvio.

La superficie regionale conta 13595 km2, 34% montagna, 51% collina e 15% pianura, con una superficie vitata di 23281 ha. Il clima è mite, mediterraneo sulla costa e continentale nel Sannio e nell’Irpinia.


La CampaniaI terreni vulcanici ricchi di minerali si trovano un po’ dappertutto poiché nel corso dei millenni, le numerose esplosioni, rilasciando anche lava in atmosfera hanno dato origine a depositi di cenere di diversa composizione su tutta la regione, che ne ha beneficiato. Naturalmente sono intrinsecamente vulcanici i terreni sulle pendici del Vesuvio, nei Campi Flegrei, a Ischia e nella zona dove insiste il vulcano estinto di Roccamonfina. Terreni prevalentemente calcarei si trovano nel casertano, nel Massico, nei Monti Lattari e a Capri. L’Irpinia è invece la zona più diversificata a livello geologico; qui si trovano marne, sabbie, tufo e suoli vulcanici.

Fra i vitigni coltivati, oltre a piccole quantità di vitigni internazionali, sono quello autoctoni quelli più interessanti. Fra le uve rosse abbiamo l’aglianico, il cosiddetto “Barolo del Sud”, a maturazione tardiva che dà vini con acidità, struttura, tannino, carica cromatica, con grandissima potenzialità di invecchiamento e versatilità. Si presta a dare vini semplici, beverini e piacevoli, rossi opulenti da lungo invecchiamento, rosati, spumanti Charmat e Metodo Classico veramente interessanti. L’aglianico (min. 85%) è presente nelle due DOCG della regione: il Taurasi, in provincia di Avellino, e l’Aglianico del Taburno, nel beneventano. In gascromatografia, ma anche all’analisi sensoriale, abbraccia molte famiglie di profumi avvicinandosi alle caratteristiche del cabernet sauvignon.

Altra uva rossa campana è il per’e palummo o piedirosso, con i suoi 2000 anni di storia, citata da Plinio il Vecchio come colombina per via del colore rosso del raspo che, privato degli acini, somiglia a una zampa di un colombo. Diffusa, ma non dappertutto, è un vassallo dell’aglianico e con esso va a braccetto. Rispetto a questo ha meno polifenoli, meno tannino e meno colore. Più morbido e rotondo dell’aglianico ne smorza gli spigoli. Vinificato anche in purezza, prevalentemente nei Campi Flegrei e nel Sannio, emana profumi di frutti rossi, soprattutto fragola, e di violetta in invecchiamento. 


I vitigni rossiIn provincia di Napoli non si può non citare il Gragnano, vino rosso frizzante menzionato anche da Totò in Miseria e nobiltà che, nella composizione, oltre a piedirosso e aglianico, prevede l’uso dello sciascinoso(localmente olivella) fino a includere, in quantità minori, altri vitigni a bacca nera idonei o consigliati per la provincia di Napoli.

Altre uve, presenti in areali molto piccoli, danno risultati ottimi. Fra questi il tintore (a Tramonti, Capri e nel beneventano); il primitivo (in provincia di Caserta si fa il Falerno del Massico); la barbera del Sannio (camaiola, nella zona di Castelvenere, nel beneventano, che in una degustazione alla cieca si confonde con la Lacrima di Morro d’Alba o il Ruché di Castagnole Monferrato, per i suoi sentori di viola, spezie, liquirizia); la guarnaccia (uva che arriva dalla Spagna che altro non è che garnacha, grenache, bordò) che si trova a Ischia.

Fra i vitigni minori che si trovano solo in Campania, ma che si sono affermati negli ultimi decenni, abbiamo il casavecchia e il pallagrello. Il primo, recuperato da un’antica vite allevata per propaggine trovata vicino a un rudere a Pontelatone (Caserta), dà un vino fruttato, dai tannini morbidi, con note erbacee, speziato (tabacco, funghi, sottobosco), molto adatto all’invecchiamento. Il secondo, con le due varietà a bacca bianca e nera, ha una storia antica. Di origine romana, dall’acino rotondo come una biglia, era presente nella famosa Vigna del Ventaglio voluta da Ferdinando IV di Borbone, che intendeva ospitare e valorizzare tutte le migliori varietà di vite coltivate nel Regno delle Due Sicilie. Il pallagrello bianco, nella versione in solo acciaio è fresco, sapido, floreale e fruttato. Se evolve in legno si arrotonda sviluppando note quasi tropicaleggianti, di frutta gialla matura. Se si dovesse paragonare a un vitigno internazionale, può ricordare il viognier. Il pallagrello rosso è fruttato, speziato, morbido e sapido, meno complesso dell’aglianico; il vitigno internazionale a cui più assomiglia è il merlot.

Passando in rassegna i vitigni bianchi abbiamo il fiano a cui è associata la DOCG Fiano d’Avellino. È un vitigno adattabile e il più versatile dei bianchi campani la cui zona d’elezione è l’Irpinia, ma dà buoni risultati anche nel Cilento pur crescendo su terreni e con clima diversi; solo piacevoli i Fiano del Taburno. In gascromatografia sono stati identificati una quarantina di picchi odorosi a bassa soglia di percezione. I descrittori aromatici sono molto variabili a seconda delle zone in cui è coltivato: dalla scorza di agrume alle note di idrocarburo, con un floreale sempre presente. Meno adatto del greco per la spumantizzazione, è ottimo per passiti in purezza o con il greco.


I vitigni bianchiIl greco è il vitigno bianco da cui si ottiene la quarta e ultima DOCG campana, il Greco di Tufo. Matura tardivamente, meno poliedrico e complesso del fiano, ha una carica cromatica maggiore, con sfumature quasi dorate. Note di mela e pesca - talvolta anche sciroppata -, mandorle e frutta secca. Dotato di grande acidità su una base di ottima struttura che gli conferisce elevate potenzialità di invecchiamento oltre a essere, insieme alla falanghina, il vitigno campano più idoneo alla spumantizzazione.

La falanghina è l’uva più coltivata in Campania, probabilmente il primo vitigno allevato con un sistema che più si avvicina a quello dei giorni nostri. Deve il suo nome alla falanga: palo attorno a cui si attorciglia la vite, distaccatasi dall’alberello greco e dall’alberata aversana dove la vite si arrampica attorcigliandosi intorno al pioppo. Ne esistono due biotipi molto diversi fra loro: la beneventana o falanghina di Bonea e la falanghina dei Campi Flegrei. La prima è allevata su terreno prevalentemente calcareo, in altura, sottoposta a grandi escursioni termiche che le conferiscono più acidità, alcol, aromi, corpo, struttura, potenzialità di invecchiamento. La falanghina dei Campi Flegrei, coltivata più in basso, su terreno vulcanico e con il mare difronte, ha maggior sapidità e mineralità, minor complessità aromatica, alcol e potenzialità di invecchiamento. Molto versatile, si presta a dare spumanti, vini in acciaio e barrique, passiti e vendemmie tardive. Da giovane sviluppa le tipiche note di banana che si trasformano in frutta secca e disidratata in evoluzione. Dovendo paragonarla a un vitigno internazionale, può assomigliare allo chardonnay.

La coda di volpe è un altro vitigno bianco campano di cui ha scritto, ancora una volta, Plinio il Vecchio, citandola come cauda vulpium, per la forma ad “S” del grappolo che nella parte terminale rivolta verso il sole diventa rossiccia/marroncina come la coda di una volpe. Se ne ottiene un vino immediato, fragrante, floreale e fruttato, che non ama il legno, ideale per l’aperitivo e da abbinare a piatti di pesce non particolarmente strutturati.

L’asprinio di Aversa cresce nel casertano, a nord dei Campi Flegrei, su terreno vulcanico/sabbioso. La sua indubbia caratteristica è la sferzante acidità o, come scrive Soldati in Vino al Vino: «Non c’è bianco al mondo così assolutamente secco come l’Asprinio: nessuno. … L’Asprinio profuma appena, e quasi di limone…». Il sistema d’allevamento è l’alberata aversana in cui la vite si arrampica fino a quasi 20 m costringendo la raccolta a mano con l’utilizzo di scale altissime su cui i vendemmiatori sono costretti a salire. Note citrine, agrumate e minerali, lievemente ammandorlate, lo si produce fermo o spumante metodo charmat. Sconsigliato con la pizza specie a base di pomodoro, la morte sua è con la mozzarella di bufala.


Alberata aversanaA Ischia troviamo la biancolella, presente anche in Costiera amalfitana, con le sue note balsamiche, di frutta e erbe aromatiche, ma più poeticamente «Ginestra nel bicchiere su leggero sfondo salato», come Veronelli amava definirla.

Terminiamo la serata con Guido con le sue uve del cuore: ripoli, fenile e ginestra, presenti solo in Costiera amalfitana. La DOC Costa d’Amalfi è costituita da tre sottozone: Tramonti, Ravello e Furore ed è prevalentemente in quest’ultima che si trovano questi vitigni da cui si produce il Fiorduva, celebre vino nato dall’incontro tra il Prof. Luigi Moio e Andrea Ferraioli, della cantina Marisa Cuomo. In questa zona il terreno è calcareo-dolomitico con terrazzamenti a picco sul mare. La fillossera, questi luoghi, non li ha mai visitati. Ed è qui che si fa la vera viticoltura eroica, ma la fatica, si sa, alla fine paga sempre!